Giuseppe
Zuccarino
semiologia amorosa
Dopo la pubblicazione postuma
degli ultimi seminari di Roland Barthes, quelli tenuti negli anni 1976-1980
nella cornice ufficiale del Collège de France (alludiamo ai volumi intitolati
rispettivamente Comment vivre ensemble,
Le Neutre e La Préparation du roman), ora, procedendo a ritroso, si dà avvio
all’edizione dei corsi precedenti. Sul piano filologico, la situazione risulta
più complessa, perché gli appunti delle lezioni al Collège potevano essere
confrontati e integrati con le registrazioni audio, mentre dei seminari tenuti
all’École pratique des hautes études esistono solo le tracce scritte (e sarà
bene ricordare che quelli barthesiani sono realmente appunti, con valore di
promemoria, e non testi pensati per la stampa). Differiva inoltre, nei due
casi, la condizione enunciativa: se gli interventi al Collège erano in pratica
conferenze tenute di fronte ad un vasto pubblico, i corsi precedenti avevano
natura autenticamente seminariale, essendo rivolti a un gruppo ristretto di
partecipanti. Quest’ultima modalità di discorso era assai gradita al critico e
semiologo, in quanto gli permetteva di «personalizzare» l’insegnamento,
usandolo in funzione dei libri che aveva in mente di scrivere: non a caso,
nasceranno in tal modo volumi come S/Z,
Roland Barthes par Roland Barthes e Fragments d’un discours amoureux.
È proprio dal corso destinato
a generare quest’ultimo che inizia la pubblicazione della nuova serie. Se si
vuole capire subito l’entità del lavoro che Barthes ha ritenuto necessario compiere
per passare dall’oralità alla scrittura, basta confrontare le dimensioni del
«prodotto finito», ossia le 286 pagine dei Fragments
editi nel 1977, con l’enorme mole dei materiali preparatori ora proposti, ossia
le 746 pagine di Le discours amoureux. Séminaire à l’École pratique des hautes études
1974-1976 (Paris, Éditions du Seuil, 2007). E
già in questo è ravvisabile una lezione di metodo, enunciata altrove in maniera
esplicita dallo stesso Barthes: «Solo la scrittura può raccogliere l’estrema
soggettività, perché nella scrittura c’è accordo tra l’indiretto
dell’espressione e la verità del soggetto – accordo impossibile sul piano della
parola (dunque del corso), che è sempre, lo si voglia o no, ad un tempo diretta
e teatrale. Il libro sul Discorso amoroso è forse più povero del seminario, ma
io lo considero più vero».
Ricordiamo che il volume
apparso nel 1977 è stato accolto assai bene dal pubblico, per una serie di
motivi, in parte anche esteriori: la curiosità di vedere come l’intellettuale
Barthes avrebbe affrontato il tema quasi «popolare» dell’amore, la relativa
semplicità della forma di scrittura adottata (capitoli brevi, non privi di
spunti autobiografici), il carattere volutamente provocatorio dell’assunto (una
difesa del sentimento amoroso, di contro alla centralità attribuita in quegli
anni all’aspetto erotico) e infine il fatto che il discorso barthesiano fosse
riferito ad entrambi i tipi di amore, eterosessuale e omosessuale. Ma
naturalmente il volume, se osservato più da vicino, rivela nel suo autore ben
altre qualità, come l’accortezza a livello compositivo e la capacità di
contrastare il rischio di un approccio ingenuo al problema attraverso
molteplici richiami culturali. Infatti Barthes dispone le varie «figure»
tematiche in ordine alfabetico, così da annullare l’idea di uno svolgimento
lineare o obbligato delle varie fasi del processo (dall’innamoramento alla
rottura) e, pur assumendo come principale termine di confronto un
romanzo-modello, il Werther di
Goethe, ricorre a frequenti citazioni da scrittori, musicisti, mistici,
filosofi e psicoanalisti.
Per strano che ciò possa
sembrare sotto il profilo didattico, le lezioni del seminario erano già
strutturate secondo la forma che sarà propria del libro, ossia come una serie
di figure contrassegnate da denominazioni e ordinate alfabeticamente. Neppure
il fatto che le figure siano cento, e non ottanta come accadrà poi nel volume,
costituisce una vera differenza, in quanto i Fragments erano stati dapprima concepiti e scritti sulla base di
cento unità; è solo in extremis che
Barthes ha deciso di escludere venti figure, oltre a un preambolo e ad un’ampia
postfazione (tutti questi materiali si leggono ora in appendice a Le discours amoureux). Cento «voci» del
lessico barthesiano venivano passate in rassegna nel primo dei due corsi su cui
si è articolato il seminario, ma ciò non ha impedito al docente di ripartire da
capo l’anno successivo, procedendo per via di riepiloghi e aggiunte. Tra l’uno
e l’altro corso, è comunque ravvisabile qualche mutamento di impostazione:
scompare ad esempio la centralità del Werther
come oggetto d’indagine, e al largo impiego di concetti psicoanalitici
(soprattutto freudiani e lacaniani) si affianca un più marcato influsso del
pensiero di Nietzsche.
Gli appunti anticipano il
carattere inconsueto che sarà proprio dei Fragments.
Lo statuto teorico e stilistico degli enunciati appare infatti intenzionalmente
ambiguo: sarebbe difficile pensare a un lavoro di critica letteraria
(nonostante i richiami al romanzo goethiano e a testi di vari poeti), oppure a
una ricerca che voglia pretendersi, in senso stretto, semiologica. Le diverse
fasi del processo amoroso vengono scomposte in istantanee, descrivendo e
interpretando le attitudini di un soggetto alle prese non con la realtà dei propri
rapporti con l’altro, bensì con la visione immaginaria che di essi egli si
costruisce, sotto la spinta delle emozioni. Se di «discorso amoroso» si tratta,
ad essere in causa non è il dialogo interpersonale tra i due partner (cui si
accenna solo di rado), ma piuttosto il colloquio interiore che un individuo
imbastisce con sé medesimo.
Viene allora da chiedersi: chi
parla, nel seminario e nel libro? Quale specie di studioso prende in esame le
varie figure, etichettandole, di volta in volta, con formule trasparenti
(«Angoscia», «Gelosia», «Tenerezza») o enigmatiche («Atopos», «Fading»,
«Gradiva»)? Nei Fragments, sarà
l’autore stesso a rispondere alla domanda, ponendo in limine una precisazione che può apparire ironica: «È dunque un
innamorato che parla». Ma già nella prima parte del seminario vi era un accenno
scherzoso all’incomoda situazione di «un semiologo innamorato», mentre
all’inizio della seconda il messaggio si faceva più palese: «Supponiamo un
soggetto […] preso “a caldo” nella crisi amorosa, posto di fronte al compito di
descrivere, interpretare o teorizzare quel che gli succede». Barthes
considerava persino l’eventuale esperienza di chi «volesse “recuperare” degli
appunti biografici, il “diario” di un episodio d’amore, per romperlo […] in
differenti figure». Ascoltando ciò, i partecipanti al seminario avranno
probabilmente pensato a una mera ipotesi teorica, a un’idea-limite. Diversa è
oggi la situazione del lettore di Le
discours amoureux, il quale ha modo di apprendere che, tra i materiali
preparatori ai corsi, c’era anche un taccuino nel quale Barthes aveva annotato
in forma succinta gli eventi da cui era stata caratterizzata una propria
esperienza amorosa. E appunto in stretta relazione a tali eventi, l’autore
aveva redatto un primo elenco delle figure analizzate in seguito nelle lezioni
e nei Fragments.
L’aneddoto basterebbe a
dimostrare, se ce ne fosse bisogno, che un saggista degno di questo nome
sceglie i temi da affrontare sulla base non di una generica curiosità
intellettuale, bensì di un coinvolgimento di natura personale (da non
ricondurre, però, necessariamente al livello biografico). Certo, è poi
ragionevole attendersi che il critico si premuri di cancellare le tracce che
possono rendere troppo esplicito tale coinvolgimento. Barthes, da parte sua, ha
scelto di farlo solo in parte, senza portare fino in fondo il processo
obliterativo (così, chi leggesse con attenzione i Fragments potrebbe perfino indovinare il nome dell’ideale
dedicatario dell’opera). Ma egli sapeva bene di essere un critico un po’
particolare, animato o tormentato fino all’ultimo dal sogno di riuscire, un
giorno, a scrivere un romanzo. Se egli avesse davvero realizzato quel
fantomatico testo, possiamo immaginare che in esso avrebbe trovato il modo di
parlare, anche, d’amore.