In linea di principio, un libro scritto in prima
persona, come lo è questo romanzo, inserisce tra le cose che accadono realmente
lo spessore di uno sguardo e l’affermazione di una presenza.
La stranezza di questi libri potrebbe dunque provenire
da ciò: scritti in prima persona, sono letti in terza. E forse anche da
un’altra contraddizione: affermazione di una presenza, sono la storia di un
presente.
Chi scrive «Io»,
persino in un libro dal quale si giudica del tutto assente, dimostra senza
dubbio una grande compiacenza nei riguardi di se stesso. Poiché affermarsi non
equivale necessariamente a mettere più «Io»
nel mondo, ma anche a cercare di non mettere nessuno là dove c’è «Io».
Giugno 1948
Indubbiamente non vi è nulla di comune tra questi due
libri, Le Très-Haut, L’arrêt de mort, che vengono pubblicati
nello stesso tempo. Ma, a me che li ho scritti, sembra che l’uno sia in certo
modo presente dietro l’altro, non come due testi che si implicano a vicenda, ma
come le due versioni inconciliabili, e tuttavia concordanti, di una stessa
realtà, ugualmente assente da entrambe.
Giugno 1948
Di questo racconto, si vorrebbe soltanto dire che ciò
che riferisce è vero. Ma è anche l’approssimarsi a quel momento in cui non c’è
nulla di vero, in cui nulla si rivela, in cui, nel cuore della dissimulazione,
parlare non è ancora nient’altro che l’ombra della parola, quel mormorio
incessante e interminabile a cui è necessario imporre il silenzio, se si vuole,
finalmente, farsi sentire.
Novembre 1951
Vorrei poter facilitare la lettura di queste pagine,
esprimendo (secondo le consuetudini) in forma semplificata ciò che esse cercano
di dire. Ma, onestamente, non posso farlo. Mi accontenterò dunque di alcune
osservazioni sul carattere del racconto. Quel che potrebbe colpire e
contrariare il lettore, è il suo movimento discontinuo: spesso da un paragrafo
all’altro, a volte da una frase all’altra, c’è un’interruzione, un arresto.
Supponiamo che a un autore abituato alla felice (o infelice) continuità della
narrazione si sia imposta la necessità di scrivere, talora quasi simultaneamente,
delle frasi separate, brevi, chiuse, che si rifiutano di proseguire e restano
come dritte nel vuoto, rigide, testarde ed immobili. Questa simultaneità di
frasi, le une a distanza dalle altre, inizialmente può solo essere accolta come
un tratto inquietante, poiché significa una certa rottura delle connessioni
interne. Tuttavia, alla lunga e dopo che si sono fatti dei tentativi di
unificare brutalmente, con una costrizione esteriore, ciò che è sparso, risulta
chiaro che anche questa dispersione ha la sua coerenza e corrisponde persino a
un’esigenza ostinata, anzi unica, volta all’affermazione di un rapporto nuovo,
forse lo stesso implicito nelle parole giustapposte che danno il titolo al
racconto. Devo aggiungere che la supposizione appena formulata resta solo una
supposizione.
Di ciò che è stato suggerito in questa forma indiretta
(e senza riferimento all’opera qui presentata), ricordiamo però che una forma
discontinua può ancora essere una forma e trasmettere il senso di un movimento
ininterrotto; ricordiamo nel contempo che, se la poesia è la dispersione stessa
che, in quanto tale, trova la sua forma, anche il lavoro romanzesco può
pretendere di lottare contro lo spirito della dispersione, e a partire da
quest’ultima.
È vero che il romanzo moderno, romanzo d’un mondo
senza coerenza, ha dato luogo soprattutto a ricerche della continuità, in ogni
senso del termine, opere di coesione massiccia nelle quali però la rottura è
più dissimulata che dominata, e in fin dei conti viene resa segretamente attiva
(quelle di Proust, Joyce, Faulkner, Broch…). Ma, per contro, immaginiamo
un’immensa memoria vuota, con pochi ricordi sparsi, irrelati, e tuttavia in un
rapporto incessante fra loro; forse una simile memoria riuscirebbe meglio, se
potessimo giungere fino ad essa, a restituirci lo spazio della pura continuità,
là dove il memorabile non ha più corso e dove (come si dice qui) non importa
ricordare o dimenticare, ma, ricordando, essere fedeli all’oblio nel cui spazio
si ricorda e, dimenticando, essere fedeli a quel venire che ci fa ricordare.
Marzo 1962
(trad.
di Giuseppe Zuccarino)