Da I Germani e gli altri - a cura di Vittoria Dolcetti Corazza e Renato Genere, Edizioni dell’Orso, Alessandria 2003 - preleviamo, col consenso dell’autore, questo contributo.

Massimo Bacigalupo

Scoprendo Beowulf con Seamus Heaney

Un altro Beowulf in italiano? Nel 1999 il sessantenne poeta irlandese Seamus Heaney pubblicò una nuova traduzione del formidabile poema a Londra e New York, con grande successo di pubblico e critica. L’editore romano per cui avevo curato negli anni precedenti tre volumi di prose critiche di Heaney volle presentare in Italia questa fatica poetica e critica di un poeta fra i più considerati dei nostri tempi, che tuttavia in Italia inevitabilmente è noto solo a un pubblico limitato, e mi propose di dare una versione italiana della versione inglese di Heaney. Misi mano all’impresa approfittando di un soggiorno in Scozia presso Hawthornden Castle, una fondazione per scrittori, nel luglio 2001. Poi iniziò il lungo e complesso lavoro redazionale per mettere a punto la traduzione, ma il volume uscì a tempo di record nella primavera 2002. Un’edizione a grande formato contenente la bella introduzione di Heaney, il suo testo inglese e la mia versione italiana, il testo anglosassone edito da Wrenn e Bolton, le Genealogie presenti nell’edizione inglese (Heaney ha semplificato alcuni dei nomi per facilitare la lettura), un Glossario dei nomi che ho preparato per l’edizione italiana sulla base di quello di Wrenn e Bolton, dando alcune indicazioni sulla pronuncia, una mia Postfazione sull’operazione compiuta da Heaney e sulle strutture e simmetrie “barbare” del poema, e infine, come se non bastasse, il celebre ma non facilmente reperibile saggio di J.R. Tolkien su Beowulf del 1936, di cui Heaney parla nell’Introduzione come fondamentale nel rivendicare il carattere di capolavoro poetico dell’opera, strappandola alle grinfie degli antiquari.

     La scelta di aggiungere il lungo saggio era dell’editore italiano, sensibile giustamente al recente rinnovo di interesse in Tolkien per via della serie di notevoli film tratti da Il Signore degli Anelli. Sperava che il nuovo Beowulf italiano beneficiasse di questa brezza consumistica e che qualcuno delle decine di migliaia di spettatori e lettori di Tolkien se ne lasciasse incuriosire. Scoprì che in Italia esisteva una traduzione del lavoro di Tolkien (in Il medioevo e il fantastico, Milano-Trento, 2000), ma presto mi accorsi che essa era alquanto zoppicante, sicché praticamente nelle ultime convulse settimane di preparazione del volume dovetti riscrivere la traduzione del saggio tutt’altro che semplice di Tolkien – quaranta fitte pagine nell’edizione italiana -- scritto peraltro nello stile ampolloso del conferenziere oxfordiano che faceva parte del suo fascino Old England.

     Ed ecco sul tavolo il bel libro azzurro di grande formato, con sulla copertina un monile d’oro serpentiforme, giusto in tempo per presentarlo al Salone del Libro di Torino nel maggio 2002 e perché nell’occasione l’amico Piero Boitani ne parlasse con entusiasmo dalle pagine del prestigioso supplemento domenicale del Sole-24 Ore (19 maggio 2002). Così il Beowulf rientra in circolo, diventa un fenomeno letterario, tanto da assicurare al suo traduttore angloirlandese il premio “Whitbread Book of the Year”. Heaney ne registra una lettura pressoché integrale (ma decurtata delle digressioni) che è trasmessa ogni sera dalla BBC nazionale e internazionale. Il villaggio globale ascolta nella nuova versione il racconto nebuloso dell’antico bardo. Distribuita su tre compact disc dal suo editore, la lettura di Heaney in quella sua voce angloirlandese pastosa e pacata è una riscoperta di poesia nuda, di pura favola. Non c’è nessuna musica di sottofondo a distrarre dalla pura presenza della voce.

      Heaney è un maestro della lingua ed è stato anzi accusato di compiacersi troppo delle pure sonorità (il suo maestro Joyce l’avrebbe messo in guardia dalla delectatio morosa di cui era esperto). Rileggendo il suo Beowulf in compagnia della sua voce in cd notiamo le allitterazioni che ha voluto e saputo riprendere dall’originale, concedendosi (come spiega nell’Introduzione) diverse libertà rispetto alla metrica anglosassone. Per esempio della figlia di Halfdane (Healfdene nell’originale, 57) si dice che essa è “a balm in bed for the battle-scarred Swede” (63), un balsamo a letto per il marito svedese con le cicatrici delle battaglie: dove balm in bed rende heals-gebedda (“compagna dell’amplesso” nella traduzione di Ludovica Koch) in modo da allitterare con battle. Poche righe sopra si dice di Halfdane: “He was four times a father, this fighter prince” (59), dove vediamo il lessico prosastico privilegiato da Heaney sposarsi senza forzatura alla serie allitterativa (“Fu quattro volte padre, questo principe guerriero”, nella mia traduzione, che riduce a due le tre omofonie  dell’originale).

            Infatti Heaney è scrittore che combina il gusto magico della tradizione irlandese, la voluttà del canto, alla referenzialità della tradizione britannica. Uno dei suoi maestri è Philip Larkin, rappresentante autoeletto dell’Inghilterra piccoloborghese e esterofoba del secondo Novecento (“Dio stramaledica i Francesi”, avrebbe potuto dire), che racconta di piccoli orrori quotidiani, di incavolature, e cupi memento mori (vedi la recente riproposta della raccolta Finestre alte, a cura di Enrico Testa, Torino 2002):

 

Man hands on misery to man.

It deepens like a coastal shelf.

Get out as early as you can,

And don’t have any kids yourself.

 

L’uomo trasmette all’uomo la pena.

Essa sprofonda come una piattaforma costiera.

Esci di scena il più presto che puoi

e non avere figli tuoi.

 

   Heaney è sfuggito a questo cupo realismo grazie alla sua serenità fatalistica di contadino irlandese cattolico e grazie ai lunghi soggiorni in America, dove i vincoli e gli asti europei (e irlandesi) sono lontani e ognuno è chiamato a fare per sé.

      Fu infatti un editore americano che per la più diffusa antologia universitaria della letteratura inglese, The Norton Anthology of English Literature (la più adottata anche in Italia), propose a Heaney di tradurre Beowulf nei primi anni 1980. Ed egli vi si mise come a un penso da svolgere con l’antica diligenza di collegiale. Ma anche, con la sua attenzione ai rapporti fra antico e nuovo, estrapolò qualche brano di rifacimento per i suoi libri di poesia. Così nella raccolta The Haw Lantern (1987, trad. it. F.R. Paci, La lanterna di biancospino, Parma 1999) troviamo un testo intitolato A Ship of Death (c’era infatti un libro di D.H. Lawrence con un titolo simile), un rifacimento (dichiarato in fondo) di Beowulf  26-52.

      La lanterna di biancospino è una raccolta in cui Heaney riprende l’allegorismo dei poeti dell’Europa orientale per dar conto dei conflitti di coscienza e partiti fra Eire e Ulster, e il funerale di Scyld è chiaramente un rito barbaro e composto che trova eco in una situazione di guerriglia e bande leali ai loro capi. Un funerale irlandese. Solo che naturalmente quello di Scyld è molto più grandioso, anche se il bardo conclude assai prosaicamente a proposito degli ori accumulati sul corpo del re morto nella barca funebre che

 

No man can tell,

no wise man in hall or weathered veteran

knows for certain who salvaged that load.

 

Nessuno può dire,

nessun saggio nella sala o vecchio veterano

sa per certo chi recuperò quel carico.

 

Chi confronterà l’originale vedrà che Heaney ha rispettato (come fa di solito) il principio della traduzione verso per verso, per cui No man can tell corrisponde al secondo emistichio del v. 50, Men ne cunnon. Il revisore editoriale della mia versione mi presentò qualche dubbio circa l’uso di sala per hall, avrebbe preferito corte o reggia, ma a mia volta ho seguito da vicino il testo di Heaney, e ho prestato attenzione alle allitterazioni che via via si offrivano, come appunto in saggio nella sala. In seguito ho controllato l’originale e la traduzione a fronte della Koch (Torino 1987), e delle volte ho scoperto parole e suoni analoghi a quelli della mia traduzione, come qui il saggio nella sala traduce sele-rædende.

    In generale nella mia esperienza di traduttore ho trovato stimolante riprendere con parsimonia parole e suoni dell’originale, anche se così si presta il fianco all’accusa di aver chiamato in causa un “falso amico”, perché di rado il significato delle due parole etimologicamente o foneticamente simili è lo stesso. Ma quando si può il gioco può dare buoni risultati. Nel caso di una traduzione di una traduzione uno può giocare su due tavoli: il rispecchiamento della traduzione e quello dell’originale (come in sele-rædende/saggio nella sala). Ho fatto in realtà una sola esperienza analoga, traducendo in italiano l’Omaggio a Sesto Properzio di Ezra Pound (Genova 1984, Milano 1997), che è a sua volta un rifacimento di brani di Properzio. Come col Beowulf, potendo scegliere fra diversi sinonimi per una parola inglese, ho preferito usare quello più vicino come suono e magari etimologia all’originale comune.

 

Properzio: Deficiunt magico torti sub carmine rhombi.

Pound: The twisted rhombs ceased their clamor of accompaniment.

Versione italiana: I rombi torti cessarono il clamore del loro accompagnamento.

 

       Tornando alla versione di Heaney del funerale di Scyld, vediamo come egli ha cambiato la versione passando da quella inclusa come testo poetico a se stante in La lanterna di biancospino a quella che poi divenne parte dell’opera complessiva:

 

A ring-necked prow rode in the harbour,

clad with ice, its cables tightening.

They stretched their beloved lord in the boat,

laid out amidships by the mast

the great ring-giver.

                                                           (The Haw Lantern, London 1987, p. 20)

 

A ring-whorled prow rode in the harbour,

ice-clad, outbound, a craft for a prince.

They stretched their beloved lord in the boat,

laid out by the mast, amidships,

the great ring-giver.

                                                           (Beowulf  32-36)

 

Una prua curva, ad anello, cavalcava nel porto,

vestita di ghiaccio, volta al largo, degna di un principe.

Stesero il loro amato signore nella sua barca,

composto presso l’albero, in mezzo allo scafo,

il grande donatore di anelli. 

                                                           (Beowulf, Roma 2002, p. 33)

 

Heaney rende la versione del secondo verso più conforme all’originale rispetto alla prima stesura, dove il secondo emistichio era una aggiunta (imbottitura) sua, forse suggerita dall’allitterazione di clad e cables. Questa viene sostituita da quella di clad e craft. Qui l’italiano, va confessato, è un po’ pedestre, certo non riesce a rendere il ritmo impaziente dei due aggettivi bisillabi (trochei), per cui paradossalmente la versione della Koch (“impaziente, ghiacciata. La nave del principe”) sembra più vicina a Heaney della mia. In questa forse ha una certa efficacia la tripartizione parallela, con l’allitterazione fra i primi due segmenti (vestita - volta). Notiamo anche che Heaney ha virtuosisticamente  sostituito ring-necked con ring-whorled, che assuona con le moltre altre /o/ del contesto, creando uno dei suoi versi più sonori e marini.

     Scyld viene depositato in  mezzo all’imbarcazione, amidships, termine poi  ricollocato in fondo al verso, mutandone la sintassi. Infatti nella prima versione laid out è di modo finito (deposero), mentre nella seconda è un participio (deposto, composto). Forse la prima versione ha più forza, e non mi è chiara la ragione della correzione.

    La parola amidships suona familiare a un lettore di Ezra Pound, giacché sulla prima pagina dei Cantos (il viaggio di Odisseo) troviamo:

 

Then sat we amidships, wind jamming the tiller,

Thus with stretched  sail, we went over sea till day’s end.

                                                          

Poi sedemmo a mezza nave, il vento forzando il timone.

Così a vela tesa andammo sul mare sino alla fine del giorno.

 

La coincidenza non è forse casuale, giacché il canto 1 di Pound (1917) è uno dei più noti tentativi di restituire all’inglese del secolo XX le sonorità del Seafarer e in genere della poesia anglosassone. Si vedano le allitterazioni we - wind, amidships - jamming, e poi stretched - sail - sea. E’ probabile che volendo scrivere un testo inglese dalle sonorità anglosassoni Heaney abbia ricordato il lupo di mare Ezra, anche se l’inglese del suo Beowulf è assai più prosaico della litania poundiana. Che a sua volta era una traduzione inglese di una traduzione latina dell’undecimo libro dell’Odissea. Ma Pound è tanto preso dall’emozione che spesso forza o trascura il senso del testo che rimaneggia. Heaney va molto più cauto, anche se non esita a prendersi parecchie libertà. Un certo scanzonato tono poundiano o americano è riscontrabile inoltre in alcune battute particolarmente prosaiche, quasi delle stonature. La vedetta di Hrothgar dice:

 

I say it again: the sooner you tell

where you come from and why, the better.

 

Ve lo dico ancora: è meglio che mi narriate

subito da dove venite e perché.

                                                           (256-57)

 

E più avanti lo stesso personaggio filosofeggia:

 

Anyone with gumption

and a sharp mind will take the measure

of two things: what’s said and what’s done.

 

Chiunque abbia fegato

e mente acuta saprà misurare

due cose diverse: il dire e il fare.

                                                           (287-89)

 

Brani che possono ricordare certe volute stecche del Properzio di Pound e quelle ancora più vistose della sua tarda riscrittura di Sofocle, Women of Trachis.

Ma di solito la semplicità della versione di Heaney, sostenuta da una grande plasticità e dinamicità della lingua, risolve il problema del livello del lessico e riesce a far parlare convincentemente gli antichi re e guerrieri rimuovendo la patina di stantio senza privarli di dignità e preparandosi a rendere il momento della verità, le fragorose scene di combattimento con i mostri, che come Heaney accenna nell’introduzione, risultano vivaci e avvincenti “come un cartone animato”. Pur conoscendo l’esito in anticipo a causa della prolessi caratteristica del narratore, ci troviamo a leggere le fasi dei duelli con una partecipazione non troppo diminuita, diremmo, rispetto a quella del primo uditorio di Beowulf.

            L’intenzione di Heaney è di proporre un testo attuale e sostanzialmente fedele all’originale (a parte la specularità quanto a numero dei versi) e a giudicare dalle critiche e dal successo egli vi è riuscito. Uno studioso inglese ha opinato che “Heaney has done more for Old English than anyone before him” (Graham Coe, “Beowulf: Dinosaur, Monster or Visionary Poem?”, European English Messanger 10.2 (2001), 68). Non tutti sono stati d’accordo,  ma se ci sono stati dissensi sono rimasti in sordina. Io ho avuto un’esperienza curiosa proprio quando stavo per mettermi a tradurre il Beowulf di Heaney a Hawthornden Castle. La giovane responsabile del centro era una americana dottoranda in filologia germanica e la sera che sono arrivato alla villa-castello di William Drummond of Hawthornden, senza che io facessi alcun accenno al mio progetto, si lanciò in una filippica (l’intolleranza dei giovani!) contro il furto o colpo di mano compiuto da Heaney nei confronti del padre di tutti i poemi, travisandolo e rifacendolo a sua misura. Dunque mentre decine di migliaia di persone scoprivano Beowulf grazie a Heaney (un recensore disse addirittura che questa era la prima volta che veniva tradotto!) qualche studioso se la prendeva per tanto clamore intorno all’oggetto delle sue ricerche, carpitogli in qualche modo da questo irlandese astuto. E forse, reagendo così, anche se fraintendeva il generoso lavoro di ricreazione di Heaney, coglieva un aspetto dell’operazione che il traduttore stesso mette in luce nell’Introduzione. Cioè che egli ha voluto in qualche modo appropriare Beowulf alla sua lingua e visione regionalistica, al punto da usare termini dell’uso angloirlandese come  bawn (721) per il palazzo fortificato di Hrothgar, keening (787) per lamento funebre, fors’anche mere (845) per il lago stregato dove si celano Grendel e sua madre. Le brughiere su cui Grendel si aggira mietendo vittime sono così diventate le torbiere irlandesi rese celebri da altri testi di Heaney, che le celebra come paesaggio nazionale, spoglio, arcaico, impietoso. Heaney aveva insomma un intento revisionista. La vicenda di Beowulf, nata forse in Scandinavia, narrata e registrata in Inghilterra nella lingua che allora vi si parlava, è tempo che compia un’altra migrazione: essere riscritta non nell’inglese britannico dell’Impero e del Commonwealth ma nell’inglese delle province, e soprattutto degli oppressi. Quale più astuta rivincita del colono? E’ la vecchia polemica già portata avanti da Joyce, che ha pressoché dirottato il romanzo inglese e la lingua inglese domiciliandoli a Dublino.

     Quando Heaney tenne la sua serie di conferenze a Oxford come titolare della cattedra di poesia, fra 1989 e 1994, poi confluite nel volume La riparazione della poesia (Roma 1999), egli se ne valse per presentare all’uditorio una serie di autori marginali o eccentrici o provinciali rispetto al canone inglese, da Marlowe a John Clare a Wilde all’americana Elizabeth Bishop, così sottilmente portando avanti la sua revisione dei giudizi consolidati, rovesciando il rapporto provincia-capitale, giacchè il provinciale rivela ad Oxford la nuova interpretazione della stessa letteratura inglese. Qualcosa di simile avviene con questa rilettura o riscrittura di Beowulf da parte di un cattolico dell’Ulster, che in quanto tale si sente erede delle tradizioni culturali di entrambe le isole britanniche. (Heaney per molti versi è molto più britannico -- nel senso di inglese -- del dublinese Yeats, che non voleva aver nulla da spartire con la “grettezza” del realismo inglese.)

      In una celebre scena del Ritratto dell’artista di Joyce lo studente Stephen Dedalus rivendica a proposito di una parola desueta, tundish,  che gli capita di usare parlando con un insegnante, di essere più addentro alla lingua inglese degli stessi inglesi. Heaney nell’Introduzione al Beowulf parla della rivelazione, del diritto di accesso al poema, concessigli dal verbo tholian incontrato nel testo e nel lessico di Wrenn, che nella forma derivata thole riconobbe come termine comunemente usato in famiglia.

 

- Dovranno semplicemente imparare a sopportare, They’ll just have to learn to thole -- diceva mia zia a proposito di qualcuno che aveva subito un lutto imprevisto. Ed ecco che ora thole mi riappariva nel mondo testuale ufficiale, mediato dall’apparato di una edizione filologica, un piccolo campanello che mi ricordava che la lingua di mia zia non era solo un possedimento famigliare circoscritto ma un’eredità storica: essa includeva il viaggio a nord che tholian aveva compiuto verso la Scozia e da lì la traversata nell’Ulster con i coloni, e poi da questi ai colonizzati che originalmente parlavano irlandese, e poi la più lunga traversata quando gli Irlandesi scozzesi erano emigrati nel secolo XVIII nel sud degli attuali Stati Uniti. Quando lessi nell’americano John Crowe Ransom il verso Sweet ladies, long may ye bloom, and toughly I hope ye may thole (Dolci signore, possiate a lungo fiorire, e fortemente spero possiate sopportare), il mio cuore ebbe di nuovo un sussulto, il mondo si ampliò, qualcosa fu portato avanti. La distanza coperta dalla parola, il piacere fenomenologico di trovarla variamente trasformata dalla modernità di Ransom e dalla venerabilità di Beowulf, mi fece provare qualcosa di vago per cui di nuovo trovai l’espressione giusta solo più tardi. Quel che sentivo mentre continuavo a imbattermi in thole lungo la sua odissea multiculturale era il sentimento che Osip Mandel’štam definì “nostalgia di una cultura mondiale”. Era una nostalgia di cui non sapevo neppure di soffrire finché la trovai appagata da questa piccola epifania. Era come se, per analogia col battesimo per desiderio, avessi subito una sorta di illuminazione per filologia. E anche se ancora non lo sapevo, avevo ormai raggiunto un punto in cui ero pronto a tradurre Beowulf. Tholian mi aveva garantito il diritto di passaggio. (Beowulf, p. 20)

           

Il brano è rappresentativo del modo pacato e poetico di ragionare del nostro poeta-filologo. Infatti l’Introduzione si apre con una sintesti critica del Beowulf, per poi passare alla genesi della traduzione, alla storia di Heaney. Che è persona degna e modesta, ma evidentemente non vede nulla di strano nell’introdurre la propria vicenda personale nell’avantesto dell’epica anglosassone. (Questo nuovo Beowulf è stato molto letto dal pubblico della poesia moderna, concordi nell’ammirarne l’Introduzione.) Come nelle lezioni di Oxford il radicalismo dell’intervento è celato dal tono affabile, ma si rivela appena pensiamo cosa in effetti senza dirlo Heaney sta facendo. Sta facendo quello che paventava la mia giovane dottoranda americana. Questa non sapeva che sotto lo stesso tetto si stava preparando un ulteriore tradimento, cioè una versione italiana non del Beowulf tout court ma del Beowulf di Heaney. Quando gliel’ho mandato deve essersi molto stupita, ma ha incassato il colpo e mi ha mandato un biglietto di congratulazioni. (“Beowulf! It haunts me! No, really, congratulations – it must gave been an epic struggle”.)

            Almeno in un caso nella versione provai anch’io la tentazione di seguire l’esempio di Heaney e regionalizzare il testo. Ho già detto dell’uso del termine irlandese bawn per fortilizio. Qui si sarebbe potuto scrivere in italiano castellaro o castellare, ricordando che così sono chiamati in Liguria e forse altrove i siti di insediamenti preistorici di pastori-guerrieri in cima alle colline. Uno di questi castellari si trova presso S. Ambrogio di Zoagli, ed è spesso evocato struggentemente da Ezra Pound nei Canti pisani, come un luogo fatato fra muretti a secco, ulivi, apparizioni visionarie (“from il triedro to the castellaro / the olives grey over grey holding walls / and their leaves turn under Scirocco”, canto 76). Certo Heorot sarà stato ben più splendido del fortiilizio preistorico a picco sul Golfo Tigullio dove passeggiava Ezra che studiò e tradusse a suo modo l’anglosassone (vi tornò citando da Layamon nel canto 91 in un brano commosso) e che in qualche modo (ma Heaney forse non sarà d’accordo) diede il la al Beowulf del 1999. Comunque il mio revisionismo ligure fu bloccato dal revisore editoriale a cui il termine non suonava, sicché ripiegai sulla soluzione indolore. Grendel si avvicina a Heorot:

 

Spurred and joyless, he journeyed ahead

and arrived at the bawn.

 

Disprezzato e tetro, proseguì il cammino

e arrivò al fortilizio.

                                                           (720-721)

 

Un Beowulf moderno soggiace alle regole dell’editoria e una delle parti più interessanti del lavoro, quando si ha a che fare con dei revisori preparati (e cortesi), è confrontarsi con le correzioni che questi primi lettori propongono. La traduzione viene modificata, non solo per le stesse proposte, ma perché esse fanno notare al traduttore cose che altrimenti gli erano sfuggite. Un testo è come una tela di ragno che deve avere una sua compresenza, e in certi momenti dopo aver lavorato ore e giorni su un testo, se ne ha questo tipo di percezione spaziale, paradigmatica.

            Un luogo dove ho conservato una mia scelta nonostante i dubbi del revisore è il famoso brano in cui Beowulf parla del dolore di un vecchio che ha perso il figlio, che si conclude come segue nella versione inglese:

 

Alone with his longing, he lies down on his bed

and sings a lament; everything seems too large,

the steadings and the fields.

 

Solo col suo desiderio, egli è coricato nel letto

e intona un lamento; tutto sembra troppo largo,

i poderi e i campi.

                                                                       (2460-61)

 

L’uso di largo parve strano al mio interlocutore, ma ho preferito conservarlo (Koch ha spazioso) per diverse ragioni, una sicuramente la mia occasionale predilezione per gli apparenti “falsi amici”: cioè per conservare nella traduzione una parola graficamente e foneticamente simile all’originale, anche se può parere un errore. Infatti la poesia colpisce usando delle parole che non sono quelle che ci aspetteremmo, sono un po’ fuori linea. Nella versione così antieroica di Heaney, così volutamente pedestre o diciamo terra a terra, queste piccole infrazioni aiutano a segnalare al lettore che non ci troviamo davanti a una cronaca spiccia. Nei versi succitati notiamo un altro caso di regionalismo nella parola steadings, che penso faccia anche parte del lessico contadino dell’Ulster che Heaney apprese bambino prima di partire per il collegio e per l’avventura che non lo portò al sacerdozio (come probabilmente si aspettavano i genitori) ma a Berkeley, Oxford e Stoccolma.

      Riscrivendo Beowulf per il lettore anglosassone del 2000, Heaney ha eliminato la divisione in quarantatré sezioni dell’originale sulle cui ragioni molto si è ragionato. Ha supplito, in luogo di un glossario e di note, delle rubriche in margine che riassumono a grandi tratti gli episodi e forniscono un minimo di giustificazione delle digressioni, i lunghi episodi introdotti nella vicenda principale. Nella versione italiana ho preferito ripristinare in margine l’indicazione delle parti e aggiungere (come ho detto) un indice dei nomi. Comunque è evidente l’intenzione di Heaney di proporre il Beowulf come immediatamente leggibile e godibile con un minimo di informazioni supplementari: quante ne possono dare l’Introduzione e le glosse marginali. Nell’Introduzione non manca di sottolineare che le lotte fra Svedesi Danesi e Geati, e la presunta distruzione di questi ultimi dopo la morte del loro grande eroe lamentata alla fine, è materia di scottante attualità, da telegiornale. E nella lotta con i tre mostri nota un progressivo incupirsi dalla sfida spavalda di un giovane gagliardo all’ultima resa dei conti, l’ombra fatale della morte.

            Leggendo il Beowulf, avvertono gli specialisti, occore badare a non sovrapporre le nostre aspettative in termini sia di visione esistenziale che di strutture narrative, a quanto in effetto l’autore ci dice. Ma traducendolo e rileggendolo e studiandolo colpisce la complessa organicità della vicenda, e la funzionalità delle digressioni, che sembrano andare a ricomporre via via una compiuta cronaca dell’eroe e dei suoi interlocutori e dei loro popoli. Come in un puzzle in cui mancano dei pezzi, l’autore ci fornisce queste informazioni in maniera non cronologica, tornando al passato o anticipando eventi futuri.

     Ed emotivamente appare calcolato quanto efficace l’episodio del tesoro nascosto che prelude all’apparizione del drago mortale. Il tesoro che egli custodisce è quanto rimane di un popolo scomparso, e questo anticipa senz’altro – non saprei quanto volutamente – il terrore finale dei Geati che hanno perso il loro grande protettore. Il dramma dell’eroe che non può vincere sempre ma, come il re-sacerdote di Nemi, vive in attesa della sua nemesi, si rispecchia nel dramma del suo popolo. Ecco il bel brano cupo ed elegiaco – un sentimento che sappiamo caro alla poesia anglosassone – sulla scomparsa del popolo che possedeva il tesoro:

 

La mia gente

è stata distrutta dalla guerra; a uno a uno

sono scesi nella morte, videro per l’ultima volta

la vita soave nella reggia. Sono rimasto senza nessuno

che porti una spada o lustri coppe laminate,

o faccia splendere i calici. Le compagnie sono partite.

L’elmo robusto, cinto d’oro, sarà spogliato delle lamine;

dorme il lucidatore dell’elmo che dovrebbe

lustrare il metallo della maschera da guerra;

la cotta di maglia che attraversò tutti i combattimenti,

tutti i crolli di scudi e fendenti di spada,

si corrompe col guerriero. Non più la cotta intrecciata

viaggia lontano sulla schiena del capo

accanto agli uomini adunati. Non arpa

sonante, non legno intonato, non falco 

che sfrecci per la sala, non cavallo veloce

che scalpiti nel cortile. Razzia e saccheggio

hanno vuotato la terra di popoli interi.

                                               (2249-66)

 

“The companies have departed”, dice Heaney. E non può non ricordare un verso di The Waste Land del suo maestro Eliot: “The nymphs have departed”. La tecnica sembra essere quella del catalogo, dell’accumularsi di immagini desolate, legate con diversi espediente retorici, ma essenzialmente presentati uno di seguito all’altro, paratatticamente, secondo una tecnica che ritroveremo nei moderni. Per tutti Whitman, che coi suoi cataloghi estatici voleva scrivere una nuova Genesi, non una Caduta degli Dei. Ma forse è fuorviante ricordare la grandiosità del Walhalla di Wagner. Beowulf è una storia umana in cui il soprannaturale è appena al di là del credibile, visto che ingaggia lotte fisiche con l’eroe. Un altro americano, Melville, mostrerà degli uomini ed eroi comuni alle prese con un mostro che forse (o solo per alcuni) rappresenta il principio del male. In Beowulf non c’è dubbio che Grendel e sua madre sono dei tremendi ostacoli da abbattere con le proprie mani, sono malvagi solo in quanto si oppongono al principio sociale, alla cultura di cui è simbolo Heorot, e che è sempre esposta alle loro incursioni selvagge. Sono però anche inevitabili, come il Drago dell’ultima parte del poema, che Beowulf affronta consapevole della sua prossima fine. Insomma, come voleva Heaney, questo Beowulf riletto fra 1999 e 2001, tradotto e ritradotto, scritto e riscritto, è ricco di rivelazioni e immagini per la storia – privata e pubblica – che ancora e sempre ci troviamo a vivere.