E’ un Blanchot sessantenne e
spossato (qualcuno lo ricordava mentre a fatica si sottraeva al contatto dei
flics nella notte tra il 10 e l’11) quello che fiancheggia i fatti di maggio
con vari interventi non firmati. Già dopo pochi anni si riconobbe “autore” di
alcuni fra i più incisivi e D. Mascolo non faticò ad attribuirgli la stesura di
buona parte dei testi raccolti in Comité che, solo a chi ne ignorasse i precedenti,
potrebbero apparire marginali nell’opera dello scrittore del Libro a venire. Trattavasi non di senile apostasia di un precedente isolamento
spirituale, avvertito ora come miserabile a fronte della montante ebbrezza
comunitaria; senza riandare agli interventi su periodici di destra degli anni
trenta, basterebbe ricordare il manifesto dei 121 sulla guerra d’Algeria per capire come in maggio Blanchot
continuasse, nel personale scontro con de Gaulle, un suo confronto con
l’autorità (in ogni senso): la vanità del potere è tematizzata assieme alla
ribadita necessità del disordine nello stesso gesto che è libertà di dire tutto
e se, fra le righe, filtra qui e là il datato lessico militante dell’epoca, si
segnalano pure certi “avvertimenti” al Castro sclerotizzato ma ancora capace di
incantare (vedi Leiris) navigati scrittori. Tocca adesso al suo storico editore,
Gallimard, raccogliere, col numero unico del bulletin Comité, un mezzo
secolo di Ecrits politiques
(1953-2003) in buona parte già
editi ed entrati nel corpus di colui che volle “rovinare ogni appartenenza”. Qui
di seguito ne pubblichiamo due esempi.
Maurice
Blanchot
Scrivere su, questo è, in ogni modo, alquanto disdicevole. Ma
scrivere sull’evento che è proprio destinato (fra gli altri) a non permettere
che mai più si scriva su – epitaffio, commento, analisi, panegirico,
condanna - equivale a falsarlo in anticipo e ad averlo già mancato. Non
scriveremo dunque mai su quanto ebbe luogo, non ebbe luogo a Maggio: non per
rispetto, e nemmeno per la preoccupazione di non restringere l’evento
circoscrivendolo. Ammettiamo che questo rifiuto è uno dei punti verso cui la
scrittura e la decisione di rottura convergono: l’una e l’altra sempre
imminenti e sempre imprevedibili.
■ Sono già decine i libri pubblicati che trattano di quanto ebbe
luogo, di quanto non ebbe luogo a maggio.Sono generalmente intelligenti, in
parte giusti, forse utili. Scritti da sociologi, da professori, da giornalisti
o anche da militanti. Naturalmente, nessuno si aspettava di veder scomparire,
con la forza del movimento che in una certa maniera lo vieta, la realtà e la
possibilità del libro: vale a dire la compiutezza, il completamento.
■ Il libro non è scomparso, riconosciamolo. Eppure, diciamo che
tutto quel che nella storia della nostra cultura e nella storia tout court non
smette di destinare la scrittura non al libro, ma all’assenza di libro, non ha
smesso di annunciare, preparandolo, lo scuotimento. Ci saranno ancora libri e,
il che è peggio, bei libri. Ma la scrittura murale, un modo che non è
iscrizione né elocuzione, i volantini distribuiti frettolosamente per strada e
che sono la manifestazione della fretta della strada, i manifesti che non hanno
bisogno di essere letti ma si propongono come sfida ad ogni legge, le parole
del disordine, le parole fuori discorso che scandiscono i passi, le grida
politiche - e decine di bollettini come
questo, tutto ciò che sconcerta, convoca, minaccia e infine interroga senza
attendere risposta, senza riposarsi in una certezza, non lo chiuderemo mai in
un libro che anche aperto tende alla chiusura, forma raffinata della
repressione.
■ A Maggio, niente libri sul Maggio: non per mancanza di tempo o per
necessità d’ «agire», ma per un intoppo più decisivo; la cosa si scrive
altrove, in un mondo privo d’edizione, la cosa si diffonde faccia a faccia con
la polizia e in una certa maniera con il suo aiuto, violenza contro violenza.
Questo arresto del libro che è anche arresto della storia e che, lungi dal
riportarci a prima della cultura, indica un punto situato ben oltre essa, ecco
quel che più provoca l’autorità, il potere, la legge. Che questo bollettino
prolunghi, allora, quell’arresto, impedendogli d’arrestarsi. Nessun libro, mai
più libro, fino a quando saremo in rapporto con lo scuotimento della rottura.
■ Volantini, manifesti, bollettini, parole di strade infinite,
non è per scrupolo di efficacia che essi s’impongono. Efficaci o no, essi
appartengono alla decisione dell’istante. Appaiono, scompaiono. Non dicono
tutto, al contrario rovinano tutto, sono fuori di tutto. Agiscono, riflettono
frammentariamente. Non lasciano tracce: estratti senza traccia. Come la parola
sui muri, si scrivono nell’insicurezza, accolti sotto minaccia, portano essi
stessi il pericolo, poi passano col passante che li scambia, li perde o
dimentica.
Occorre ripetersi le cose basilari, sempre dimenticate: patriottismo, sciovinismo, nazionalismo,
nulla distingue questi movimenti, salvo che il nazionalismo è l’ideologia
conseguente di cui il patriottismo è l’affermazione sentimentale (come è anche
mostrato da penose dichiarazioni: “Ho sposato la Francia”). Tutto quel che
radica gli uomini mediante valori, sentimenti, in un tempo, in una storia,
in un linguaggio è il principio di alienazione che costituisce l’uomo
come privilegiato così com’è (francese, il prezioso sangue francese)
chiudendolo nella sua soddisfatta realtà e spingendolo a proporla come esempio
o ad imporla come affermazione vincente. Marx ha detto con tranquilla forza: la
fine dell’alienazione comincia solo quando l’uomo accetta di uscire da sé
stesso (da tutto ciò che lo istituisce come interiorità): uscire dalla
religione, dalla famiglia, dallo Stato. L’appello al fuori, un fuori che
non sia un altro mondo né un oltremondo: non c’è diverso movimento da opporre a
tutte quelle forme di patriottismo, quali che siano
■ Il patriottismo è il più prodigioso potere d’integrazione,
essendo quel che, nell’intimità del pensiero, nella pratica quotidiana, nel
movimento politico, è al lavoro per conciliare ogni cosa, le opere, gli uomini,
le classi, impedire ogni lotta di classe, fondare l’unità in nome dei valori
che particolarizzano (il particolarismo nazionale promosso ad universale) e
scartare la divisione necessaria, quella di una distruzione infinita. Il giorno
in cui, per astuzia tattica,il comunismo internazionale ha accettato di servire
la comunità nazionale, si è vergognato d’essere ritenuto il partito dello
straniero, ha perso quel che Lenin chiamava la sua anima. Anche parlare della
patria della rivoluzione, della patria del socialismo è ricorrere alla metafora
meno felice, la più adatta a risvegliare il bisogno di essere comunque presso
di sé, di sottomettersi al Padre, alla legge del Padre, alla benedizione del
Padre. Una sola parola, e l’uomo che vorrebbe liberarsi, si riconcilia. Il
partito diviene a sua volta la patria. I socialisti (in questo non più ridicoli
degli altri progressisti intransigenti) dicono in tono toccante: il partito per
noi è la famiglia e, beninteso, tutto si sacrifica al bene della famiglia, a
cominciare dal socialismo. Direi che il glorioso motto “la patria o la
morte”, se non privilegiasse la parola morte e di conseguenza la parola
vita, rischierebbe di condurre solo ad una paurosa mistificazione, poiché la
patria è, precisamente, la morte, la falsa vita che perpetua i valori morti,
oppure la penosa morte tragica, quella degli eroi, dei detestabili eroi.
Il comunismo: ciò che esclude (e si esclude da) ogni comunità già
costituita. La classe proletaria, comunità senza altro denominatore comune che
la penuria, l’insoddisfazione, mancanza in tutti i sensi.
■ Il comunismo accomodante: allorché Lenin, non indietreggiando
davanti alla parola, diceva che l’anima del comunismo, è ciò che lo
rende intollerabile, intrattabile. Riflettere sull’errore
dell’umanesimo è riflettere sull’errore del comunismo comodo, quando questo,
non volendo perdere niente, vuole riconciliarsi con tutto, ivi compresi i
valori umani, troppo umani, i valori nazionali.
■ Il comunismo non può essere l’erede. Di questo occorre convincersi: nemmeno
l’erede di sé stesso, e sempre chiamato a lasciar che si perda, almeno momentaneamente, ma
radicalmente, il lascito dei secoli, per quanto venerabile. Lo iato teorico è
assoluto; la cesura di fatto decisiva. Tra il mondo liberal-capitalista, il
nostro mondo, e il presente dell’esigenza comunista (presente senza presenza)
non v’è che il legame di un disastro, di un mutamento d’astri.
( a cura di J. M.)