Jean Montalbano
Big Star Third, una felice caduta
Si era tra
quelli che, negli anni ottanta-novanta del secolo
passato, aspettavano da Alex Chilton (1950-2010)
ancora un exploit da fuoriclasse, un affondo gratificante nella derelizione
color arcobaleno. Così, come a Wyatt si chiedeva ad
ogni uscita un nuovo “Rock Bottom”, benevolmente
disposti a perdonargli sbandate terzomondiste e tessere di partito comunista,
per Chilton si auspicavano altri mesi di depressione
post-adolescenziale da morale sotto le scarpe purché la riemersione fosse
ricca, per noi, di tesori stellari. Ma niente, le uscite deludevano l'attesa di
un nuovo fratellino da affiancare a Third dei
Big Star: tra mancati pop-hits e riprese improbabili
(perfino Volare) si ritornava orfani all'improbabile monolite (di non
ancora conclamata grandezza) rappresentato da quella strana cosa di metà anni
settanta, come a una conferma di quanto aleatorietà e incoscienza stessero alla
base di alcuni tra gli esiti migliori del rock. La materia che si agglomerò
intorno al cosiddetto “terzo” album dei Big Star, rimasta sfuggente e occultata
per decenni, ora che molti degli attori sono scomparsi viene catturata, ed è
più di quanto si disperasse, in un box di tre cd ad oltre 40 anni dalla
creazione (Big Star, Complete Third, Omnivore Recordings).
Ottenuto il via
per un nuovo disco, Chilton, rimasto con Jody Stephens il solo membro
originario, chiamò a produrlo Jim Dickinson, rivelatosi meno autorevole e
“spietato” di quanto il medesimo Chilton auspicasse:
a lui dobbiamo la conservazione di molti nastri che consentono di sbirciare la
genesi dello scuro capolavoro. Al termine di avventurose e travagliate sessions di registrazione negli studi Ardent
di Memphis (ultimi mesi del 1974) e comunque evitando la trappola dell'anarchia
sonica cui il futuro fornì qualche occasione, Dickinson corrispose alle
richieste iniziali decidendo di “tenere tutto”, proprio come in una
composizione istantanea in cui ogni quadro, lapsus ed errori inclusi, cospirava
all' ignoto risultato finale. Dietro quell'atteggiamento da “piccolo Lou Reed” (Chilton
si presentò sparandosi del Demerol in gola con una
siringa, e probabilmente il terzo disco dei Velvet
Underground era allora il modello di riferimento) Dickinson intuì, nei demo
essenziali per chitarra e voce, nelle poche ripetizioni e nel suono diretto pur
nel ricorso ad una ricca varietà di strumenti (mellotron
incluso) in confronto ai due album precedenti, una sinistra e magnetica
autorevolezza. Intonando suppliche ad un passo dal precipizio (take care, please) e rispondendo al balsamo degli archi con le
note di un piano tutt'altro che brillante, con le briglie allentate del già
esperto produttore, Chilton osava schizzi
melodrammatici e abbozzi di desolazione di cui i tre dischi ora pubblicati
affermano l'infondata persistenza. Per la via del disinganno e
dell'autodistruzione, personale e professionale, solo a prezzo di un'ostinata
scarnificazione Chilton poteva donare momenti di
struggente e compassionevole serenità. Se i Velvet
erano intermittente stella polare, ne risultò un rosario di tracce, a mezza
strada tra un Alexander Spence e un Roy Harper, in
cui la stessa velvetiana Femme Fatale incede
in modo ancora più esitante che sugli improbabili tacchi di Nico, guadagnando
fascino dalla sinistra compagnia cui va ad affiancarsi (Holocaust,
Kanga Roo, Nightime, ma andrebbero tutte citate) per rinnovare
l'eterno miracolo del godimento raggiunto a spese di una voce sul punto di
strozzarsi o singhiozzare. Da qui datano la nascita del culto “Big Star”e la
crociata contro gli infedeli che, criminalmente, lo ignoravano.
In studio
“nessuno sapeva quel che succedeva” incluso Chilton
impegnato a stravolgersi con alcol e droghe, tanto che, al tirar delle somme,
secondo un suo secco e impietoso giudizio, di quanto poi fu pubblicato solo due
terzi delle canzoni avrebbe meritato di finire su disco. Incertezze ed
indecisioni furono all'origine delle diverse sequenze presenti nelle tre
versioni del 1978, 1986 e 1992 e della stessa denominazione del risultato: Big
Star essendo ormai una band dissolta, si trattava del suo ultimo “terzo” album
o del primo di un nuovo gruppo, Sister Lovers ? Mancando il “si stampi” del diretto interessato,
il cerchio del non pianificato non arrivò mai a saldarsi: sottratti i nastri al
primo artefice stringeremo tra le mani sempre e solo “il terzo, probabilmente”.
Adesso il
trattamento cofanetto riservato dopo un quarantennio ad un febbricitante
capolavoro lungi dall'arrestare la ronda delle supposizioni, autorizzando
ulteriori giochi combinatori ci lascia sognare altrettante personali sequenze
in cui disporre il materiale secondo quella levità mancata a Chilton che, ricordando di non aver percepito nessuna
royalty negli anni immediatamente successivi (fu solo con la pubblicazione Ryko del 1992 che incassò i primi benefici finanziari) a
malincuore riandava agli anni che videro travolta, con la sua, l'esistenza
della stessa industria musicale di Memphis (in primis della Stax).
Le sue dichiarazioni dirette soprattutto a smorzare entusiasmi, sottolineando
come il disco non fosse poi “quel granchè”, erano
motivate sia dalla preoccupazione di scrollarsi di dosso la gloria stracciona
del maledettismo (dalle stelle del divetto sedicenne alla porta di servizio per lavapiatti di
dieci anni dopo) che dal proposito di allontanarsi dal luogo di un misfatto
troppo mitizzato di cui detestava restare prigioniero. Primo dissacratore di sé
medesimo, altro che “nature boy”, Chilton spesso
rispondeva alle frequenti richieste di riproporre quei brani, esponendoli al
pedaggio di uno sconcertante humor. Per lo scontroso
gentleman era il solo modo di riandare agli anni del “suicidio commerciale”,
come se volesse scusare le ragioni di un'industria discografica che era stata
compatta nel negare la “vendibilità” di Third
(disturbante era stato il giudizio più carino). O forse il suo
sguardo retrospettivo, disincantato e cool (ad un
certo punto l'astrologia sembrò occuparlo più delle note) intendeva suggerire
che molto della linfa avvelenata di cui si nutrì Third,
divenuta sua seconda pelle, era anche esperienza condivisa, originata dalle
facili occasioni di alterazione offerte dalla Memphis notturna: essenza di un
tempo e luogo tramandatoci dall'amico fotografo Eggleston
in “Stranded in Canton” e medianicamente
trasfigurato da Chilton.