Eric Stark
Budd Boetticher
Robert
Nott: THE FILMS OF BUDD BOETTICHER. McFarland and
Company, 2018
Se, con il suo passare
dalla Columbia alla Monogram, dalla United Artists alla Ranown, Budd Boetticher
si negò il salto definitivo nella serie A dei registi, riservandosi una vita di
successo postumo tra passaggi televisivi e retrospettive festivaliere, va detto
quel suo transitare da uno studio all'altro è spia di un carattere pronto ad
accendersi ogniqualvolta il lavoro alla linea d'assemblaggio, per le
prevaricanti e spesso immotivate pressioni di produttori, venisse avvertito
come pericolosamente prossimo al totale soffocamento delle sue doti
artigianali. Svolgendo poi, ed esplicitando, la nota battuta rivoltagli da
Sergio Leone (“Da te ho preso tutto”,,, sarà così, ma nella lunga intervista a
Simsolo per i Cahiers Boetticher non viene mai citato) c'è chi ha reso
il regista de I Tre Banditi/The Tall T (1957) precursore dello
spaghetti-western (la morale spiccia del “tutti perdono” e, negli esiti meno
luttuosi, del “tutti gabbati” o la figura del villain, Lee Marvin innanzitutto,
dai tratti carismatici e spesso, a sua volta, incantato dall'eroe) tesi non del
tutto peregrina considerato che il ciclo di B-western degli anni '50 con il “laconico” Randolph
Scott con i film italiani condivideva l'economia di mezzi produttivi e la messa
a tema della ricerca di una giustizia inseparabile da uno spirito di vendetta,
fatta salva la diversa caratura di controllo e rigore praticati sulla costa del
Pacifico e sulla riva del Tevere. Se alcune scelte, vedi lo humour dello
sparatutto Il Cavaliere Solitario/Buchanan Rides Alone (1958)
confermando la filiazione sembrerebbero annunciare tante produzioni italiane
giocose ed insensate del decennio successivo, il riconoscimento del dovuto
contribuì comunque, al di là delle intenzioni, a definire il profilo
direttoriale di Boetticher, con suo grande scorno, all'interno di un genere e a
scapito di tutto il resto. Difatti, retrospettivamente, egli amava
puntualizzare all'intervistatore: “Fammi dire una cosa. Non faccio Western.
Faccio dei film. È la solita pigrizia di tutti quei critici ! Ho girato 52
film, 12 dei quali Western e loro ripetono: è un regista di Western; non ha
senso”. Ora Nott, pur volendo reintegrare l'immagine parziale di Boetticher
passando in rassegna “tutti i film, non solo i Western con Scott, quelli sulla
corrida e i pochi polizieschi”, e una volta constatato come vi sia parecchio di
scadente nel suo canone non può non concordare sul fatto che il picco per cui
egli verrà ricordato consista proprio nella manciata di western con Randolph
Scott, al tempo reputato in fase discendente e dunque, per via dei suoi
investimenti in miniere ed azioni, interessato alla lettura del “Wall Street
Journal” più che di “Variety”. In
qualche modo recidivo, perché già autore di un testo su Scott, Nott è diligente
nella ricapitolazione di una carriera intrapresa come per caso e, pur nell'equa
concessione di spazio ad ogni film firmato da Boetticher, annota pecche e
debolezze delle opere estranee alla serie di western con Scott, vietandosi
azzardi rivalutativi riguardo a The Magnificent Matador (1955) o
The Killer is Loose, due titoli spesso citati da chi voglia fare di
Boetticher un grande regista a tutto tondo: il primo, nonostante il titolo e la
presenza di A. Quinn e M. O'Hara, annacqua in un verboso melodramma di
paternità nascosta sotto la protezione della madonna gli spunti pregevoli del
precedente L'Amante del Torero/The Bullfighter and the Lady (1951),
più credibile il secondo (già fotografato da Lucien Ballard, a lungo con il
regista) in cui lo psycho-killer Wendell Corey sovrasta le
interpretazioni di Joseph Cotten e Rhonda Fleming precorrendo per così dire
tematicamente il vendicatore dei western. Né può bastare ricordare l'onirismo
malato di Escape in the Fog, thriller spionistico infiltrato di
sovrannaturale e incubi premonitori o la viva brutalità del gangsteristico The
Rise and Fall of Legs Diamond (1960). Alla fine bisogna arrendersi: nel
western Boetticher ha dato il meglio definendone il senso fino ad evadere dalla
riduttiva classificazione di regista di B-movies nel ritratto dell'eroe, uomo
“morale” in un universo amorale (o in quanto giusto che agisce nel vuoto morale) ripreso, all'atto
della scelta e della decisione, nella transizione dallo status individualistico
a quello iconico. Western di serie B, i suoi, solo quanto a scarsità di mezzi
ma in grado di rappresentare, proprio in tale “povertà”, una convivenza ridotta
ai fondamentali, evitando la caduta nello schematismo a danno di contraddizioni
e complessità della natura umana.
Nello spazio violento del
west (spari in faccia e ganci da scaricatore conficcati nel braccio) fuori
dall'arena del primo film messicano del 1951, Boetticher non deve preoccuparsi
che l'aggressivo esibizionismo yankee di Stack sia messo in forma e ritualizzato dal maestro
toreador Manolo (Gilbert Roland). Dimenticato il rito, Randolph Scott inventa
sotto i nostri occhi i gesti e gli espedienti che lo terranno comunque fuori
dal conveniente e dal convenuto, proprio per seguire, svolgendolo insieme a
noi, l'incerto filo della decisione sensata.
Da ex-atleta, folgorato
in Messico dal mondo delle corride,
Boetticher decise di consacrarsi all'arte della tauromachia abbandonandola dopo
aver ricevuto il “segno del coraggio” (quelle cicatrici che nel suo caso erano
visibili solo a pantaloni calati) ma stabilitosi in California, dopo la
collaborazione con le produzioni discount di Hal Roach e l'impiego come
consulente tecnico per Sangue e Arena di Mamoulian, la sua carriera subì
una prima battuta d'arresto per cause belliche. Nel dopoguerra ci furono le
regie per la Eagle-Lion e la Monogram e poi, nel '50, la svolta, complice un
John Wayne produttore, con la direzione di The Bullfighter and the Lady.
Ormai, fattosi un nome
come regista che rispettava budget e scadenze contrattuali (nove film per
Universal in 2 anni, tanto da far dire a Katy Jurado che “faceva film come
fossero tortillas”) pareva destinato alla tranquilla e prevedibile carriera
dell'onesto mestierante, quando si trovò a girare con Randolph Scott I Sette
Assassini/ Seven Men from Now (1956) su sceneggiatura di Burt Kennedy (da
un racconto di Elmore Leonard) ancora prodotto da John Wayne e preludio al
ciclo dei successivi western ora tanto celebrati. Nacque così, con la faccia
espressivamente inespressiva di un quasi sessantenne Scott, un eroe capace di
mostrare con poche parole, a segnalare come un distacco stoico, d'essere in grado di vivere proprio come
un uomo dovrebbe vivere, ispirando serenità, consapevolezza della solitudine e
dell'impermanenza delle cose ma non occultando, in alcuni episodi, certe
instabilità caratteriali da orgoglio tradito o punto d'onore mal riposto (Decision
at Sundown).
Se già i toreri di
Boetticher erano lontani dal machismo tramandato, adesso nel volto granitico
dell'eroe (figlio quasi del paesaggio desertico in cui si muove) venivano
ulteriormente ridefiniti i codici di una mascolinità non proprio estranea alla
fragilità (forse gli stessi codici che John Wayne e John Ford vedevano messi in
pericolo nella sequenza di The
Bullfighter and the Lady in cui l'aspirante torero Robert Stack indugia
troppo nella sauna con altri matador come lui vestiti del solo asciugamano).
In quei pochi
film-variazioni sulla ricetta di scelti essenziali ingredienti erano
tenute lontane le cortine della
verbosità e dell'emotività caricata che avevano conquistato molti registi
hollywoodiani (della lezione anti-infiorettamenti farà tesoro, tra i tanti,
Clint Eastwood una volta liberatosi dalla tutela di Leone). Dove le decisioni
vengono prese nello spazio desertico e nemmeno le stazioni di posta per il
cambio dei cavalli sembrano più funzionare, la formazione della comunità è
sempre rimandata e nei finali l'emozione spesso rima con disperazione. L'autore
ha buon gioco, a ribadirne l'importanza nella storia del western, che il primo
film con Scott è del '55, anno in cui termina la collaborazione tra Antony Mann
e James Stewart e che, finito il suo ciclo, toccherà a Sam Peckinpah
“rinnovare” il genere dal '60 in poi (questi tre nomi, Mann, Boetticher e
Peckinpah, furono già al centro del noto testo di Jim Kitses Horizon West (1969).
E sarà un'amara lezione, per Boetticher e per chi se ne ispirerà, che l'apice
della sua filmografia coincida, dal lato industriale, con il progressivo taglio
dei costi della produzione (sia L'Albero della Vendetta/Ride Lonesome che
La valle dei Mohicani/Comanche Station furono girati in 12 giorni) segnalando
il venire meno della fiducia dello studio-system nel Western e il suo
inarrestabile tramonto, fatte salve le non rare riuscite delle resurrezioni
revisioniste nei successivi decenni.
Meno indagata finora, la
relazione di Boetticher con la televisione (tra il '50 ed il '60) occupa la
parte finale di un libro sempre preoccupato dal fact checking e alieno da voli
teorici ombelicali: vi apprendiamo che egli diresse tra l'altro (perlopiù a
scopo alimentare) oltre agli shows di Dick Powell, riduzioni de I Tre
Moschettieri (parzialmente utilizzando il set dismesso della Giovanna
d'Arco con la Bergman) e del Conte di Montecristo ed altri
episodi di serie tv non proprio memorabili.
“Fogli di Via”, gennaio 2019