Da “Internazionale”, 25 luglio 2022

Giovanni Ansaldo

Ben Harper canta per chi non c’è più

Ben Harper è gentile. Ogni suo gesto sembra calibrato al millimetro per mettere a suo agio la persona con cui sta parlando. Scandisce le parole, sorride, gli piace fare domande e non solo riceverle. È in collegamento su Zoom dalla sua casa di Los Angeles, con una T-shirt verde e un cappellino arancione. Sullo sfondo si vede un mobile di legno dove sono riposte delle tavole da skateboard (il suo sport preferito), ma spuntano anche quadri e custodie di chitarre. “Da quando avevo vent’anni succede la stessa cosa ogni giorno: mi sveglio, mi preparo il caffè, prendo in mano uno strumento e mi siedo di fronte a una pagina bianca. Riempire quella pagina è una battaglia con me stesso”, racconta il musicista. “Ho imparato che puoi anche mettere centinaia di strumenti in una canzone ma, nel mio caso, alla fine chitarra e voce bastano e avanzano. Stavolta, però, è stato diverso, molto diverso”.

Harper si riferisce a Bloodline maintenance, il suo ultimo disco, pubblicato il 22 luglio. Un album nel quale, oltre alla chitarra e alla lap steel, ha suonato anche basso, batteria e percussioni, esplorando per la prima volta territori ritmici e strutture diverse rispetto al passato. L’emblema del nuovo corso è la splendida Problem child, un brano dominato da un ritmo irregolare e dai fiati del jazzista Geoff Burke, amico di Harper, una specie di jazz punk che rimanda a certe cose dei Morphine. “Questo pezzo parla del me stesso di trent’anni fa e del me stesso di trenta giorni fa, ma anche delle conversazioni che continuo ad aver con mio padre dentro la mia testa”, spiega Harper.

La bloodline, la stirpe evocata dal titolo, del resto è una delle principali fonti d’ispirazione dei brani. Bloodline maintenance nasce dall’assenza. L’assenza del padre di Harper, morto diversi anni fa, che era di origini afroamericane e cherokee e si separò da sua madre, una donna bianca, quando il musicista aveva solo cinque anni. E l’assenza più recente di un amico, il bassista Juan Nelson, colonna portante degli Innocent Criminals, la storica band di Harper, scomparso nel giugno 2021 all’età di 62 anni.

“La musica che ascolto trova sempre il modo di liberarmi dal dolore. Quella che compongo ancora di più. È un processo catartico e necessario. Gran parte di questo disco è stato composto con il basso, non mi era mai successo. Era un modo per sentirmi vicino a Juan. I testi invece sono venuti fuori da conversazioni immaginarie con mio padre”. Come saranno i nuovi Innocent Criminals, che quest’estate saranno in tour insieme a Ben Harper per ben sei date in Italia – la prima a Palmanova (Ud) il 2 agosto, l’ultima a Brescia l’11 – senza Nelson? “Sarà impossibile sostituire Juan, perché con un solo strumento riusciva a essere contemporaneamente un bassista, una sezione fiati, una tastiera, un coro gospel e un secondo chitarrista. Per riempire quel vuoto ho dovuto allargare la band a sei elementi e trovare un nuovo sound. E l’ho fatto anche grazie a Bloodline maintenance. Perfino dopo la sua morte, Juan è stato una guida per me”.

Con i nuovi Innocent Criminals Ben Harper farà anche da spalla alla popstar Harry Styles per ben 15 date a Inglewood in California. “Sono molto contento. Harry è un essere umano meraviglioso. Quando siamo stati in studio insieme per registrare Boyfriends, un brano del suo ultimo disco, come prima cosa ci siamo seduti a mangiare. Potete immaginarvi un modo migliore per cominciare una session?”, scherza il musicista.

Ben Harper ha da sempre un rapporto stretto con la tradizione della musica nera. Del resto è cresciuto in un negozio di strumenti, il Folk music centre di Claremont, in California, che era di proprietà dei suoi nonni materni. Il passato è una fonte costante d’ispirazione per lui. E anche stavolta ci sono espliciti omaggi ai suoi antenati musicali: per esempio nel singolo We need to talk about it – una canzone di protesta su schiavitù e razzismo dove spicca il verso “You’re either a Christian or a racist, you can’t be both”, sei cristiano o razzista, non puoi essere entrambi – sembra rifarsi a Mavis Staples, con la quale ha collaborato più volte negli anni scorsi. “Oltre a Mavis, i miei modelli sono i soliti: Sam Cooke, Marvin Gaye, Stevie Wonder. Quel verso sull’essere cristiano è un’ovvietà se ci pensi, anche se molte persone che sono iscritte al mio Instagram non la pensano così”, dice ridendo. E cosa risponde ai fan che lo criticano per le sue posizioni politiche? “Sinceramente non so cosa farci, io vado avanti per la mia strada e resto fedele ai miei princìpi. Tempo fa ho detto: ‘Se siete sostenitori di Donald Trump non ascoltate più la mia musica’. A me in realtà non interessa se un mio fan è democratico o repubblicano, semplicemente non tollero la cattiveria. Trump è un repubblicano quanto io sono un marziano. Non ha niente a che fare con quello che rappresenta l’America”, aggiunge.

Un altro brano che sembra arrivare dal passato è Honey, honey, uno di quelli a cui Harper è più legato. “A me ha fatto pensare a Ray Charles. Quel tipo di suono non si sente spesso nella musica moderna. Ho cercato di fare quello che aveva fatto Mark Ronson con Amy Winehouse, rendere contemporaneo il soul di una volta”.

A proposito di punti di riferimento, mentre registrava Bloodline maintenance Ben Harper aveva in testa Mule variations di Tom Waits, il grande cantautore nato a Pomona, proprio come lui. “Quando ho ascoltato quel disco la prima volta nel 1999 ho pensato: ‘Com’è possibile che Tom Waits abbia fatto un disco del genere dopo più di vent’anni di carriera? Si era riconnesso con le radici della musica americana, era tornato al suono delle sue origini eppure aveva fatto una cosa moderna. È molto difficile fare una cosa del genere, significa avere ancora le orecchie fresche. Con questo disco ho cercato di fare una cosa simile: legarmi al passato per trovare una strada nuova, lottare ancora contro la pagina bianca”.

Ma Ben Harper ha mai sofferto del blocco dello scrittore? “No, mai. A dirla tutta mi sento in colpa per questo, perché tanti miei amici ci si sono scontrati più e più volte. Ma penso che avrei dovuto dedicare più tempo ad alcune mie composizioni, sarebbero sicuramente venute meglio”, risponde. Arrivati al momento dei saluti, dopo i ringraziamenti di rito, dice “Good to see you again”. Era una frase fatta, oppure veramente si ricorda di aver fatto un’intervista con me quattro anni fa, venti minuti di chiacchierata durante una fitta giornata d’impegni promozionali? Chi lo sa. Forse la risposta è più semplice di quello che sembra: Ben Harper è una persona gentile.