Giuliano Galletta

alla Biennale 2009

VENEZIA. L’arte contemporanea ai tempi della globalizzazione parla un linguaggio universale, crea riferendosi più o meno consciamente a uno stile internazionale. Da tempo si è registrata la scomparsa dei maestri, intesi come capiscuola, e con loro o prima di loro la scomparsa dei gruppi, delle correnti, più o meno ideologicamente compatte, che avevano caratterizzato i due dopoguerra novecenteschi. Questa situazione provoca al tempo stesso omogenizzazione e iper-individualizzazione dell’arte – in cui il mercato può liberamente agire giocando con le sue bolle e le sue star – ma che offre agli artisti una lingua comune con cui dialogare senza perdere di vista le proprie radici culturali.

È questo lo scenario in cui si sono mossi, in un modo o nell’altro, tutti i curatori delle ultime Biennali veneziane e da cui è partito anche il giovane Daniel Birnbaum per ideare la 53.ma edizione che apre al pubblico domenica e si chiuderà il 22 novembre. Birnbaum ha creato un suo percorso, sintetizzato nel titolo della mostra “Fare mondi”, scegliendo nella costellazione dell’arte mondiale 90 nomi, così come ogni visitatore avrà la possibilità di creare una sua Biennale a partire dalla costellazione di quei novanta artisti, tra esordienti e storicizzati. Scrive Birnbaum: «L’internazionalizzazione può essere una spinta emancipatrice che affranca gli individui dai limiti della loro cultura locale, ma indubbiamente esiste anche una tendenza omogeneizzante che comporta il livellamento delle differenze culturali, il quale può trasformare il mondo in un luogo di monotona uniformità». «Può essere interessante vedere l’arte» prosegue Birnbaum «come una forza antagonista a tale appiattimento: un’insistenza sulle differenze che non ha niente a che fare con il ritorno politicamente reazionario al nazionalismo». Considerare l’artista come costruttore di mondi è un’idea tutt’altro che nuova, ma che resta pregnante. Più esattamente si potrebbe dire che ogni artista, come ogni scrittore, musicista, regista, tende a formarsi una mitologia personale, fatta di temi, immagini, personaggi ricorrenti, e che risulta tanto più interessante quanto più è fissata e limitata agli stessi temi o allo stesso modus operandi.

Ciò che rende gli artisti indispensabili, al di là della apparente futilità o irrilevanza, per un osservatore/lettore, è proprio questa capacità di essere altrove, di insistere ossessivamente sul proprio microcosmo. Per questo uno sconosciuto artista che disegna i suoi pupazzetti nel luogo più sperduto del mondo può valere per noi altrettanto quanto la superstar che incastona diamanti in un teschio.

Per raccontare questa Biennale si può così partire da un artista africano, Pascale Marthine Tayou, che occupa lo spazio centrale dell’Arsenale, uno dei due luoghi, insieme ai Giardini, in cui è articolata la mostra. La sua è una straordinaria installazione di video e oggetti, che riproduce una sorta di piccola baraccopoli africana, circondata da residui di lavorazioni industriali e da resti della vita quotidiana di ogni parte del mondo.

Tayou, originario del Camerun ma da tempo artista cosmopolita, immerge quell’ambiente in una specie di flusso di video che riproducono momenti di vita e di lavoro provenienti da Giappone, Taiwan, Italia, rendendo visibile quello che negli anni Sessanta si sarebbe chiamato villaggio globale. La mostra si apre però con due opere di tutt’altro tenore ma altrettanto incisive.

La prima è l’ambiente-scultura di Lygia Pape, una delle maggiori artiste del ’900, scomparsa nel 2004, che costruisce con fili d’oro e di rame, tesi tra soffitto e pavimento e resi visibili soltanto dalla luce in una stanza altrimenti buia, un’idea di spazio che fa entrare lo spettatore in una dimensione totalmente inedita. L’altra è quella di Michelangelo Pistoletto che ripropone uno dei temi chiave della sua lunga carriera, lo specchio. In questo caso una serie di enormi specchi incorniciati, che l’artista infrangerà durante una performance, diventano la metafora della dimensione umana, alla perenne ricerca di un’identità irraggiungibile. Fra i diversi sentieri che si possono percorrere all’interno della mostra veneziana c’è quello delle mappe; alcuni artisti rielaborano l’idea della carta geografica nei modi più disparati, ma tutti contrassegnati dal desiderio di descrivere un mondo, questa volta inteso nel senso di pianeta, immaginario, utopico ma che allo stesso tempo tiene conto di tutte quelle realtà che normalmente non trovano spazio nelle carte geografiche tradizionali. Si tratta di artisti di età e nazionalità diverse, dal grande maestro Oyvind Fahlstrom(1928-1976) al quarantacinquenne tibetano Gonkar Gyatso, che realizza suggestivi mandala pop. Sul fronte più politico è interessante l’istallazione di Anawana Haloba, 30 anni, nata in Zambia e che vive a Oslo, che ha ricostruito una sorta di “bancarella” ironicamente pubblicitaria del mercato del G8 per segnalarne i paradossi e le ingiustizie. Un altro dei grandi magneti che attraggono la creatività degli artisti è quello della vita quotidiana, dei suoi gesti, dei suoi oggetti anche minimi, che vengono sottratti all’immenso flusso della realtà per diventare piccoli ma illuminanti punti focali della coscienza.

Artisti come i russi Elena Elagina e Igor Makarevich che prendono una vecchia libreria di noce, come quelle che stazionavano in ogni salotto borghese, e la riempiono di fragranti pagnotte appena sfornate, o il sudafricano Moshekwa Langa, 34 anni, che costruisce il plastico di una città immaginaria utilizzando rocchetti di filo, bottiglie e vecchie macchinine. Nell’opera del tedesco Hans-Peter Feldmann, un collezionista che si è trasformato in artista, gli oggetti più banali e insignificanti vengono posti su piattaforme girevoli e illuminati adeguatamente si trasformano in ombre cinesi proiettate sul muro. Tutto quello che ogni giorno ci passa per le mani senza che ce ne accorgiamo diventa così un piccolo fantasma che vuole ribadire ad ogni costo una rilevanza che la vita gli nega. Forse è un po’ quello che accade alle opere d’arte, almeno quelle che non devono essere imposte dai traffici degli speculatori, e che sono poi le uniche che ci interessano.

“il Secolo XIX”,  4 giugno 2009

VENEZIA. Un manichino iperrealista annegato in una piscina, che rappresenta un collezionista d’arte, uno dei proprietari della “casa” costruita all’interno dei padiglioni di Danimarca, Finlandia, Svezia, Norvegia, riuniti in unico percorso, alla Biennale di Venezia. La mostra non si può visitare liberamente, ma solo in piccoli gruppi “guidati” da una sorta di agente immobiliare-narratore, che fa entrare il visitatore nell’inquietante intimità di un ambiente famigliare. La casa è abitata da presenze maschili nude e richiama i modi di vita di una coppia di collezionisti-fantasma. “The Collectors” è il titolo della mostra ideata dal duo Elmgreen & Dragset. Ogni oggetto, quadro e scultura dell’appartamento sono stati realizzati appositamente. I padroni di casa collezionano opere d’arte di vari stili, tra cui disegni di nudi maschili hard e persino i costumi da bagno degli ex amanti, anche loro in un certo senso collezionati. I temi che si incrociano in questo lavoro sono diversi. In primo luogo una visione del collezionista come feticista, che raccoglie nella sua casa-museo oggetti ardentemente desiderati, ma che appena posseduti perdono buona parte del loro valore. Si viene a costruire così una sorta di universo parallelo asettico e lontano dalla vita reale, tanto da diventare decisamente mortuario.

Nel mondo dell’arte contemporanea il collezionista gioca infatti un ruolo ambiguo, che è quello che Theodor Adorno definiva “Il carattere doppio del feticismo”. Da un lato è infatti il principale portatore delle istanze mercantili del possesso e dell’investimento, dall’altro però ricopre a sua volta un ruolo creativo, relazionandosi con l’artista e promuovendolo.

Un altro protagonista della Biennale che affronta lo stesso tema ma da un punto di vista completamente diverso è l’ungherese Péter Forgács; anch’egli è un collezionista e ha creato una Fondazione che raccoglie immagini e film della vita privata, e utilizza questi materiali anche per le sue opere. Nella videoinstallazione “Col tempo” realizzata per la Biennale, Forgács indaga la natura arbitraria e dominante della visione dell’Altro.

Lo spettatore viene condotto in un percorso drammatizzato che va dall’esaltazione, fine a se stessa, dell’Altro come individuo, come avviene nella grande ritrattistica, alla oggettualizzazione degli archivi criminali o sanitari, in cui il volto viene reificato e strumentalizzato.

Nel mare magnum dei 77 padiglioni nazionali presenti quest’anno a Venezia (un record), si riconoscono molti dei fili conduttori della mostra principale “Fare mondi”, curata da Birnbaum. Si crea così un dialogo a distanza, che supera la stessa volontà degli organizzatori. Ma anche la mostra a Punta della Dogana è legata da un filo rosso alla Biennale; l’esposizione curata da Bonami per il museo di Pinault si intitola “Mapping the studio”, come un’opera di Bruce Nauman, che è il protagonista del padiglione statunitense ai Giardini con il progetto “Topological Gardens”. Nauman nella sua opera studiata apposta per la Biennale si domanda se la struttura di un’esposizione possa aiutare l’osservatore a rapportarsi sia all’opera esposta sia al contesto in cui si svolge la mostra. La sfida di Nauman è quindi quella di tentare, con un lavoro fortemente concettuale, di mettere in relazione la sua opera con la realtà urbana veneziana. L’artista parte da se stesso come punto di riferimento di una possibile topografia che rende visibile anche tutto ciò che lo circonda. Gli artisti contemporanei, come dimostra in modo evidente questa Biennale, provano a loro modo a mettere ordine nel mondo, archiviandolo o ridisegnandolo con le loro carte geografiche. Il belga Jef Geys, ad esempio, coniuga le due tendenze, ideando delle mappe immaginarie e allo stesso tempo registrando in un infinito erbario le piante spontanee ancora presenti negli spazi urbani.

Fisicamente posizionato sul lato opposto del padiglione Usa c’è quello spagnolo, che propone l’opera di Miquel Barceló. Tra i suoi lavori più recenti quelli realizzati nel periodo in cui l’artista stava dipingendo una gigantesca cupola per le Nazioni Unite a Ginevra. Barceló ha cosparso il pavimento con diverse tele che man mano sono state coperte in maniera casuale dal colore che sgocciolava dalla volta. L’artista le ha poi utilizzate come sfondi sui quali dipingere. I nuovi lavori presentano tre temi principali: gorilla solitari, paesaggi africani, immagini marine. Con la sua pittura Barceló ci riporta a una forma di comunicazione che aspira a confrontarsi direttamente con il primitivo o con quello che ne resta nel nostro immaginario globalizzato.

“il Secolo XIX”, 5 giugno 2009