Giacomo
Checcucci
ripensando Bo
Bo Diddley è senza dubbio uno dei più importanti
musicisti della storia del rock. La sua musica ha influenzato intere
generazioni di giovani dal primo beat alle ultime tendenze, da Jimi Hendrix ai
White Stripes passando per i Clash. Meno pirotecnico di Chuck Berry e meno
famoso di Elvis Presley è però probabilmente il più determinante. Se il rock
basico degli Stones prima e il protopunk degli Stooges dopo segnano la propria
originalità allontanandosi dal modello-mito Chuck Berry e dal suo chitarrismo,
il ritmo di Diddley non viene rinnegato ma rappresenta l’ossatura della musica
a venire. Insieme a Link Wray, e alla sua passione per distorsioni e feedback,
è forse il vero punto di riferimento del garage e del mod e quindi, a onda
lunga, del punk. La percussività di Bo e l’impiego di effetti rumoristici di
Link, una volta miscelati, segnano la storia del rock non meno del connubio,
più commercialmente rilevante, di Chuck Berry con Buddy Holly, nei Beatles ad
esempio.
Quando Bo Diddley si cimenta con lo slide ha poco a
che fare con le sempre più raffinate tecniche bootleneck dei suoi colleghi
bluesmen, che tra i ’50 e i ’70 rendono elegante e ricercata la musica del
profondo sud. Il suo slide ha a che fare strettamente con effetti estremi di
glissato della musica primitiva africana. Bo incarna l’ala più avanzata del blues,
del rhythm & blues, tanto da essere annoverato tra i padri del rock’n’ roll
ma allo stesso tempo è il musicista che più prepotentemente ritorna al
pre-blues, al blues prima del blues, alla musica africana che ha dato origine
ai generi musicali d’oltreoceano. Il percorso di Bo ha concettualmente numerosi
punti in comune con quello dei Creedence Clearwater Revival, che, nel loro
tentativo di riallacciarsi ai generi rurali della Louisiana di inizio ‘900,
hanno attinto a piene mani dalla musica pre-blues conservando però, non a caso,
il ritmo di Bo Diddley come elemento cardine della loro ricerca.
Il suo ritmo è il ritmo del rock. La semplicità
basilare della sua proposta musicale è talmente scarna da sembrare il
corrispettivo “popolare” del minimalismo colto di La Monte Young. Il suo
percorso poi è quello di un intellettuale primitivista, di un Pablo Picasso o
di un Harry Partch. Impara a suonare il violino e il trombone ma accantona gli
strumenti classici per imbracciare la chitarra. Una volta passato alla chitarra
non vi si dedica con un approccio tecnico nel tentativo di approdare ad un
qualche virtuosismo. Utilizza il suo strumento come fosse un monocorde
primitivo. E in effetti il suo nome d’arte, Bo Diddley, proviene dalla parola
con la quale veniva denominato uno strumento rudimentale con una sola corda
impiegato nella zona del Mississippi ma di origine africana: il “Diddley Bow”.
L’obiettivo di Bo Diddley è quello di realizzare
pezzi con meno complicazioni formali possibili, con linee melodiche tra le più
semplici e con numero di accordi ridotto all’osso. La sua ambizione, a dire il
vero, è quella di costruire brani con un solo accordo, nei quali è il ritmo a
farla da padrone. E il ritmo di Bo Diddley, con poche variazioni, viene
adottato dai Rolling Stones, dai Velvet Underground e dagli Stooges e
attraverso loro dal punk ‘77 e oltre fino al rock contemporaneo. Quel ritmo
così ossessivo e così tribale basato su una batteria suonata a colpi sulle
pelli, spesso trascurando i piatti, affiancata dal suono delle maracas è di
chiara origine africana. Il cosiddetto “Diddley Beat” non è altro che
l’aggiornamento, nell’America degli anni ’50 e con gli strumenti elettrici,
dell’“hambone”, il mitico ritmo della musica nera. Influenzato in questo da
John Lee Hooker e dal suo boogie-woogie asciutto e rurale, si spinge più in là
decostruendo la musica nera fino ai suoi minimi termini biologici.
Se John Lee Hooker è autore di un blues con forti
venature ancestrali, Bo Diddley, pur nel progresso tecnico dato dall’adozione
della strumentazione moderna, riporta le lancette indietro di cento anni.
Realizza con la chitarra elettrica vera e propria musica primitiva. La
chitarra, simbolo ed emblema del musicista, è poi un ulteriore prova del suo
tragitto. La “Twang Machine” di sua invenzione, prima costruita in proprio e poi realizzata dalla “Gretsch”, è rossa di colore e ha la
cassa rettangolare. Questa forma vuole ricordare le “Cigar Box”, ovvero le
chitarrine costruite in casa nella zona del Mississippi con le scatole di sigari,
e indirettamente i liuti africani rettangolari della famiglia dei “Guinbri”. Si
deve ricordare poi che nella zona del Mississippi la “Cigar Box” più elementare
con una corda sola veniva chiamata anch’essa “Diddley Bow”. Alla domanda del
perché avesse ideato una chitarra con quella forma, Diddley rispondeva che lo
aveva animato il desiderio di fare qualcosa di diverso. Come nei grandi
artisti, da Picasso a Partch, l’idea del nuovo consiste nel tornare al
primitivo. Non ci stupiamo quindi che sia stato un riferimento così importante
nella storia del rock e che abbia rappresentato per indole e approccio qualcosa
di simile a quello che Ornette Coleman ha significato per il jazz.
“Fogli di Via”, novembre
2012