Gianluca Pulsoni
Tra grottesco e violenza, le
fantasie allucinate di Marcello Barlocco
Oltre
a scoprire nuove voci, letterarie e non, fare editoria dovrebbe significare
anche provare a recuperare quelle provenienti dal passato che, per un motivo o
l’altro, non sono note o vengono dimenticate. In questo, la Giometti&Antonello
– piccola casa editrice di Macerata, creata da Gino Giometti
e dal compianto Danni Antonello – continua a riservarci piacevoli sorprese,
come Un negro voleva Iole (pp. 160, euro 22) libro che presenta una selezione
di racconti, editi ma rimasti ignoti ai più e aforismi, totalmente inediti, di
Marcello Barlocco (1910-1972), scrittore
dall’esistenza tumultuosa e che, in vita, è sempre rimasto ai margini della
letteratura italiana, come si ricorda nella nota degli editori.
Poi,
in tempi più vicini a noi, qualcosa è riaffiorato, ma sempre molto poco: un
ricordo di Carmelo Bene, incluso nella sua biografia (1998); la ristampa di un
romanzo breve dell’autore, Veronica, i gaspi e Monsignore, pubblicato da Greco&Greco
e con l’utilissima curatela di Andrea Marcheselli
(2005).
La
gran parte di Un negro voleva Iole ha
come fonte I racconti del Babbuino,
libro uscito nel 1950 e che ebbe una menzione al Premio Viareggio di
quell’anno. Dei testi in questione, ce ne sono due inclusi nelle loro versioni
successive, Le mani e L’amante delle parabole. Del primo circola anche in rete
una registrazione audio della sua lettura da parte dell’autore stesso; del
secondo invece sappiamo che si tratta di una versione pubblicata per una
rivista dell’epoca. E sempre per quella stessa rivista – “Il delatore” -, Barlocco pubblicò Un’avventura
a Genova, storia non presente nel volume originario e che, con il titolo La formula, si può leggere nel volume
stampato dalla Giometti&Antonello.
Ora,
al di là dell’innegabile piacere del testo – la lingua usata è al servizio
delle singole narrazioni, ma non mancano sottigliezze stilistiche che
impreziosiscono gli orditi -, come definire la letteratura di Barlocco? Qui non si può che concordare con Daniele
Giglioli, che nella puntata dedicata al libro del programma di Radio3
Fahrenheit, lo scorso 12 febbraio, riconosce la difficoltà dell’operazione,
sottolineando il fatto che risulterebbe erroneo associare le fantasie dello
scrittore a quelle di autori come Buzzati, Landolfi, Tozzi.
A
questa sorta di impasse, Gino Giometti – l’altro
ospite di quella puntata del programma – offre una possibile via di fuga, dal
momento che suggerisce di pensare la prosa di Barlocco
come quella di «un Landolfi americano che ha letto Lovecraft», e quindi
un’esperienza vicina ad un filone che va oltre la tradizione italiana,
specialmente quella di quando il nostro era in vita.
Fra
i racconti di Un negro voleva Iole,
quello che forse mostra in modo più pronunciato l’intreccio di due
caratteristiche presenti un po’ ovunque, cioè grottesco e violenza, è Le mani. Qui, c’è un protagonista che si
trova a scontrarsi con i propri arti, in un crescendo di situazioni i cui
estremi, con i loro correlativi oggettivi (la gogna per le mani; i binari per
la doppia esecuzione) indicano l’immobilità umana come una specie di tendenza
esistenziale generale, da cui poi, come nelle altre storie, sembrano alla fine
scaturire per lo più sangue o ghigni.
«Molti
animali inferiori, specialmente i vermi, putrefacendosi emettono una piccola
luce; gli uomini invece puzzano.» Da buon anti-umanista, Barlocco
non sembra scrivere per il prossimo suo. O meglio, non è compiacente, né gli
interessa esserlo. E per questo, in fondo, non possiamo che leggerlo con
ammirazione.
“Il
Manifesto”, 5/5/2020