Marco Ercolani - Lucetta Frisa
Ettore Bonessio di Terzet (1944-2015)
Così Ettore Bonessio di
Terzet traduce Emily Dickinson: “Una
parola muore / quando si dice, / dicono. / Io dico appena / inizia a vivere /
allora”. Che la parola inizi a vivere dicendosi: ecco quanto pensa Ettore
Bonessio, poeta, saggista, docente di estetica, della parola poetica. Nel
numero 17 della rivista da lui inventata “Il Cobold - rivista di estetica e di
spazi creativi”, a fronte di un quadro di Giovanni Castiglia, “La falena e il
muro”, scrive: “Intraprendere il viaggio
con animo /presto di trasfigurazioni: dalla soglia / ogni accento dice Forma”.
È una delle innumerevoli dichiarazioni teoriche sull’arte disseminate nei suoi
libri. Inesauribile inventore di bizzarri progetti editoriali, da sempre
immerso in una confusa, impaziente, adolescenziale ricchezza di idee, Ettore
Bonessio ci appare oggi, a pochi mesi dalla morte, come personaggio “sempre”
inattuale, soprattutto “persona viva” di cui ricordiamo l’aggrovigliarsi
contraddittorio del pensiero e l’impetuosa, esibita esuberanza. “Ogni opera – scrive -
nasconde un pensiero di verità che è origine, tendenza e finalità della
processualità poetica. Capire la poesia è mettere in luce il suo rapporto con
la verità che è il riconoscimento e il dire l’essere nelle sue valenze
all’interno del discorso artistico-poetico”. Generoso, quasi eccessivo
nell’invitare gli amici scrittori in sempre nuove antologie, curioso nel
favorire nuovi talenti o nel fiutare una silloge geniale in poeti spesso
sommersi o dimenticati, Ettore, da sempre innamorato dell’armonioso Matisse, sa
bene, con il pittore, che “il n y pas de passion sans l’art”, e fino all’ultimo
giorno di vita ha svolto instancabilmente la sua funzione rabdomantica di
esploratore dell’identità della poesia: “un’ordita
avventura senza fine… la sostanziale possibilità per il farsi di una nuova
civiltà costantemente da costruire, costantemente da ricostruire, en avant”.
Pur rischiando di essere
debordante, contraddittorio, anche troppo prodigo del suo talento, Ettore si
dissipa e si trova nell’ermeneusi sulla natura della poesia. Non smette di
teorizzare l’atto creativo, la magia del “poiein”, la sua potente utopia
conoscitiva. “L’esercizio scritturale
accomuna le grandi dimensioni artistiche nella consapevolezza estrema del
proprio senso e sentimento, della propria lingua della mia lingua del “significato
di ogni parola” (Eliot) perché la storia sia evento e non scivolamento verso la
falsità, l’odio, l’avidità: chiarire la contemporaneità perché l’arte della poesia
sia, e non annientamento (Cvetaeva)”.
Ma “l’esercizio scritturale”
è sempre contiguo agli enigmi dell’arte visiva. Ancora a fronte di un quadro, “Farfalle”, di Giuliano Della Casa,
scrive: “il taglio del bordo non acceca /
il gioco dell’occhio: tra i nidi / il visibile atomo della Natura”.
Forse, alla fine di
tutte le ricerche, potrebbe avere ragione Auden, il poeta più amato da Ettore:
“Nulla di notevole per nessun verso; / poi il viaggio di ritorno a casa / nel
treno suburbano troppo caldo / verso il quartiere nuovo sgargiante, / panni
malconci, sporco, intontito e in ritardo: / a casa per la cena poi a letto. /
Saremo così dopo morti?”. Non lo sapremo mai. Per noi è stato un onore e una
gioia aver conosciuto in vita questo stravagante ragazzo, che rinasceva e si
rianimava a ogni nuovo “pro-jectum”, mettendo in gioco e in scacco le sue
convinzioni. Lo salutiamo qui con sincera nostalgia.