Giuliano Galletta
Basaglia, a cosa servono gli intellettuali?
Qualche giorno fa
ho partecipato alla presentazione del libro di Paolo Francesco Peloso Ritorno a Basaglia?
(Erga edizioni, pagine 475, 28 euro). All’incontro, organizzato dal Festival
Quarto Pianeta nell’ex ospedale psichiatrico di Quarto, sono intervenuti, con
l’autore, Amedeo Gagliardi, Natale Calderaro, Pietro
Borgonovo. Il saggio di Peloso, 59 anni, allievo di Antonio Slavich,
(1934-2009), psichiatra nel servizio pubblico e prolifico saggista, ripercorre
lo straordinario itinerario professionale, culturale e politico di Franco Basaglia (1924-1980), protagonista della vera e propria
rivoluzione che provocò, con la legge 180 del 1978, la chiusura dei manicomi e
alla nascita di una nuova idea di cura e gestione della malattia mentale.
Ma, come spiega bene
il libro, la lezione di Basaglia supera i confini
della psichiatria e diventa un punto di riferimento fondamentale su un problema
piú attuale che mai (la pandemia ce lo ha dimostrato
in modo inequivocabile), ovvero il rapporto tra l’esperto, il portatore di un
sapere specifico – scienziato, filosofo o economista che sia – e la società.
Altrimenti detto, la questione del ruolo dell’intellettuale, se intendiamo per
intellettuale appunto un “tecnico” che interviene nel pubblico dibattito.
La crisi dell’intellettuale
é antica quanto la parola stessa, che possiamo fare
risalire, grosso modo, all’affare Dreyfus, ma oggi
abbiamo sotto gli occhi una novità sostanziale chiamata Rete, Big Data,
algoritmi.
Come scrive Franco
Brevini nel suo saggio “Abbiamo ancora bisogno degli
intellettuali? La crisi dell’autorità culturale” (Cortina, pagine 291, 22
euro): “Con il Web 2.0 è stata spazzata via la separazione tra produttori e
utenti di cultura, che era uno dei pilastri dell’autorità Culturale».
Brevini rimpiange, Forse
a ragione, l’autorità culturale d’antan, ma nel suo
dottissimo libro non spiega su quali fondamenti, diciamo così ontologici, tale
autorità fosse fondata in passato e potrebbe ancora esserlo oggi. Ed é proprio su questo snodo cruciale che mi pare torni utile
il lascito basagliano; quando, nel 1961, infatti, Basaglia diventa direttore dell’ospedale psichiatrico di
Gorizia, resta choccato da quello che vede (fino ad
allora non era mai entrato in un manicomio), e imposta il suo lavoro proprio
mettendo in discussione la sua “autorità” (in realtà un potere quasi assoluto)
nei confronti dei malati.
É da questa
consapevolezza autocritica che partirà il percorso che condurrà, dopo anni di
battaglie, alla chiusura di quei luoghi di sofferenza e al tempo stesso una
nuova riflessione sul ruolo dello psichiatra, dell’esperto, e quindi
dell’intellettuale. In una celebre intervista di Basaglia
a Jean-Paul Sartre, datata 1975 e pubblicata nel volume “Crimini di pace” ( Baldini e Castoldi, pagine 592,
16 euro), lo psichiatra domanda: “Anche alla luce dei movimenti che si sono
verificati in questi ultimi anni (il Sessantotto Ndr)
da parte di tecnici che rifiutavano la delega sociale implicita nel proprio
ruolo, come vede la problematica dell’intellettuale e del tecnico professionale
in rapporto alla pratica istituzionale? E Sartre risponde: “Per me
l’intellettuale non è semplicemente un tecnico. Per esempio uno studioso
americano che si occupi della bomba atomica non è un intellettuale, bensì ciò
che io chiamo un «tecnico del sapere pratico»: diventa un intellettuale nel
momento stesso in cui comincia a interrogarsi sull’importanza della bomba
atomica e finisce col contestare il lavoro che fa; vale a dire nel momento in
cui constata la propria contraddizione, che è quella di servirsi di tecniche
che si fondano sull’universale per fini particolari, appartenenti a un gruppo
particolare”. L’intellettuale è quindi é tale se
chiama in causa e riflette sul proprio ruolo e il sapere ad esso collegato,
solo su questa consapevolezza critica puó basarsi
“l’autorità culturale” , che esiste esclusivamente in
termini sociali.
In un celebre
passo dei Quaderni Gramsci scrive: “L’errore dell’intellettuale consiste nel
credere che si possa sapere senza comprendere e specialmente senza sentire ed
essere appassionato (non solo del sapere in sé, ma per l’oggetto del sapere),
cioè che l’intellettuale possa essere tale (e non puro pedante) se distinto e
staccato dal popolo – nazione, cioè senza sentire le passioni elementari del
popolo, comprendendole e quindi spiegandole e giustificandole nella determinata
situazione storica”. Sapere, comprendere e sentire, credo che Franco Basaglia abbia corrisposto a tutte e tre queste esigenze ed
é forse questo atteggiamento che, a piú di quarant’anni dalla morte, ne fa un nostro
contemporaneo.
“www.goodmorninggenova.org”, 7 ottobre
2022