Charles de Jacques
bianco & nero
Stefano Zenni: CHE RAZZA DI MUSICA. Jazz, blues, soul e le trappole del colore. EDT,
2016
Quanto
c'è di bianco nella musica nera? Il problema non è nuovo. Lo aveva proposto
tempo fa, con risultati a dire il vero più suggestivi che convincenti, anche
Nick Tosches. W.E.B. Dubois aveva detto che la musica è il grande dono che gli
ex schiavi hanno fatto alla nazione americana e al mondo. C'è ovviamente tanta
verità in questa affermazione che tuttavia non sembra tener conto di più
complessi intrecci, debiti e contagi che fra l'altro toccano picchi di
influenza che riguardano non solo la musica americana e la sua originalità ma
anche quella europea in un traffico che si verifica nei due sensi.
Senza
la pretese di dire qualcosa di definitivo Stefano Zenni
affronta la questione in maniera da non creare inutili allettamenti prendendo
le cose da lontano, girando attorno a concezioni equivoche e screditate come
quello della razza, della sua persistenza nella società americana, viste come
un ostacolo a una comprensione più specifica del colore della pelle e al tempo
stesso più variegata come fenomeno culturale.
Cosa
si deve pensare ad esempio di un Charlie Patton - considerato il padre del
blues del Delta - constatando che aveva i capelli rossi, le lentiggini, un
nonno fra i padroni bianchi e una mamma "negra" di pelle piuttosto
chiara con sangue indiano nelle vene? Che dire di Mingus,
che, come racconta nella sua autobiografia dal significativo titolo Peggio
di un bastardo (Sur, 2015), rifiutato da ogni
comunità scelse la negritudine pur avendo una madre di discendenza inglese e
cinese e un padre figlio di uno schiavo e della nipote di origini svedesi del
suo padrone?
Che
dire inoltre del fenomeno del "passing",
cioè di quei passaggi nel campo "nero" di musicisti che avvertivano
il grande prestigio che il colore aveva acquisito? Il cantante Herb Jeffries, che cantò
nell'orchestra di Ellington ed era chiamato "il cow boy di bronzo",
si chiamava in realtà Umberto Alexander Valentino, figlio di mamma irlandese e
papà siciliano con sangue francese e arabo. E qui, e Zenni
lo fa brevemente ma con energia, non va trascurata l'influenza italiana sulla
musica jazz, sia coi diretti protagonisti sia con più remoti accostamenti
(c'era perfino chi guardava a Puccini). Per non dire di quella ebraica,
fondamentale anche sul piano organizzativo e discografico.
Considerando
le sfaccettature dei fenomeni artistici e la fluidità delle tradizioni, le
conclusioni di Zenni si rifanno in particolare alle
indagini culturologiche del giamaicano Stuart Hall
(uno dei fondatori con Hoggart e Williams dei Cultural studies
inglesi) e, con qualche riserva, alle argomentazioni di Paul Gilroy The Black Atlantic.
Meltemi, 2003). Se esiste indubbiamente un insieme
profondo di esperienze peculiari "è alla diversità, e non all'omogeneità,
dell'esperienza nera che dobbiamo ora rivolgere la nostra totale (e più
creativa) attenzione" (Stuart Hall: Cultura, razza e potere. Ombre
Corte, 2015).
“Fogli
di Via”, novembre 2016