Carlo
Luigi Lagomarsino
Roberto
Bertoldo e l’anarchia
Cosa abbia spinto Roberto
Bertoldo a dedicare un libro all’anarchia
(Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica,
Mimesis, 2009) per
tentare di fornirne, evitando le pieghe sentimentali, una definizione accettabile è da ricercare a
mio parere nell’ambizione di dare uno sviluppo coerente alle idee che aveva
espresso in altri lavori e soprattutto nei saggi di Nullismo e letteratura (1998). In quei saggi tuttavia si leggeva,
seppur in forma eccentrica quanto pervasiva, un riferimento privilegiato ad
Albert Camus il quale stranamente in Anarchismo
senza anarchia (Mimesis, 2009) è nominato appena e per giunta in nota. Che
poi quel riferimento lo si possa
ritrovare vivificante anche nei sotterranei di questo nuovo libro è un
altro discorso.
Ciò che più sembra aver
interessato Bertoldo è palesemente il prendere in esame la vasta letteratura
anarchica, individuarvi ciò che gli sembrano dei limiti sia concettuali sia
operativi, azzardarne una classificazione e porre tutto in relazione alla
visione niente affatto ortodossa che si è venuto formando attraverso vecchie
consuetudini e nuove riflessioni. Probabilmente i maggiori punti di contatto si
dovrebbero cercare fra quegli autori anglosassoni che, come Colin Ward, seppure
pubblicati e ripubblicati, non trovano veri e profondi riscontri teoretici
nella galassia (o nelle galassie, se si preferisce) dell'anarchismo
continentale. Allo stesso tempo Bertoldo rifiuta come “finti anarchici” quei
“libertarian” “free market” americani legati alla “scuola economica di Vienna”
- in particolare, ovviamente, Rothbard - sui quali l'analisi, nelle pagine
conclusive del libro, si fa sofisticata e allo stesso tempo appena suggerita,
per quanto con degli argomenti la cui”apertura” possa somigliare a una
“chiusura” (come se dire e suggerire si equivalessero) che l'impoverisce
nell'opposizione – che nel contempo può richiamare proprio Camus – fra
l'utilitarismo (la “malvagità dell'anarcocapitalismo”) e l'umanitarismo.
Non si può tuttavia
rinunciare a pensare che la stessa accusa di un camuffamento attraverso
l'evocazione dell'anarchia possa essere indirizzata a Bertoldo per quella che è
la sostanza del suo libro. Poco incline all'anarchismo della tradizione
bakunista, perplesso di fronte a quello “ecologista” di Bookchin, avverso alla
“finzione” anarcocapitalista, Bertoldo sceglie infatti la via di un anarchismo
nella democrazia, ma non attraverso la prevedibile idea di un democratismo
radicale tutto da inventare, bensì attraverso la sua definizione formale, vale
a dire attraverso la democrazia conosciuta. Cosa che fa pensare - seppure
ridotto a pura gestione della ricchezza sociale di un'umanità che dovrebbe
essere comunque sempre libera di scegliere - allo Stato democratico. Si può
immaginare come le frange sentimentali dell'anarchismo, che pure non hanno
disdegnato di arruolare un eccentrico come Francesco Saverio Merlino nel proprio
pantheon, insorgano contro tale visione. Ciò nondimeno il retro testo di questa
visione è possibile interpretarlo come una forma di ortodossia, persino di
“collettivismo anarchico”. In questo caso il merito di Bertoldo è sia di aver
letto l'anarchismo attraverso le sue ambiguità e aporie, sia di averlo pensato
in concreto attraverso esiti formali.
Se nel liberalismo lo Stato
non deve mettere naso nell'economia e limitarsi alla difesa di regole e
persone, nella visione di Bertoldo dovrebbe prosciugarsi della “politica” per
rimanere un semplice magazzino di risorse così da poter aver cura dei bisognosi
(e qui si può avvertire l'eco de La
conquista del pane di Kropotkin). Il discorso dell'”uguaglianza”
democratica si sposta dunque sulle differenze personali per tornare a
un'uguaglianza non semplicemente formale. A questo punto la dialettica fra il
detto e il suggerito si ripresenta – ma questa volta in modo più equilibrato ed
esplicito - nell'analisi che Bertoldo fa
dei concetti di individuo, libertà e proprietà – quest'ultima distinta dal
possesso. Nelle pagine relative, poste alla fine del primo terzo del libro,
Bertoldo – casomai i concetti fossero vaghi, per non dire ambigui, come in
effetti sono – mette in atto una assai stretta concatenazione di idee al fine
di essere il più preciso possibile,
malgrado la consapevolezza della difficoltà. In un certo senso tutto ciò
che ho fin qui definito la visione di Bertoldo - suffragata per giunta da un
tono assertivo che nelle finali “considerazioni a latere” assume addirittura
l'aspetto delle Tesi - è sottoposto di continuo all'azione di forze
centrifughe, come la pensosità all'umorismo. Lo è tanto che solo adesso mi
accorgo di quanto fosse già indicativo – di serietà e umorismo, di riflessivo e
da riflettere - il titolo del libro.