Si
tratta di due articoli fra quelli pubblicati su “Il
Lavoro” in tempi diversi da Giuseppe Cava
e radunati in un’edizione della savonese Sabatelli nel 1971. Giuseppe Cava
(1870-1940), anarchico legato a Luigi Galleani, subì
una condanna a sei mesi di carcere per aver partecipato alle manifestazioni anti-crispine
in appoggio ai Fasci siciliani e ai moti della Lunigiana. Così il
Ministero dell’interno: “Cava Giuseppe ha animo ribelle, indomito. Dotato di
naturale ingegno e di discreta istruzione, è il più esaltato ed efficace
conferenziere del partito anarchico in Savona”. Tipografo e artigiano giocattolaio,
il regime fascista lo sottopose ai vincoli dell'ammonizione. Ebbe una vita
segnata da eventi dolorosi come la morte di un figlio e di una figlia. Operaio
diciottenne, in un incidente in fabbrica perse una gamba. Poeta, la sua
raccolta In to remoin (nel vortice della vita), ricevette molte lodi e fu apprezzata, in
particolare, da Camillo Sbarbaro e Angelo Barile. Savona,
la sua città, gli ha dedicato una via. Fu definito “l’anarchico celeste”.
Giuseppe Cava (Beppin da Cà)
Carnevaleide e vecchie
maschere
Senza il manifesto del
Questore nessuno s'accorgerebbe d'essere in pieno Carnevale, anzi che il
Carnevale trovasi agli sgoccioli delle sue tramontate
pazzie. Non maschere nè vistosi sgargianti costumi in
esibizione nelle vetrine e nemmeno clamori in falsetto di mascherotti
nelle strade. Persino l'allegra corsa studentesca sembra non abbia luogo. Sia
pure; nessuno se ne lagna. C'è ben altra carne al fuoco!
Tuttavia c'è chi ricorda
come il Carnevale ebbe nella città nostra anni di vero splendore, al tempo in cui
Milano furoreggiava con i suoi Carnevaloni e un poco per tutte le città
d'Italia si avevano mascherate imponenti per genialità e fasto. È dal 1886 –
cinquant'anni giusti or sono – che ebbero inizio a Savona i veri Corsi
Mascherati con carri grandiosi e mascherate a piedi numerosissime e
indiavolate. Precedentemente soltanto qualche trovata individuale o di comitive
o i soliti malinconici Pendelafico e Toni; ma niente
di organizzato e di veramente bello.
Con i Corsi Mascherati,
presero voga pure i Veglioni. Tutta la settimana grassa e i due ultimi giorni
c'erano veglie mascherate, che culminavano in quella del giovedì grasso indetta
dalla Fratellanza Operaia; il cosidetto Veglione
degli artisti, a cui prendeva parte il fior fiore della città.
Ma allo stesso modo di
molte iniziative cittadine, anche i Corsi Mascherati subirono alternative
d'alti e bassi per mancanza d'uomini e di mezzi adeguati e miseramente finirono
per affogare nelle rivalità meschine. Comunque ne sopravvive il gaio ricordo e
v'è chi possiede tutt'ora fotografie dei carri genialissimi e artistici del Merani, del Pinetto Garassini,
del Maccagno e di tanti altri, degni sotto ogni aspetto di rivaleggiare con
quelli dei corsi d'altre città famose per le loro feste carnevalesche.
Dal momento che ho
accennato alle mascherate vistose, mi credo obbligato di accennare a due
semplici maschere isolate, le simpatiche beniamine della folla, che si
divertiva ad ascoltare le loro tirate satiriche e le arguzie fini piene di
umorismo di buona lega che la mandavano in visibilio: le due maschere tipiche
della nostra regione, il «Marchese» e il «Paesano», egregiamente e con spassosa
verve impersonate per un buon decennio da un noto e colto causidico, devoto
alle muse dialettali, e da un notissimo merciaio ambulante, che del paesano
aveva tutta la petulanza e la rozza spontanea battuta umoristica.
Il Paesano è morto da
qualche anno, e il causidico s'è dedicato ad altro, e tutto è precipitato nella
grande congerie dei ricordi. Tutto al più qualche vecchia dama sente forse, in
questi giorni, la nostalgia delle fastose mascherate e dei dolci peccati, cui
le fu pronuba la bautta, e sospira invano davanti allo specchio appannato dal
tempo, che le attenua in una nebbia pietosa le stigmate impressele dagli anni
sul viso già tanto fiorente.
Carnevale, ormai fila via
veloce senza chiasso e senza rimpianti, tra il manifesto del Questore e i
rintocchi funebri della mezza notte dell'imminente martedì grasso, annuncianti
dall'alto dei campanili che non è lecito insanire più oltre. Ammonimento
inutile!
Oggi la gente d'Italia dà
del filo da torcere e lezioni di serietà e di coerenza a chi nella sua
altezzosa superbia ebbe a chiamare un tempo la patria nostra «Carnival Nation»!
VECCHIE MASCHERE NOSTRE
Carnevale è morto, tra
l'indifferenza generale, come un qualsiasi ignoto. La sua gaia pazzesca
regalità fatta di orpelli, non gli è valsa un rigo di necrologia. Ho notato
qualche avviso di veglione timidamente esposto in un angolo di vetrina; un
cartello messo là per commiserazione, quasi si trattasse d'un oggetto usato di
cui ci si vuol disfare. Ora la Quaresima impera e sulle folle prone tuona
tremenda e lugubre la condanna che invita a rinsavire: «Polvere sei e polvere
diverrai!». Dopo quest'ultima Domenica della
Pentolaccia, Carnevale 1938 andrà a raggiungere nella buia tomba del tempo la
lunga teoria degli scettrati monarchi col simbolo della follia che lo
precedettero.
E ce ne furono dei
veramente regali su cui gli anni non son riusciti a stendere la coltre pesante
dell'oblio. Chi non ricorda gli scapigliati e lussuosi veglioni, i corsi
mascherati, i gruppi innumeri di maschere gaie e loquaci, i getti enormi di
coriandoli e stelle filanti, che ricoprivano il pavimento delle vie d'uno
spesso tappeto multicolore? E l'allegria, il vociare in falsetto che tramutava
la città in una bolgia di spensierati cui unico scopo era quello di divertirsi
senza riserve e di far del chiasso con tutti gli strumenti inventati per far
rumore? Il ricordo è vivo come d'ieri, ma i ricordi non ridanno vita a ciò che
è passato.
Come tutte le altre
regioni d'Italia, anche noi Liguri avevamo la nostra maschera particolare, una
maschera fastosa, compassata, aristocratica, troppo legata all'etichetta per
esser gaia e sbarazzina come tant'altre: il «Marchese». Ed è perciò che il
popolo gli contrappose il «Paesano», furbo e semplice nello stesso tempo, con
tanto di «gazzo» vermiglio in testa, il sacchetto di castagne sulle spalle e
l'immancabile salame che offriva alle ragazze con quella sua linguaccia pepata,
in prosa e in rima provocando l'ilarità grassa dei gruppi che lo circondavano e
lo provocavano a dirle grosse.
Altra maschera puramente
nostra il «Pendelafigo», da anni scomparso. Maschera
sciocca che dava dei punti ai pesci per mutismo, coperta da un lungo cappotto
con cappuccio e con una mezza maschera in volto. La sua specialità consisteva
in una canna da pesca a cui era legato un fico secco che coloro, a cui veniva
offerto dovevano afferrare con la bocca. E nel mentre, specie i ragazzi, si
accanivano contro l'esca ballonzolante, da una sacca che portava a tracolla
traeva una manciata di crusca e gliela gettava in viso. Divertimento assai
magro, che non valeva il «fico secco» guadagnato con tanti salti tra i lanci
accecanti di crusca.
Fratello siamese del «Pendelafigo», era una specie di toni, vestito con una
«tuta», su cui eran dipinte figure astronomiche e con
in capo un lungo berretto a cono. Tutta la sua vivacità consisteva nel far
salti intramezzati da innumeri «Ciao, ciao!» «Te conoscio».
Una simile maschera non effondeva attorno a sè molta
allegria e noi lo chiamavamo «Testa, cù, berretta è cannon». Però, bisogna concedergli un'attenuante a tanta
insipidezza: distribuiva di tratto in tratto qualche confetto alle belle
ragazze che incontrava.
Per fortuna, altre
maschere, non schiettamente paesane, quali il «Dottore» e la «Vecchia»
pettegolona, dall'ampia cuffia di madrasso, il
«mezzero» sulle spalle e la cannocchia e il fuso in mano che tagliava cappotti
a tutto spiano, comunicavano nel pubblico il brio del quale scintillavano come
fuochi d'artificio.
Un celebre «Dottore» è
stato ai suoi tempi l'amico Menico Berlingeri, il
quale si era disegnato da se stesso un grosso libro
zeppo di sanguinanti figure anatomiche, che illustrava al pubblico con discorsi
pieni di verve e di comicità, decantando i suoi specifici e le regole per
conservarsi sani. Era davvero spassosissimo e nessuno seppe più soltanto
imitarlo.
Basti dire che sapeva
cinquemila versi del «Sciò Reginn-a» a memoria. E
parimenti un «Paesano» arguto che non lasciava botta senza adeguata risposta,
fu il venditore ambulante Luigi Becco dalla figura maschia e dalla voce
metallica, con la quale sapeva dar risalto a tutti i sottintesi di cui era
condita la sua sciolta parlantina. Tutti e due furono per parecchi anni le
figure centrali dei nostri carnevali passati, che purtroppo non si rinnoveranno
più mai, perché, come scrissi, i ricordi non han la miracolosa forza di
risuscitare il passato, del quale sono come l'aroma sottile rimasto in certe
chiuse scatole che hanno contenuto oggetti a noi tanto cari e dolci.
Però la nostalgia di un
po' di spensieratezza e di chiasso permane nei nostri cuori. Ah, se si potesse
insanire una volta ancora, come dice il proverbio latino: «Semel in anno licet
insanire!».