Dieci anni fa, l’8 febbraio del 2001, moriva l’amico Salvatore Rotta. Lo ricordiamo ripubblicando il seguente saggio, apparso in origine come contributo a Giuseppe Baretti: Rivalta Bormida, le radici familiari, l’opera (Atti del Convegno Nazionale, 6 settembre 1997), a cura di C. Prosperi, Edizioni dell’Orso (1999)

Salvatore Rotta

Baretti a Genova

Il Baretti era una vecchia amicizia londinese del Celesia. Reduce dal suo viaggio attraverso il Portogallo, la Spagna e la Francia meridionale, il 18 novembre 1760 il Baretti si precipitò a visitare l’amico che non vedeva da un anno: “Io senza perder tempo sono andato a far visita al signor Paolo Celesia, mio degno amico, il quale per alquanti anni è stato in Inghilterra in qualità di ministro della Repubblica, e che si è ammogliato con un’amabile inglese. Né l’uno né l’altro si aspettavano di vedermi, non avendo avuto alcun aviso di mia venuta in Italia. Ho passata una sera gradevolissima in loro compagnia e in quella di alcune mie vecchie conoscenze. Hanno fatto il possibile per trattenermi qui uno o due giorni; ma mi sono messo in pensiero che voi [i fratelli] cominciereste ad essere inquieti sul mio ritardo a giungere tra voi [...]” (G. Baretti, Viaggio da Londra a Genova passando per l’Inghilterra occidentale, il Portogallo, la Spagna e la Francia, IV, Milano, 1831, pp. 178-179). Ritornò a Genova sei anni più tardi, il 20 aprile 1766, in circostanze molto avventurose (A. Neri, Giuseppe Baretti a Genova, in “Gazzetta di Genova”, XC, 1922, N. 3 e 9). A Genova si ammalò ed i Celesia “ad una loro villa lontana di qui sette miglia” (Giuseppe Baretti a Giovanni Baretti, Genova, 18-7-1766; Epistolario, ed. Piccioni, I, Bari 1937, p. 337). Il 26 di luglio partì in compagnia dei Celesia e di altri cavalieri loro amici per Manesseno. Il 2 agosto scriverà: “Intanto io sto in questa fresca villa con la sola compagnia del più giovane de’ signori Celesia, ché il maggiore con la sua dama e con molti altri cavalieri e dame si sono restituiti a Genova ier l’altro, e il signor Giuseppino Celesia ha la bontà di sacrificarsi qui per me alla solitudine, per vedermi ristabilito in salute e in forze pienamente, né io gli posso contraccambiare tanta amorevolezza che insegnandogli l’inglese, come faccio con tutto il calore, onde possa trattenersi in quella lingua col fratello che la imparò bene quando fu residente in [sic] questa Repubblica alla corte di Londra, e con la cognata che è inglese nativa. Fra otto dì ritorneremo a Genova” (Epistolario, I, 344). Da Genova ripartì “con sommissimo dispiacere” probabilmente il 23 agosto e dopo quattro giorni di “noiosa navigazione” giunse a Nizza. Da Nizza si portò a Marsiglia: “Marsiglia mi è resa piacevole da certi signori Audibert, ai quali i signori Celesia mi hanno fortemente raccomandato senza mia saputa” (Baretti a F. Baretti, Marsiglia, 2-9-1766; Epistolario, I, 347). A Londra nel 1767 comincia a preparare il suo libro sugli italiani (An account of the Manners and Customs of Italy) e Celesia gli serve da intermediario con gli altri letterati italiani: “Questi – così lo presenta a Giovan Battista Chiaramonti, bresciano – è un nobilissimo molto mio amico, la cui dama, che è inglese, è una mia costantissima corrispondente e sviscerata amica” (Epistolario, I, 3, 364, 389). Nell’opera, uscita ai primi del 1768, non mancava di nominare il Celesia tra quei dotti la conversazione e le opere dei quali “potranno servire ad illuminare i viaggiatori inglesi sui diversi oggetti delle loro ricerche” (Gli Italiani o sia relazione degli usi e costumi d’Italia, Milano, 1818, p. 90). Alti elogi faceva a Genova: “Per me, invece di persistere nella mia prima e ridicola antipatia pe’ Genovesi, ho sovente detto che se fosse in mio potere di radunare tutti i miei amici in un luogo, preferirei di vivere in Genova piuttosto che in alcun’altra città, perché il governo vi è benigno, il clima temperato, le case pulite e comode, e tutta la campagna non offre che punti di vista amenissimi e vaghi paesaggi” (Gli Italiani, Capitolo XIV). Il Celesia lo ringraziò. Il 18 di agosto del 1768, da Londra, anzi Snaresborough, il Baretti gli rispose: “Ma se ella, signor Paolo mio bello, ch’io sono quasi in collera per quel ringraziarmi d’aver detto de’ suoi compatrioti quello che verità richiede?” (Epistolario, I, 390-392). Il Baretti, per mantenere una promessa fatta al Negroni (sui rapporti Baretti-Negroni cfr. S. Rotta, Lomellini, pp. 230, 282), ritornò a Genova il 18 settembre 1770 per trattenervisi “qualche dì a fare un po’ di corte al Doge”. Fu subito “assediato dal mattino fino alla sera” dagli amici. Assediato o assediante? La sera stessa del suo arrivo volle vedere il Celesia e il compare Caffarena (cfr. lettera n. XXII). L’intenzione era di alloggiare presso il Celesia: siccome però egli aveva “la moglie vicina a farlo padre e la casa troppo piena della gente che deve assistere al parto”, giudicò più opportuno alloggiare presso il compare (Epistolario, II, 21). Nel novembre si ritirò, per attendere con più calma al suo lavoro letterario, a Pegli, in una casa che Giuseppe Celesia gli aveva fatto “avere per nulla” da un prete amico: “Ho quattro camere ed un salotto che danno sulla marina, e con giardino dietro, in cui vi è di che farmi delle limonate quante ne voglio”. In attesa di trasferirvisi, faceva in casa Caffarena la vita migliore del mondo:

L’alzo la mattina alle quattordici [otto antimeridiane], mi sbarbo e m’inciprio; poi piglio il cioccolate col compare e la comare; poi mi metto a scrivere fino alle diciannove; poi finisco di vestirmi, e poi desino o in casa del signor Celesia o del marchese di Cravanzana o dal Doge o da Checco De Franchi o da certi inglesi a Santa Marta. Poi, se il tempo lo permette, faccio una lunga passeggiata con alcuno, o torno a casa a leggere un’ora o due se piove, o a scrivere qualche lettera. Poi vado a passare la sera dal Doge, dove si ciancia, o dal signor Celesia, dove si gioca all’hombre a dieci lire per ogni cento gettoni. Là per lo più si trova una donna amabilissima, che si chiama Lauretta Serra, la quale con la mia signora Dollina Celesia fanno la partita meco, mentre in un altro canto della camera si fa qualch’altro gioco ad un tavolino. Sia superiorità di fortuna, come dicono le donne, o sia superiorità di giudizio, come dico io, io vinco almeno cinque sere in sei, e nel bilancio dei crediti e debiti che un servitor di casa fa ogni sera quando il giuoco è finito, io sono già registrato creditore di più di centocinquanta lire di Genova. Più bella vita non si può fare che quella d’essere ben visto e ben trattato da belle e amabili signore, e poi vincerle anche i loro denari. Lo dico loro sovente che, se vogliono giuocare con me ogni sera dell’anno, piglierò le patenti di cittadino genovese, essendo certo che, se non lasciano di parlare di cose che non hanno che fare con spodiglia e moniglia, quando giuocano, la superiorità della fortuna sarà sempre dal canto mio; ma esse vogliono sempre cianciare di questa o quell’altra cosa, e intanto al fin del giuoco il servidore sempre registra a credito del Baretton, come la mia inglese mi chiama. Finito il giuoco ognuno se ne va, ed io solo rimango a cena, dove si passano ancora un paio d’ore, poi un servitore m’accompagna a casa, dove vado subito in letto, per tornare a levarmi alle quattordici il dì seguente e ricominciare da capo (Ai fratelli, Genova, 5-11-1770; Epistolario, II, 41).

Con le vincite fatte in casa Celesia o in casa del cognato Pier Carlo Maineri, giocando sia all’hombre sia al whist, si era pagato due abiti, “uno di seta la state passata, l’altro di velluto quest’inverno, e credo che mi resti ancora tanto da farmene fare un altro o di seta o di velluto” (14-3-1771; Epistolario, II, 76). Ogni due o tre sere la settimana andava da Doge Negroni; e fu per lui motivo di grande tristezza che Negroni, ventidue giorni avanti lo spirare del suo dogato, il 26 di gennaio 1771 venisse a morte: “Mi comincio ad annoiare di questa città ora che il mio buon Doge se n’è ito”, scrisse il 15 febbraio al fratello Filippo (Epistolario, II, 69). E il 23 al Bicetti: “... stavo sprofondato nella tristezza quando la ricevetti [la vostra lettera], ché la morte del Doge mi affannò più che non vi potrei dire, e poi un altro mio amico s’ammalò gravemente” (Epistolario, II, 72). Ormai cominciava a essere stanco di una città “dove i librai sono pochissimi e dove si pensa più a vendere de’ velluti, delle cuoia e del baccalà, che non a comprar libri”. Se ne tornò dunque, dopo una corsa a Firenze e a Bologna, in Inghilterra. Partì da Genova il 17 aprile. Vi si era fermato sei mesi circa. A Londra non dimenticò il Celesia, che di lui si serviva per l’acquisto di certe “bagatelle” e che, tra l’altro, era in trattative (andate a monte) con i fratelli per l’acquisto di una tenuta a Valenza (Epistolario, II, 108; A. Baretti a G. Celesia, Valenza, 17-12-1771; MRG, Aut. 21. 278). Saputo che era stato inviato dalla sua Repubblica a Torino alla fine del 1772, per una definizione dei confini fra i due stati, lo raccomandava al fratello Filippo con le più calde parole: “tu sai quanto io voglia bene al signor Paolo; onde indipendentemente da quel vostro affare dell’Isole, non occorre che io ti raccomandi d’offrirtegli e di servirlo e d’accarezzarlo quanto potrai”. Ed aggiungeva:

La sua bellezza, come a quest’ora avrai veduto, non è delle più grandi, per Dio, ma una più bell’anima della sua io non l’ho ancora trovata, onde gli voglio tanto bene che, se fossi donna, vorrei averlo per drudo almeno almeno, e baciarlo e ribaciarlo, e morderlo e rimorderlo, come una gatta innamorata [...]. Scrivimi tu a minuto di lui, e se può del ricevimento fattogli dal re e dal duca e da tutta la nostra nobiltà, ché se tutti lo conoscessero intus et in cute come lo conosco io, l’ammazzerebbero con le carezze (Epistolario, II, 115).

E ad Amedeo Baretti: “Quello che ti vo dire del signor Paolo è questo, che [...] tu lo consideri come persona da me amata e pregiata quanto un dimidium animae meae, e conseguentemente che tu ti divincoli come una biscia per piacergli” (Epistolario, II, 17). Una nuova discesa in Italia (con sosta di una settimana a Genova) il Baretti aveva progettato nell’aprile del 1776 in compagnia niente di meno che del dottor Johnson e di quel “signoraccio” che era il Thrale; ma la morte improvvisa dell’unico figlio maschio di quest’ultimo mandò in aria il progetto. E il Baretti fu costretto a richiamare i bagagli che già aveva spedito a Calais. Sarà il Celesia a recapitare certi libri che egli intendeva portare con sé (Epistolario, II, 166, 171). E’ ancora Celesia a disseminare nel 1777 copie del Discours sur Shakespeare (Epistolario, II, 226-228). Nelle Lettere familiari, uscite a Londra nel 1779, il Celesia appare tra gli autori di quelle lettere immaginarie ad uso degli studenti inglesi di lingua italiana. L’amicizia non gli impediva tuttavia di dare un giudizio assai duro sull’attività giornalistica barettiana: un giudizio, del resto, ben meritato. Non era, come il piemontese, un “ammiratore miracoloso” degli amici. L’uomo Baretti, quel singolare impasto d’umori e di culture, lo interessava molto di più dei suoi eighteen-penny pamphlets o delle sue “fruste” [su queste ultime, si veda I. Montanelli – R. Gervaso, L’Italia del Settecento, Milano 1970, pp. 333-339).