Pubblichiamo
la prefazione alla raccolta La Strada delle Stelle di Francesco Bernardin (Sensibili alle Foglie, 2013)
Wolf Bruno
la poesia di Francesco Bernardin
Si
raccolgono in certa poesia toni di volta in volta declamatori, didascalici,
prosodici, narrativi nei quali il lirismo è tuttavia evidente. Poco o nulla
frequentata dai poeti italiani moderni – ancorché si possa rammentare Pier
Paolo Pasolini – essa ha avuto i suoi campioni principalmente nella poesia
americana, dove le diramazioni della stirpe withmaniana sono tanto scontate
quanto varie. In particolare, anche in ragione di un’ascendenza rivendicata più
che dissimulata, quindi in un certo senso aliena da raffinati processi di
filiazione, nella poesia della cosiddetta “beat generation” emerge ancora
esemplarmente leggibile questa procedura, per quanto la si voglia esteticamente
ridimensionare o la si consideri un modello stanco legato più alle pressioni
vitali di un preciso momento storico che a una qualità senza tempo. Quando in
Italia si cominciò a conoscerla, non tardarono a deflagrare in modo abbastanza
indipendente delle esperienze giovanili in parte omologhe a quelle pressioni esistenziali
di cui si è detto. Era consueto allora, verso la metà degli anni sessanta,
ritrovare fra i “capelloni” pacifisti che costituivano una rete di ribellione
insediata nelle piazze del paese, qualcuno che faceva bella mostra di taccuini
o fogli sparsi riempiti dai versi i cui estimatori raramente esondavano dalla
piazza in cui erano letti. Non
mancarono, è vero, dei nomi – pochissimi – assurti a rappresentare la
situazione, ma la storia letteraria è ancora oggi avara nei loro confronti,
tanto che se proprio un nome le si volesse collegare salterebbe fuori, suppongo,
quello di Dario Bellezza, più legato di fatto all’ufficialità culturale romana
(e pasoliniana) che al mondo, ingenuo più che velleitario, delle piazze.
Francesco
Bernardin è lontano, per generazione, da quel lontano scenario. Ne ha
condiviso, almeno in parte, le letture, le quali del resto sono rimaste a lungo
– e probabilmente lo sono ancora oggi – una tappa nella crescita di spiriti
affini. Esito tuttavia a sancire una precisa linea di influenza con quello
scenario – e quei poeti –nella sua voglia di dire e raccontare che per comodità
sua, mia, nostra andiamo a chiamare poesia (ma si noterà, nella raccolta, anche
un racconto vero e proprio). Il motivo scatenante nella poesia di Bernardin non
è un modello, importante o meno che sia, casomai è una città. Ciò mi fa pensare
che quello che ho chiamato modello, sia esso o no operativo, non è tanto un
riferimento intellettuale concentrato in certi nomi di poeti e scrittori, ma il
modo stesso di dire e raccontare come vuol dire e raccontare Bernardin. Un
sistema, quindi, una grammatica della fantasia che ha a che vedere con ben assodate
realtà nelle loro variazioni psicologiche. E quanto questa grammatica
corrisponda alla città di cui si è detto, che è Genova, non è facile
testimoniarlo se non la si conosce. E non è facile conoscerla, più facile è
detestarla. Ma Genova è anche la mia
città e capita che mi vanti di saperla vedere come altri non sanno fare.
Bernardin ha comunque un vantaggio, quello di vivere lontano, un vantaggio che
rende tangibile quello strano sentimento che potremmo chiamare “mal di Genova”
nello stesso modo che si potrebbe banalmente inventare il nome di un profumo.
Ciò fa sì che realtà e grammatica della fantasia siano la stessa cosa quando le
si annusi.