Abbiamo qui raccolto i quattro articoli del nostro
amico e collaboratore Giuliano Galletta inviati al “Secolo XIX” nei giorni dell’inaugurazione della
Biennale d’arte veneziana del 2005 (giugno).
Giuliano Galletta
alla Biennale
dal nostro inviato
A prima vista sembra un gigantesco lampadario di Murano. Osservando meglio, si
scopre che al posto delle gocce ci sono tanti piccoli cilindri di cotone,
muniti ciascuno di un filo sottile utilizzato per tenerli insieme in una sorta
di rete costruita con la pazienza certosina che ricorda certi castelli di
fiammiferi, costruiti dai carcerati. Quel filo in realtà serve a tutt'altro, i
cilindri non sono infatti che assorbenti interni, tampax,
trasformati in una scultura che diventa una sorta di monumento al ciclo
mestruale. Si apre così la mostra "Sempre un po' più lontano", curata
da Rosa Martinez, una delle due rassegne che
costituiscono il nucleo centrale della 51esima Biennale di Venezia che si
aprirà al pubblico domenica. Il lampadario femminista è opera dell'artista
portoghese Joana Vasconcelos
ed è esposto insieme ai lavori del gruppo newyorchese delle "Guerrilla Girls", enormi
manifesti, post-pop, che riportano slogan sulla condizione della donna come
fossero pubblicità di film di successo.
C'è una grande scultura ad aprire anche l'altra mostra che affianca e completa
la prima, "L'esperienza dell'arte", curata da Maria de Corral. Si tratta di una "scala impossibile", il
calco di un vano scala capovolto, una sorta di zigurrat
che priva l'oggetto architettonico di qualsiasi funzionalità, producendo una
sensazione di movimentata paralisi. Untitled (domestic) è il titolo di quest'opera di Rachel White read, artista inglese
quarantenne. La sala d'apertura della mostra della de Corral
è completata dalla serie di foto del tedesco Thomas Ruff dal titolo jpeg che ci
restituiscono una realtà derealizzata, fatta
indifferentemente di paesaggi urbani o naturali sbriciolata attraverso la
frammentazione dei pixel.
Sono due incipit significativi, ma che forse avrebbero potuto essere, in un
certo senso, interscambiabili, aprendo ciascuno l'altra mostra. Tanto che lo
spettatore è tentato di guardare le due mostre non dico come se fosse una, ma
in un gioco di specchi e di rimandi alla ricerca di un'idea dell'arte odierna
che è indistricabile da un'idea dell'arte del secolo
scorso.
Perché non spostare il finto trailer semi-porno di Francesco Vezzoli Trailer for a remake of
Gore Vidal's Caligula (con
la citazione irriverente di Papa Ratzinger in un
bassorilievo) nel groviglio psico-organico
dell'Arsenale? Se possiamo, ragionevolmente, accettare l'idea che l'arte del
Novecento si occupa dell'informe, a volte tentando di dargli forma, altre volte
facendosene travolgere, allora un maestro come Francis
Bacon potrebbe tranquillamente figurare fra alcuni bodyartisti
come Berni Searle, così
come Antoni Tapiés è più
vicino a certi collage che si possono vedere all'Arsenale.
Semplificando molto si potrebbe dire che una parte (quella storica) della
mostra "L'esperienza dell'arte" potrebbe funzionare come una sorta di
"introduzione" alla gemella "Sempre più lontano", anche se,
in questa logica, si sarebbero potuti (e probabilmente dovuti) scegliere tanti
altri artisti.
Alla fine - se alla Biennale si va per cercare un termometro dei tempi che
corrono e non solo per vedere qualche bel quadro - è perciò la mostra della Martinez quella che produce più stimoli. Anche qui la
questione di fondo sembra la possibilità, per l'artista, di gestire il rapporto
con un universo votato al trionfo
della merce e della sua comunicazione: la pubblicità, il video, gli oggetti
della vita quotidiana ammassati in una società-discarica, il corpo annichilito
dal lavoro, rattrappitto nella sopravvivenza, spettacolarizzato nei raduni giovanili di massa sono tutti
tasselli di un mosaico che emerge dalla mostra che può produrre una lettura
abbastanza coerente, a dispetto della eterogeneità degli artisti presenti e
forse della stessa curatrice. La mostra si può percepire come un flusso unico,
un grande zapping di zapping in cui l'identità del singolo artista viene, in un
certo senso, rimessa in discussione. Molti artisti sembrano considerare se
stessi come reperti, antropologici se non archeologici, la post-modernità
produce spesso effetti tribali e le tribù dell'arte sono fra le più identitariamente compatte e studiabili (basta fare,
appunto, un salto a Venezia).
Il nostro breve viaggio potrebbe finire ancora con una donna, Runa Islam,
artista trentacinquenne del Bangladesh, autrice e
protagonista di un film di sette minuti in cui è impegnata a distruggere,
lentamente ma inesorabilmente, una preziosa collezione di porcellane, un po'
come Utz nel libro di Chatwin.
Ma potrebbe finire anche con un'altra donna, questa volta americana, Barbara Kruger (Leone d'oro alla carriera) che ci ricorda, a
lettere cubitali, una verità che riguarda l'arte e il suo mercato (realtà che
in questa edizione della Biennale sembra aver pesato meno che in altre) e che
non va mai dimenticata: "Passi alla storia solo se fai affari".
oltre il giardino. Tipi da Biennale
Nei tre giorni dell'inaugurazione della Biennale si riunisce a Venezia il
variegato popolo dell'arte contemporanea, non i normali appassionati, ma gli
addetti ai lavori, o coloro che si considerano tali. Si tratta di una fauna
cosmopolita e vagamente eccentrica e come ogni gruppo sociale dotata di piccoli
riti, tic, idiosincrasie, un galateo preciso a dispetto dell'informalità e le
sue gerarchie.
Estremizzando un po' alcuni caratteri è forse possibile ricostruire una
galleria di tipi che con tutte le possibili varianti produca un'antropologia
semiseria. Per motivi diversi tralascerei, però, due importanti categorie, la
prima è quella degli artisti, per definizione singolari e quindi difficilmente
classificabili, se non con un lavoro molto più complesso, la seconda è quella
dei giornalisti che, in qualsiasi situazione si trovino, vivono prigionieri
della stessa, eterna e ineliminabile domanda: che titolo facciamo?
Al primo posto di questa classifica dei tipi da Biennale metterei senz'altro
l'Eterea. Si tratta di una ragazza dai venti ai trent'anni, pallida e
filiforme, veste con lunghe gonne di colori spenti e calza ballerine in stile Audrey Hepburn. E' quasi sempre
impegnata a prendere appunti su bloc notes modello
americano, non è mai stanca, mordicchia piccoli sandwich seduta su uno scalino
e sorseggia acqua minerale non gasata. Normalmente circola sola ma a volte si
accompagna a giovani barbuti e logorroici che però degna a malapena di qualche
cenno. Non si sa da dove venga né dove vada. Ella è.
Sul fronte femminile opposto è segnalabile invece la Stanga, si presume che
nulla sappia dell'arte contemporanea (ma magari è laureata ad Harvard), fatto sta che si insedia sul coté
mondano e viaggia in coppia con il Marpione, la cui testa non supera quasi mai
l'altezza del suo decolleté. C'è poi la Gallerista Assatanata, cinquantenne in
grado di masticare e rigurgitare intere correnti artistiche nello spazio di un
mattino.
Su tutti troneggiano però i Guru (critici, curatori, architetti), che si
dividono in due sottogeneri, quelli vestiti di nero con i capelli bianchi e
quelli vestiti di bianco con i capelli neri. Parlano ad alta voce e dichiarano
di conoscere bene ministri e viceministri, ma
probabilmente si riferiscono al Giappone. Alla maschera del Guru è collegata
quella del Professore, da cui si distingue principalmente per il reddito. Il
Professore, pur occupandosi delle stesse cose del Guru, e sapendone di più,
veste come un impiegato del catasto.
Ultima, ma non meno importante, è la figura dell'Artista di Provincia. Egli
visita la Biennale e dichiara che quelle cose lui le aveva già fatte dieci anni
prima. Il bello è che a volte è vero.
dal nostro inviato
"Per aver saputo dar vita nel suo trittico performativo a un'azione
coraggiosa contro il potere". Mentre Ida Gianelli,
presidente della giuria della Biennale di Venezia, legge la motivazione del
Leone d'oro, assegnato alla giovane artista guatemalteca Regina Josè Galindo, dalla platea molti
sguardi si spostano per un attimo sul ministro Buttiglione
che dall'altro lato del tavolo abbozza un sorrisetto
sornione. E' una frazione di secondo che sintetizza qualcosa di questa Biennale
e forse non solo. Di sicuro per il ministro la Galindo
è una di quelle artiste che "danno scandalo". Nei suoi video la
minuta trentacinquenne gira molto spesso nuda, si rasa i capelli, si ferisce e
offre il suo sangue in un catino ai poliziotti, recita le sue poesie appesa a
un ponte a dieci metri di altezza, si inietta una dose di Valium, che la fa
dormire per ore, per mettere in scena la sua autodistruzione. Nella sua
performance golpes affronta il tema che ha sconvolto l'opinione pubblica del
Guatemala: l'uccisione di 394 donne fra il 2004 e l'inizio del 2005. E'
un'azione sonora nella quale l'artista scompare in una piccola stanza, e con
l'aiuto di microfoni amplifica il rumore di misteriosi strumenti, forse di
tortura, sulla sua pelle.
Che cosa ha a che fare tutto ciò con quel tipo di Bellezza di cui Buttiglione auspica, stancamente, il ritorno? Nulla,
probabilmente, ma senz'altro ha a che vedere con una forma di comunicazione
adeguata ai nostri tempi, a meno che non si creda di vivere nel migliore dei
mondi possibili. I premi naturalmente valgono per quello che valgono e sono
sempre il risultato di un compromesso fra gusti dei giurati e valutazioni
geopolitiche, ma possono fungere da bussole per trovare un sentiero
nell'immensa foresta dell'arte attuale. L'altro artista premiato, per la
categoria over 35, è il tedesco Thomas Schutte che esponeva nella mostra "L'esperienza
dell'arte" curata da Maria de Corral (mentre la Galindo presentava i suoi lavori all'Arsenale nel quadro
della rassegna "Sempre un po' più lontano" di Rosa Martinez). Schutte è uno scultore
tedesco, nato a Oldenburg nel 1954, protagonista di
un "recupero" della figura umana che non ha i contenuti nostalgici
del ritorno all'ordine ma tenta uno sviluppo critico degli stilemi classici del
nudo. "Quei possenti corpi in acciaio fuso che si stiracchiano lascivi in
tutta la loro lunghezza, si allungano verso l'alto, si accovacciano o si
avvolgono su se stessi, sempre rivestiti del dolce colore grezzo della
ruggine" (come scrive Han Ruedi
Reust) non sarebbero probabilmente possibili senza la
lezione della Body Art, la stessa che ha ispirato la giovane guatemalteca.
Del mare magnum dei padiglioni internazionali è impossibile dare conto. Si
tratta di settanta Paesi che propongono ciascuno i propri artisti inseriti
nelle complessità delle diverse situazioni politiche e sociali, alcune estreme.
E' il caso dell'Afghanistan che propone i video di Lida Abdul,
che tenta la strada della contaminazione fra arte occidentale e culture indigene.
Anche la Cina esordisce alla Biennale e meriterebbe un ragionamento a sé
stante. I padiglioni dei Paesi occidentali in generale non deludono ed è la
Francia con Annette Messager e la sua installazione
dedicata a Pinocchio ad aggiudicarsi il Leone d'oro.
Spettacolari i lavori più recenti della coppia di "sculture viventi" Gilbert & George, in
rappresentanza della Gran Bretagna, che rielaborano il paesaggio urbano inglese
in grandi quadri fitti di una simbologia grafica che va dai geroglifici ai
graffiti. Sempre coerenti con la loro poetica: "Nostro soggetto e nostra
fonte di ispirazione è il contenuto dell'umanità".
il mistero Buttiglione
Che il ministro Rocco Buttiglione avesse poco a che
spartire con l'arte contemporanea era facile prevederlo. Anzi si potrebbe dire
che la migliore arte del Novecento abbia combattuto contro tutto quello che Buttiglione rappresenta: tradizionalismo, fondamentalismo, spritualismo, sessuofobia. Le previsioni si sono avverate
quando, suo malgrado, Buttiglione si è trovato
costretto, per dovere d'ufficio, a inaugurare proprio la Biennale di Venezia
che di quell'arte (che qualcuno, con termine quanto mai azzeccato, chiamò
"degenerata") è il regno. E così, fra stretta di mano e complimenti
di prammatica, di fronte a una platea di giornalisti e addetti ai lavori
piuttosto esterefatta, ha detto la sua sulla Biennale
con la stessa aria saputella da professore di scuola privata che gli è costata
il posto di commissario europeo.
Il Buttiglione-pensiero è così sintetizzabile: in
questa Biennale ci sono gli artisti cattivi e quelli buoni, i primi vogliono
scandalizzare in quanto figli del fallimento del comunismo (ti pareva) e della
rivoluzione sessuale mentre i secondi si occupano dell'interiorità ovvero del misterium hominis.
L'acuta disamina ha palesemente poco a che vedere con la Biennale e anche
prendendola in senso lato chi ha detto che un "provocatore" non possa
occuparsi dell'interiorità e un artista dell'interiorità (il ministro ha citato
proprio Francis Bacon!) non possa dare scandalo? Per Buttiglione la vita è piena di misteri (ne ha pure indicati
alcuni: il sesso, l'omosessualità, la malattia, la morte) ma il mistero dei
misteri, il vero mistero che attanaglia gli italiani è il seguente: perché Buttiglione fa il ministro della Cultura?