Massimo Bacigalupo

le disavventure di Ulysses

Domenica 16 giugno abbiamo festeggiato ancora una volta il memorabile giorno di Leopold Bloom, protagonista errabondo dell’Ulisse di James Joyce, che a Genova conta decine di ammiratori, pronti a dare voce ai diciotto episodi della sua odissea dalle nove di mattina a mezzanotte. Quando finalmente si è sentito Molly, la Penelope di questa storia, pronunciare (con la voce di Orietta Notari) il suo memorabile “sì” di accettazione di tutta la vita in tutti i suoi aspetti, grandiosi e meschini.

Infatti Joyce collocò il suo romanzo d’epica quotidiana il 16 giugno 1904 a Dublino, per omaggiare la sua compagna Nora che quel giorno egli aveva per la prima volta concesso i suoi favori. Scrisse il romanzo mentre i due figli avuti da lei crescevano fra Trieste, Zurigo (dove riparò durante la guerra) e Parigi (dove si trasferì nel dopoguerra per consiglio del mentore Ezra Pound) e lo pubblicò a Parigi appunto il 4 febbraio 1922, giorno del suo 40° compleanno. Un bel risultato, che ha dato da godere e penare a innumerevoli lettori e studiosi, come il testo sacro di un nuovo Shakespeare (giacché Joyce aveva un magistero linguistico insuperato, e Shakespeare del resto appare spesso accanto a Omero nel romanzo, dove il giovane Stephen, alter ego di Joyce, è vestito di nero  come Amleto e blatera filosofemi).

L’Ulisse ha dato anche del filo da torcere ai traduttori di tutte le lingue, e in Italia ha avuto una vicenda particolarmente accidentata. Ci sono voluti quasi quarant’anni prima che uscisse da Mondadori un’ottima traduzione firmata da Giulio de Angelis e sorvegliata da studiosi come Melchori, Izzo e Cambon. Ma prima il romanzo-monstre era passato per le mani di Vittorini, Montale, Praz, Pavese, Linati, Moravia e quant’altri. Una storia a cui partecipa il gotha del romanzo e della critica italiana, anche perché gli eredi di Joyce (morto nel 1941) insistevano che solo un poeta poteva tradurre il capolavoro.

Odissea comunque giunta felicemente in porto visto che la traduzione di de Angelis è tuttora in commercio, rende onore ai responsabili, e funziona molto bene alla lettura, anche se il fiorentino de Angelis si concede qualche toscanismo di troppo. Ma è poco male. Poi, nel 2012, sono scaduti i diritti e dunque tutti, anche tu e io, possiamo pubblicare qualcosa e chiamarlo “Ulisse di Joyce”. Ne ha prontamente e astutamente approfittato la Newton Compton, mettendo in commercio ad euro 9,90 un’ottima edizione curata da Enrico Terrinoni, giovane anglista docente a Perugia. Terrinoni la sa lunga sull’Irlanda e dunque ha potuto risolvere qualche enigma rimasto insoluto e ha lavorato con freschezza e modestia. De Angelis resta nel complesso di migliore resa alla lettura, più scorrevole come italiano, ma è un bel regalo questo che la Newton (spesso malignata per la politica al ribasso) ha fatto ai lettori di oggi (l’edizione, di pp. 852, è anche molto ricca di annotazioni intelligenti).

E’ invece di queste settimane la comparsa di una terza traduzione, dovuta all’emiliano Gianni Celati ed edita da Einaudi in un grosso volume blu, privo tuttavia di qualsiasi commento (pp. x-988, €28,00). Celati è uno scrittore-traduttore che di Joyce apprezza i fuochi d’artificio linguistici, le parodie, il gusto carnascialesco e carnevalesco e la sua impresa di tanti anni è stata molto festeggiata dai suoi corregionali.

E’ piaciuta meno a chi l’ha guardata in dettaglio, perché Celati, a parte gli errori inevitabili di ogni traduzione, sembra non essersi preoccupato di capire cosa voleva fare Joyce, un maniaco della precisione e dei richiami interni, creatore di un’opera sorvegliatissima in cui tutto si tiene. Celati ha tradotto a braccio, da poeta, un Joyce senza Joyce, o almeno senza un certo Joyce a cui eravamo abituati. Per cui lo leggeremo per il piacere della pagina e dello stile, per vedere come ha risolto da scrittore il corpo a corpo, magari qua e là tacitando il suo antagonista.

Certo chi ama il Joyce fulmineo negli accostamenti soffre quando vede una delle sue trame sottili ma nemmeno tanto, sempre divertenti, rese irriconoscibili nel nuovo Ulisse. Per esempio nel quinto episodio Bloom incontra un conoscente che gli chiede della moglie (con cui Bloom da anni non ha rapporti sessuali completi, da quando il loro secondogenito è morto in fasce) e in quel momento gli occhi gli cadono su una pubblicità del giornale che ha in mano:  “Una casa cos’è / se la pasta di carne Plumtree non c’è? / Incompleta. / Quando c’è è una casa da re” (de Angelis).

L’associazione è straordinaria: pasta di carne = sesso. E infatti quando alla fine delle sue peregrinazioni Bloom torna a casa (dove intanto la moglie si è sollazzata con l’amante) trova fra le lenzuola accanto a Molly semiaddormentata dei resti della carne Plumtree. Celati rende incredibilmente l’annuncio così: “Cos’è una casa senza / la carne in scatola Plumtree?/ Ben povera credenza / Anche se fosse quella del re”.  A parte il peccato veniale di prendere la pasta di carne in conserva per carne in  scatola, “ben povera credenza” non  rende in nessun modo quella parola così forte in Joyce: “Incomplete”. Cos’è la casa senza l’amore? Incompleta. E l’ultimo verso secondo Celati dice il contrario di quanto proclama il mago Joyce. Con l’amore, di tutti i tipi, sì che la casa sarà un paradiso.

Diciamo che la traduzione di Celati è “incompleta”, per quanto felici siano alcune soluzioni. Ma forse Joyce è così grande da reggere anche a un travestimento d’autore che non si preoccupa più di tanto di qualche incompletezza e anzi la dà per benvenuta. E’ anche un errore, certo, prendere Joyce troppo sul serio. E chi ha partecipato domenica 16 giugno al Bloomsday genovese ha potuto verificare che l’Ulisse è davvero una spassosa “casa da re”, con parecchia pasta di carne della migliore qualità. “il Secolo XIX”, 10 giugno 2013