Giuliano
Galletta
biennalesco
L'arte dei nostri giorni tende a non creare maestri, piuttosto si costituisce come un flusso, una colata lavica in cui ogni singolo artista cerca un proprio percorso all'interno di quello che sempre più si configura come uno "stile internazionale" (per riprendere una terminologia cara all'architettura). Ciò provoca per gli artisti una situazione paradossale in cui l'iperindividualismo tipico delle società postindustriali si coniuga con una omogeneizzazione dei linguaggi estetici che è forse la cifra più visibile "ai sensi e alla mente" della globalizzazione.
Più che maestri quindi il sistema dell'arte crea star il cui valore è immediatamente collegato alle quotazioni stabilite dai mercati finanziari. La mostra principale della 52esima Biennale di arte contemporanea di Venezia, intitolata appunto "Pensa con i sensi, senti con la mente" ordinata dall'americano Robert Storr e che si apre al pubblico domenica è una interessante dimostrazione di questo assunto e in un certo senso quindi raggiunge il suo obiettivo di fotografare lo "stato dell'arte".
Storr ha più volte dichiarato di non aver voluto realizzare una mostra "a tesi" ma di aver voluto puntare sulla qualità delle opere esposte messe "in dialogo" tra loro. Ovviamente anche questa è una "tesi", ma è certamente vero che Storr ha fatto un visibile passo indietro (o in avanti), rispetto alla figura del critico-creatore che "piega" le opere alla sua volontà. Ciò garantisce probabilmente maggiore libertà al visitatore, non lo obbliga a schierarsi, anche se rischia di ridurre la coerenza e la compattezza dell'esposizione limitando la capacità di attenzione già messa a dura prova dal gigantismo biennalesco che lo scorrere del tempo non sembra voler ridimensionare.
La mostra è divisa in due parti, che corrispondono alle due sedi dell'Arsenale e dei Giardini, e che in un certo senso corrispondono, anche se non schematicamente, ai due concetti espressi nel titolo. La prima sezione, quella dell'Arsenale, di certo la più interessante, risulta quella più sensuale e coinvolgente, mentre la seconda, ai Giardini, più concettuale, linguistica, autoreferenziale evidenzia una sorta di ordinata asetticità che contraddistingue tutto l'approccio di Storr.
Nei più interessanti artisti esposti emerge un evidente desiderio di "fare i conti" con gli aspetti più difficili e dolorosi della realtà, con i diversi strumenti comunicativi a disposizione, ma sempre partendo da una dimensione individuale negli spazi della vita quotidiana. Il corpo, il paesaggio metropolitano o di una natura degradata, la memoria, l'infanzia, la guerra e le armi, sono tutti temi sviluppati con tonalità simili dagli artisti di tutti i continenti. L'italiano Paolo Canevari, 44 anni, (uno dei sette invitati alla mostra) nel suo video "Bouncing Skull", girato nel 1999 fra le macerie del quartier generale dell'esercito serbo bombardato dalle forze Nato, ci mostra un bambino che palleggia con un teschio.
Le macerie di Beirut sono poi le protagoniste assolute delle fotografie di Gabriele Basilico. Leòn Ferrari, argentino, classe 1920, propone una crocifissione in cui il Cristo è inchiodato a un cacciabombardiere Usa. Tomer Ganihar è un fotografo israeliano che ha avuto l'occasione di lavorare nelle forze speciali e nei servizi segreti del suo paese, nella sequenza in mostra ("Hospital party") presenta immagini inquietanti di manichini di donne e bambini utilizzati per l'addestramento dei medici militari.
Il bulgaro Nedko Solokov ha progettato per la Biennale un lavoro dedicato al kalashnikov, il mitragliatore più usato nel mondo, l'arma che "non si inceppa mai", quella imbracciata come un giocattolo dai bambini-soldato africani.
Non solo le guerre ma tutto il rapporto fra il Primo e gli altri mondi è centrale nel lavoro di molti artisti come Abdessemed, El Anatsui, Yto Barrada, Rosario Lòpez, Morrinho Project, Paula Trope, Pavel Wolberg. La Riyas Comu.
La mostra si apre con una installazione di Luca Buvoli in cui campeggia la scritta "after tomorrow", ispirata alla frase che il fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti disse alla figlia prima di morire: «Ci sarà un bellissimo dopodomani». Forse quel dopodomani è descritto pochi metri più avanti nell'opera dell'americano Charles Gaines, "Airplanecrashclock": su un plastico iperrealista di una metropoli americana il modellino di jet ripropone all'infinito la picchiata, ma non l'impatto, dell'aereo sulla città, mentre il tempo (reale) viene scandito da un orologio, nell'interminabile attesa di una catastrofe.
"C'è un futuro per il nostro passato?" si domanda l'artista giapponese Masao Okabe nella mostra presentata nel padiglione del suo Paese alla Biennale d'arte di Venezia che si apre oggi. Okabe ha lavorato per nove anni nel quartiere Uijna della città di Hiroshima con la tecnica del frottage, riproducendo con carta velina e matita quattromila pietre della pavimentazione della stazione ferroviaria del quartiere e ritiene che l'uomo contemporaneo viva un paradosso rispetto al tempo. Da un lato cioè le tecnologie ci aiutano a conservare meglio la memoria, dall'altro i conflitti, l'inquinamento, l'urbanizzazione tendono a cancellare non tanto la Storia, quanto le storie di intere comunità.
L'artista giapponese non è il solo a porsi il problema della memoria, di sicuro uno dei fili rossi, anche se naturalmente non l'unico, con cui è possibile orientarsi nell'inevitabile eterogeneità dei ben 77 padiglioni nazionali di questa Biennale rendendo praticabile anche un collegamento con la mostra principale. Il problema si connette poi a quello dell'identità, identità umana in generale, identità dell'artista in particolare; su questo secondo fronte gioca il padiglione francese in cui Sophie Calle ha voluto come curatore un altro artista come Daniel Buren, provocando un interessante corto circuito fra i ruoli stabiliti dal sistema dell'arte. Quella della Calle può essere quindi considerata una riflessione dell'arte su se stessa, non in un senso esclusivamente linguistico o formale ma in una declinazione, potremmo dire, più sociale o culturologica. In un certo senso qui entra in campo una delle grandi questioni dell'arte attuale che potremmo definire l'eredità del Concettuale, la corrente che forse più di ogni altra ha segnato la seconda metà del Novecento. Questa eredità ha assunto due forme principali, la prima più squisitamente formale (a volte formalista), massicciamente rappresentata anche in questa Biennale, la seconda, di gran lunga la più interessante, in cui l'elemento intellettuale, speculativo e critico non teme un confronto diretto con il reale, inteso nel senso di una antropologia dell'oggi.
In questa prospettiva risulta particolarmente rilevante il progetto presentato nello stand olandese intitolato "Cittadini e soggetti" dall'artista Aernout Mik. Si tratta di una complessa video-installazione dedicata al problema dell'immigrazione clandestina. Partendo dalla dicotomia fra un "soggetto" sottoposto al puro esercizio del potere (rappresentato dalla polizia, le cui esercitazioni sono uno degli elementi portanti del video) e il "cittadino" come portatore di diritti e sulle possibili intercambiabilità dei ruoli. Il lavoro estetico in senso stretto diventa però il centro di una riflessione più ampia, filosofica e politica, che proseguirà anche dopo la Biennale coinvolgendo intellettuali come Rosi Braidotti, Charles Esche, Maria Hlavajova.
Idee quindi rese visibili attraverso immagini, ambienti e oggetti. L'oggetto è l'altra immensa frontiera su cui l'uomo contemporaneo costruisce la sua identità e su questa frontiera lavora Isa Genzken che ha allestito il padiglione tedesco. Le sculture che lei definisce «sfasate e garbate, che possono essere folli ma devono racchiudere insieme aspetti della realtà», nascono dal recupero di materiali di consumo: oggetti di design, arredi da campeggio, indumenti, statuette kitsch, bambole e animali di plastica. La Genzken, come molti artisti presenti a Venezia, tenta di dare una risposta (tante risposte) all'implicita domanda sottesa in ogni visitatore che si presenti alla Biennale: è ancora possibile un'arte "autonoma" in un mondo in cui tutto (persino la morte) è diventato estetica?
“Il secolo XIX”, 8-9 giugno 2007