Massimo Bacigalupo
Bishop - Lowell, bon-ton
e deliri
Un
bel titolo, Scrivere lettere è sempre pericoloso, ci invita alla lettura
di un’ampia scelta della corrispondenza di Elizabeth Bishop e Robert Lowell (a
cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 445, € 39,00). Poeti americani (del Nordest) fra i più
rappresentativi e ammirati degli anni centrali del Novecento, sono i
contemporanei dei nostri Sereni, Caproni, Luzi, Zanzotto e compagni, e come
questi godono fuori patria solo di una fama di cenacolo. La poesia viaggia
poco, a meno di non appoggiarsi su casi vistosi, non strettamente o solamente
poetici. Così in Italia, dove pure
Bishop e Lowell sono stati tradotti fin dagli anni cinquanta, gli unici
poeti del secondo Novecento che godono di una certa popolarità sono Sylvia
Plath e i Beat, e tutti in fondo nutrono ancora un certo affetto da primo amore
per Allen Ginsberg e il tuttora attivo Ferlinghetti (nato solo due anni dopo
Lowell!).
Ecco
invece cosa scrive nel 1959 il quarantenne Lowell da Boston all’amica Bishop,
riparata da anni in Brasile: “L’altra sera Ginsberg, Corso e Orlovsky sono
venuti a farmi visita. Tu lo sai, la nostra casa, come dice Lizzie [la seconda
moglie, la scrittrice Elzabeth Hardwick], è quanto mai pretenziosa. Studiata
per stupire gli altri. Al loro arrivo si sono tolti le scarpe bagnate e sono
saliti in punta di piedi al piano di sopra. In un certo senso sono fasulli, perché
da pochissimo talento hanno ricavato un sacco di pubblicità. Ma in un altro
senso sono patetici e condannati. Come puoi andare avanti a lungo recitando
versi così così a frotte di studenti
schiamazzanti? Comunque sia, ci provano, mi pare, a scrivere poesia.
Ascoltarli è fin troppo facile”.
La
Bishop, in una delle lunghe malignette lettere che compongono questo denso,
estenuante ma anche intrigante epistolario, risponde il 5 maggio 1959: “Santa
pazienza, i tuoi ospiti Beat fanno accapponare la pelle [nella lettera di
Lowell c’erano anche dei ghiotti dettagli intimi]. Ho letto alcune loro poesie
e le trovo pietose – eppure li capisco. E’ questione più che altro di
ignoranza, non trovi – e di mancanza di cultura, oltre che di talento. (E con
questo li abbiamo liquidati!)”.
Bishop
e Lowell avevano entrambi già vinto il Premio Pulitzer, lei per A Cold Spring (1955), lui per Lord Weary’s Castle (1947), e non
avevano dubbi sulla propria preminenza e sulla reciproca ammirazione. Ma in
realtà, mentre l’opera di Bishop è piuttosto uniforme come qualità, quella di
Lowell è segnata (come la sua vita) da scarti violenti e le sue prime poesie di
sapore miltoniano, fedelmente tradotte dal suo primo interprete italiano,
Rolando Anzilotti, oggi sembrano piuttosto magniloquenti ed esteriori con tutto
il loro apparato di rime (non meno di Howl
di Ginsberg, che però ha una certa forza gaglioffa e allucinata).
Come Foscolo nei Sepolcri,
il primo Lowell celebrava Il cimitero dei
quaccheri a Nantucket in un poema di sette torve sezioni che comincia: A brackish reach of shore off Madaket
--/ The sea was still breaking violently
and night / had steamed into our North Atlantic Fleet … (“Un’amara
lingua di basso fondale al largo di Madaket --/ il mare si rompeva ancora
violento e la notte / era entrata nella nostra flotta nel Nord Atlantico…”). E’
una poesia interna a una cultura, che ne autocelebra la grandiosità richiamando
la ricerca della libertà religiosa, la Nantucket quacchera di Melville… Che
però aveva un umorismo da lupo di mare che a Lowell sembra mancare. Così in Howl, con tutte le sue stecche, c’è
l’umorismo ebraico che grida ma allo stesso tempo non si prende sul serio.
Lowell
si prendeva molto sul serio ed ebbe la fortuna di divenire il beniamino dei
recensori e delle riviste radicali e main-stream, dal “New Yorker” alla “Partisan
Review”, e di essere poi il fondatore della “New York Review of Books”, tuttora in auge, tuttora molto bon ton.
Comunque Lowell qualcosa raccolse della libertà annunciata dai teppistelli beat
che gli avevano invaso in punta di piedi la bella casa e proprio nel 1959 pubblica il suo libro più nuovo, gli “studi
dal vero” di Life Studies, un album
di famiglia in cui presenta francamente se stesso come rampollo di nobile
schiatta decaduta e un po’ ridicola, il padre ufficiale di marina inetto, la
madre l’aristocratica Charlotte Winslow che mal sopporta il declino sociale,
lui fra carcere (dove finì per obiezione di coscienza nel 1943), clinica
psichiatrica, matrimoni falliti, figlioletta appena arrivata. Molte di queste
poesie si trovano nell’antologia di Anzilotti citata sopra (Poesie 1940-1970, Guanda 2001), fra esse
la celebre Skunk Hour (L’ora della
puzzola), dove la pazzia occhieggia: “La
mia mente non è a posto… Io
stesso son l’inferno…” (che è poi citazione del Satana invidioso di Milton,
sempre presente nel delirio porno-puritano di Lowell).
Non
c’è dubbio che questi testi, e quelli delle due raccolte successive, hanno un
ruolo centrale nella cultura americana e molto possano dire a chi vuole
conoscerla. E Skunk Hour è dedicata
proprio a Elizabeth Bishop che dal Brasile aveva inviato a Cal (soprannome di
Robert, pare da Caligola, cioè dalle infantili mai sopite manie di grandezza),
aveva inviato appunto le quartine di The
Armadillo, altra poesia con in fondo un animaletto simbolico in un
paesaggio interiore (la costa del Maine in Lowell, Petrópolis presso Rio in
Bishop).
Una strofa da The
Armadillo con le sue rime ai versi pari darà un’idea della poesia perfetta
e apparentemente algida della Bishop: This
is the time of year / when almost every night / the frail illegal fire balloons
appear. / Climbing the mountain height, // rising toward a saint…. Cioè:
“E’ l’epoca dell’anno in cui / quasi ogni sera i fragili, illegali / palloncini
di fuoco appaiono. / Scalando la montagna // incontro a un santo…” (cito da Miracolo a colazione, Adelphi
2005). E’ un paesaggio con qualcosa che
succede, come potrebbe essere in una conversazione sulla terrazza di Elizabeth
con la sua compagna di allora, Lota de Macedo Soares, noto architetto, che
soffriva di depressione e si suicidò a New York nel 1967. I palloncini illegali
con dentro le candeline salgono nel cielo, si confondono con i pianeti… La
Bishop aveva imparato dalla sua eccentrica maestra Marianne More il rigore
della forma per contenere la forte emozione.
The Armadillo
ha un finale assai strano e turbato (“Pioggia / di fuoco e grido lancinante e
panico, / e un pugno di ferro debole levato / nell’ignoranza contro il
cielo!”). Lowell inventò la formula the
tranquillized fifties, gli anni ’50 “tranquillizzati” — sia lui che Bishop
avevano familiarità con tutta una farmacopea per tenersi a galla, entrambi
erano alcolisti, e Lowell fu spesso ricoverato per episodi di paranoia. Ricordo
l’addetto dell’ambasciata americana che l’aveva dovuto gestire durante un suo
giro in Sud America, a cui avevano detto: “Sa dove è il suo poeta? Su un albero
e non vuole scendere”. Mi chiedo come vivano oggi la figlia Harriet del 1957 e
il figlio tardivo Sheridan avuto nel 1971
dalla terza moglie, l’aristocratica e selvatica scrittrice angloirlandese
Caroline Blackwood.
Dato
questo sfondo di deliri, ci si potrebbe aspettare che Scrivere lettere è sempre
pericoloso raccolga testi sulfurei. Invece i due corrispondenti appaiono
normalissimi, rilassati, affettuosi ma non troppo (dei loro travagliati amori
non parlano), mai stanchi di raccontarsi incontri impressioni pettegolezzi e
scambiarsi poesie e commenti sulle stesse. Leggere questo grosso libro è dunque
impresa non da poco, anche perché senza una cronologia (presente invece
nell’edizione americana) mancano punti di riferimento precisi per sapere cosa
succede nella vita dei corrispondenti in un dato periodo. E’ un po’ come se
sentissimo una lunghissima intensa conversazione fra esistenziale e letteraria
fra due personaggi notevoli di un altro secolo e a seconda dei nostri
particolari interessi ci fermassimo su questo o quel commento e personaggio
evocato.
Si
parla molto della grande ostica Moore, del poeta medico Williams che sta
scrivendo il poema Paterson, di Eliot
più allegro di quanto non ci si aspetti, del malevolo ma magistrale Frost, di
Pound che entrambi visitano nell’ospedale giudiziario di Washington e a cui
Bishop dedica un ritratto definitivo, Visits to St. Elizabeths, filastrocca
composta su richiesta di Alfredo Rizzardi per il numero speciale dedicato a
Pound nel 1956 da “Nuova Corrente”:
“This is the house of Bedlam. / This the man that lies in the house of Bedlam…”
(Bedlam era l’antico manicomio londinese, donde la parola ha acquistato il
senso generico di mattana). Sono i maestri della generazione precedente, che hanno ottenuto per vari motivi
quell’ascolto internazionale che di rado tocca alla poesia. E poi naturalmente
si parla molto dei contemporanei, da Mary McCarthy agli intellettuali
newyorkesi: il mondo ritratto nel fortunato romanzo a chiave della McCarthy Il gruppo, in cui alla riservata
(jamesiana) Bishop non piacque vedersi
ritratta (per quanto dall’esterno) rientrata da un viaggio con una compagna.
Non
ci sono dunque rivelazioni in questa conversazione di due americani di culto,
ma in essa si riflette molto del loro tempo, specie naturalmente di quel
piccolo mondo che è la letteratura. Una lettura intricata e istruttiva dunque,
e resa più agevole dai tagli accorti compiuti nell’interminabile originale dal curatore Ottavio Fatica, che ci
regala anche in una postfazione di quaranta fitte pagine una cavalcata
appassionata nel mondo di questi due poeti. A cui non resta che augurare
lettori e scopritori egualmente ferrati ed entusiasti.
“il
manifesto-alias”, 22 febbraio
2014