Nel 2002, ricavandolo dalla Rivista Storica dell'Anarchismo (n.2, BFS, 2002), pubblicammo un saggio di Guido Barroero su Bruno Traven. Dello stesso autore inseriamo adesso quest’altro saggio che riguarda La Nave Morta (Das Totenschiff, 1926). Fu pubblicato in origine da Collegamenti Wobbly” (n.1, nuova serie, 2002.)

Guido Barroero

la nave morta  
E' uno dei tre romanzi di Traven narrati in prima persona. Gerald Gales è il nome del protagonista, come lo è ne "Il ponte nella giungla" e "I raccoglitori di cotone" gli altri due romanzi a forte contenuto biografico in cui lo scrittore (già conosciuto come Ret Marut, anarchico ed estensore della rivista Der Ziegelbrenner, ai tempi della rivoluzione bavarese del 1919) riversa alcune delle sue esperienze di vita degli anni che vanno dalla fuga dalla Germania al suo definitivo stabilirsi a Città del Messico.
La Nave morta è, in estrema sintesi, la storia di un marinaio americano che perde il suo imbarco sulla nave Tuscaloosa ad Anversa e viene arrestato dalla polizia. Siccome non ha documenti viene espulso dal paese verso l'Olanda. Da qui ritorna in Belgio e viene rispedito in Olanda. Arrivato infine in Francia si reca al consolato americano di Parigi.
Il console non riconosce la sua "esistenza" perché Gales non può provare di essere nordamericano - o nemmeno di essere nato negli States - senza i suoi documenti. Da questo momento Gales si trasforma in un uomo senza nome.
A Cadice, in Spagna, si imbarca sulla Yorikke, una "nave morta", ovvero una nave condannata dai suoi proprietari ad affondare, affinché questi possano riscuotere il premio di assicurazione. Come Gales, nessuno dei membri dell'equipaggio ha documenti, quindi sono uomini dimenticati, già "morti". La vita di bordo si svolge in condizioni disumane. Quando Gales comincia ad adattarsi alla vita di bordo della Yorikke, lui e il suo amico Stanislav, nel porto di Dakar, sono imbarcati a forza sulla Empress of Madagascar, un'altra nave morta. Quando la nave affonda, Gales e Stanislav sono gli unici sopravvissuti. Stanislav però è presto vittima della durezza della vita del naufrago: in preda alle allucinazioni si getta dalla zattera e annega. Gales sopravvive, anche se nel romanzo non si dice come.
Questa è a grandi linee la trama del romanzo più bello e "visionario" di Traven. "La nave morta" sono tanti romanzi in uno, eppure sono la stessa storia su diversi livelli di lettura.
Il primo è l'odissea di un - diremmo oggi - sans papier, un uomo senza documenti, dunque senza identità e senza nazionalità, dunque senza diritti, nemmeno i più elementari. Gales perde il "paradiso" per colpa di una donna, una prostituta con cui passa la notte ad Anversa, perde l'imbarco sulla Tuscaloosa, la sua casa, la sua unica vera patria. Diventa così un paria, un senza casta, in balia di ottusi funzionari di polizia belgi, francesi e olandesi, grotteschi e moderni replicanti dei burocrati imperial-asburgici del Buon soldato Sc'weik di Hasek. Non meglio si comportano i consoli americani a cui Gales si rivolge per ottenere un passaporto. Mentre quello di Rotterdam liquida Gales sbrigativamente, quello parigino dopo averlo fatto attendere a lungo (ma riflette Gales: "Tutti al mondo, impiegati o capi, sono convinti che la nostra classe (sociale) abbia tempo da sprecare. Per chi ha denaro è diverso. Col denaro si può ottenere tutto e non c'è motivo per dover attendere. Noi che non possiamo pagare in contanti, dobbiamo pagare col nostro tempo" p.66) lo intrattiene abbastanza cordialmente, demolendo però puntigliosamente tutte le evidenze (lingua compresa) con le quali il senza-nome cerca di dimostrare la sua nazionalità, concludendo: "Ma se anche foste nato in America, avrei sempre il diritto di contestare la vostra cittadinanza, perché potrebbe essere accaduto che vostro padre, prima della vostra maggiore età, abbia dichiarato al vostro riguardo una cittadinanza diversa" p.75. Per Gales insomma non c'è nessuna possibilità di veder riconosciuta la sua nazionalità, l'America è una fortezza inespugnabile, infatti: "...se la polizia francese vi portasse qui davanti a me, per il riconoscimento, io contesterei categoricamente la vostra pretesa alla cittadinanza americana. Posso dire, da uomo, che lo farei col cuore sanguinante, ma lo farei: perché è il mio dovere, come un soldato in guerra deve uccidere persino il suo amico, se lo incontra sul campo di battaglia in uniforme nemica" p.79, è la ripulsa definitive del console.
Non resta dunque a Gales che continuare nelle sue peregrinazioni di clandestino, fino a che non riesce ad arrivare in Spagna, altro vero "paradiso in Terra". Lì nessuno ti chiede documenti, né di lavorare per vivere, persino i poliziotti sono gentili e non è difficile procurarsi da mangiare. Ma per quanto paradiso anche la Spagna è un paese di uomini con documenti, con nome, di vivi. Gales avverte confusamente che quello non è il suo posto e un giorno mentre ozia in porto viene letteralmente risucchiato dalla Yorikke, una spaventevole bagnarola che sembra galleggiare per miracolo. La Yorikke è una nave morta, destinata ad affondare per far riscuotere il premio di assicurazione agli armatori. Il suo equipaggio è una ciurma di uomini morti, in attesa di essere sepolti in fondo al mare, e Gales trova lì il suo posto, su una carretta del mare dove all'ingresso degli alloggi dell'equipaggio campeggia la scritta: "Chi entra qui rinuncia alla sua vita; perde il nome e l'anima, di lui non resta un soffio in tutto il vasto mondo...." p.128. Sulla nave Pippip - questo è il nome con cui si fa chiamare: perché infangare un onorato nome americano che nessuno ti riconosce? - conosce gli altri senza nome e di alcuni le storie allucinanti.
Stanislav è uno di questi. Nato a Poznam quando quella città era prussiana, era fuggito da casa ancora ragazzo imbarcandosi su di un peschereccio danese. In Germania, nel frattempo era stato dato per morto. Allo scoppio della guerra era imbarcato su una nave olandese e qui le cose si erano complicate. Sbarcato d'autorità in quanto tedesco, era stato arruolato su una nave da guerra tedesca, provvisoriamente incorporata nella flotta turca. Affondata la nave su cui prestava servizio, era, in seguito, riuscito a tornare in Danimarca e a restarvi sino alla fine della guerra. Quando Stanislav però tenta, ad Amburgo, di imbarcarsi su navi tedesche viene respinto con: "Niente danesi. All'inferno i danesi! Ci hanno preso lo Schleswig e vogliono ora anche lo Holstein. Niente danesi. Via!" p.260. Si configura così il dramma di Stanislav: non è danese, non può dimostrare di essere tedesco (nel frattempo Poznam è passata alla Polonia) e nemmeno di essere polacco. In un vero e proprio crescendo delirante tra isterismi nazionalistici e parossismi burocratici, Stanislav si trova sballottato tra una pletora di funzionari e poliziotti tedeschi e addetti al consolato polacco: "Avete optato per la Germania? Voglio dire: avete ufficialmente scelto la cittadinanza tedesca? Avete insomma dichiarato davanti all'autorità tedesca competente che desideravate conservare la cittadinanza, dopo che il trattato di Versailles aveva assegnato alla Polonia le province polacche?" p.268; "...avete o no fatto registrare di persona la vostra ferma volontà di rimanere cittadino polacco, in presenza di un nostro console o di altro funzionario autorizzato dal governo polacco ad accettare tali dichiarazioni?" sono le bordate di fronte alle quali Stanislav non può opporre nessuna difesa. Senza carte, senza nome, senza lavoro, a Stanislav non resta che lasciarsi risucchiare dalla Yorikke.
Anche Paolo, detto Francky, tedesco di Alsazia, già carbonaio sulla nave morta, aveva affrontato vicissitudini del genere. Appreso il mestiere di calderaio aveva iniziato a girare per l'Europa ed era stato colto dalla guerra in Svizzera. Espulso in Germania e arruolato nell'esercito tedesco, disertore in Italia, ritorna in Svizzera da dove, alla fine della guerra era stato rimandato in Germania. Arrestato in uno dei frequenti tumulti del dopoguerra era stato espulso dal paese come francese. Alla frontiera francese respinto e rimandato in Germania dove era stato condannato a sei mesi di lavori forzati. A nulla erano serviti i suoi tentativi di conquistare una cittadinanza; l'ultimo tentativo era stato arruolarsi nella Legione Straniera, ma il regime di vita impossibile l'aveva indotto a disertare e a rifugiarsi nel Marocco spagnolo. Lì l'attendeva la Yorikke e pochi mesi dopo la morte. Ne racconta il funerale Stanislav: "Il poveretto non aveva vestito addosso: pochi stracci intorno al corpo, intrisi del suo stesso sangue. Gli legarono a una gamba un grosso blocco di carbone perché lo portasse a fondo. Ebbi l'impressione che il capitano avrebbe preferito risparmiare anche quel po' di carbone. Ne aveva tutta l'aria. Paolo non era mai stato registrato nel ruolo di bordo. Aveva lasciato il mondo come polvere inutile. Nessuno seppe mai il suo vero nome. Lo chiamavano semplicemente Francky. Era stato membro di una nazione civile che gli negava l'esistenza legale" p.291.
Un altro è Kurt - tedesco di Memel - che dopo il riassetto geo-politico seguito alla fine della guerra mondiale non ha optato per una nazionalità perché si trovava in Australia. Messosi nei guai a seguito di uno sciopero deve fuggire in Inghilterra dove scopre di essere "morto": "Egli era nato a Memel; e poiché non aveva fatto atto di opzione secondo le regole del trattato di Versailles... nessun console della terra avrebbe potuto aiutarlo. Non era né tedesco, né cittadino di quel vermiciattolo di nazione nuova che non ha mai saputo e mai saprà cosa fare di se stessa" p.293. Anche a Kurt non resta che la Yorikke dove morirà, orribilmente ustionato, in un inutile atto di eroismo per salvare la nave. Conclude Stanislav: "Ecco che era Kurt di Memel. Il suo nome non apparve nel giornale di bordo. Vi appare invece quello del secondo macchinista come se la riparazione l'avesse fatta lui. Lo vide il cuoco quando andò a rubare il sapone nell'armadio del capitano" p.298.
Questi sono i reietti che la nave morta ha inghiottito, morti prima di morire, senza nome in vita e dopo la morte. Nessuna traccia se non nella memoria di chi li ha conosciuti e che - come Stanislav - seguirà la stessa sorte. Nessuna speranza, se non nell'allucinato sogno che induce Stanislav - naufrago insieme a Gales - a lasciarsi annegare, in un delirante e metafisico finale che ricorda il Gordon Pym. La grande figura bianca di Poe è una Yorikke trasfigurata, una nave vera, oggetto di desiderio, il cui Gran Capitano chiama Stanislav: "Vieni Stanislav Koslovski, dammi la mano. Vieni marinaio. Ti farò imbarcare su una bella nave. Una nave onesta e perbene: la più bella che abbiamo. Non preoccuparti dei documenti. Non ne abbiamo bisogno qui. Sei a bordo di una nave onesta va' al tuo posto, Stanislav. Sai leggere cos'è scritto lassù? E Stanislav disse: - Sì, signore: 'Colui che entra nel Mio Regno non conoscerà più il dolore'" p.393.
La morale di Gales è: "Un buon sistema capitalista non conosce spreco di energie. E' un sistema che non può permettere a migliaia di uomini privi di documenti, di andare a zonzo per il mondo... Perché i passaporti? Perché le restrizioni all'emigrazione? Perché non lasciare che gli esseri umani vadano dove vogliono...? Solo per mostrare l'onnipotenza divina dello stato e del gran sacerdote dello stato, il burocrate. La burocrazia c'è e rimane. E' divenuta la grande e onnipotente sovrana del mondo... Una muraglia ha reso la Cina quella che è attualmente. Le muraglie che tutti gli stati hanno costruito dopo la guerra per la democrazia otterranno lo stesso effetto. L'espansione dei mercati e la realizzazione di grossi guadagni sono una religione. Forse la più antica religione, perché ha i migliori sacerdoti e le più belle chiese" p.229.
Nel romanzo si incrociano altri livelli di significato nel moltiplicarsi della metafora: i marinai come appartenenti ad una piccola comunità, come operai, come proletari, come membri di nazioni e le navi come rispettivo livello di aggregazione: il limitato contesto sociale, la fabbrica, la classe, gli stati.
Ad esempio, paradossalmente, la condizione dei marinai è miserevole perfino nei confronti di quella degli schiavi che: "... erano merce pregiata, pagata per contanti e maneggiata come vasellame raro; merce che mantenuta in buono stato, rendeva bene... Essi venivano trattati meglio dei cavalli di razza, perché commercialmente rendevano di più" p.144. I marinai invece: "... sono schiavi che non si possono né comprare né vendere. Chi si preoccupa del loro benessere? Se uno di essi cade in mare o crepa nello sterco, nessuno ci rimette nulla" p.144. Certamente essi non sono considerati schiavi: "Sono liberi cittadini... Sono liberi lavoratori; liberi, affamati, disoccupati, stanchi, con le ossa rotte, le costole schiacciate, i piedi, le braccia e le spalle brucianti. E poiché non sono schiavi, sono costretti ad imbarcarsi su qualunque tinozza, anche se in anticipo la sanno destinata a finire in fondo al mare, perché l'armatore possa intascarne l'indennità di assicurazione" p.145.
Marinai dunque come operai ma anche come soldati, gladiatori, elemento nuovo di un mondo nuovo su cui impera Caesar Augustus Capitalismus, in una sorta di tragica parodia del Soldat-Arbeiter jüngeriano e della Total-Mobilisierung: "Noi, gladiatori di oggi, moriamo nel fango e nel sudiciume. Siamo troppo stanchi perfino per lavarci la faccia. E moriamo d'inedia, perché cadiamo addormentati sul tavolo davanti a un putrido pasto. Abbiamo sempre fame perché la compagnia armatrice, se passasse ai marinai un vitto da esseri umani non potrebbe sostenere la concorrenza dei noli... Moriamo peggio dei maiali a Chicago. Moriamo in silenzio, accanto alla caldaia... Moriamo in profondo silenzio, nel buio più assoluto, coperti di stracci. Moriamo negli stracci per te, O Caesar Augustus! Ave, Imperator Capitalismus! Non abbiamo nome, né anima, né patria, né nazionalità. Siamo nessuno e niente" p.162.
La potente denuncia della condizione dei lavoratori oppressi si accompagna in Traven a un profondo pessimismo sulle capacità di risposta collettiva ed anche la ribellione individuale si scontra con la tormentata accettazione dell'inevitabilità della propria condizione. Per Gales la Yorikke è un vero e proprio inferno in terra: "E io, invece, proprio io, fra tutte le creature sane di mente della madre terra, dovevo starmene prigioniero su quella carcassa lebbrosa, che navigava solo sperando nella pietà del mare" p.175. Come fuggire dalla propria condizione? La tentazione della rinuncia totale è grande: "Falla finita, vecchio ragazzo dello Sconsin, sopprimi con te il carbonaio e salta giù: finiscila con tutto quel sudiciume e quello sterco. Salta giù e buttati in mare, finché sei ancora un pulito marinaio americano" p.175. Ma: "... è forse questa la salvezza? Ci sarà sempre un altro povero carbonaio, stanco, stracciato, affamato, torturato che dovrò fare doppio lavoro perché tu ti sei tolto di mezzo" p.175. Allora: "Non farò il gladiatore a bordo di questa nave. Io ti sputo in faccia, Caesar Augustus Imperator. Hai perduto uno dei tuoi schiavi. Ave! Il morituro ti saluta!... non mi sentirai più lamentare. Io ti sputo in faccia. Sputo su di te e su tutta la tua sporca gente. Prendi!... Sono pronto per la battaglia!" p.176. Ma la battaglia individuale è impari, non può che portare alla sconfitta proprio perché non ci si può o non ci si è voluti - e qui c'è il circolo vizioso - sottrarre alle regole imposte dal nemico: "Se mi fossi buttato in mare nessuno avrebbe potuto obbligarmi a lavorare in questo inferno. Quel salto io non l'ho fatto; e non facendolo ho rinunciato ad essere signore e padrone di me stesso. Poiché non ho preso il mio destino nelle mie mani, non posso più rifiutarmi di essere trattato da schiavo" p.195. Non c'è dunque speranza esplicita di riscatto per il singolo, solo l'amarezza di una sconfitta che il sarcasmo non può mitigare: "Cesare Augusto Imperatore, non preoccuparti. Avrai sempre i tuoi gladiatori: ne avrai più di quanti te ne occorrono, i più forti, i più generosi, i più coraggiosi saranno tuoi: e combatteranno per te e morendo ti saluteranno. Morituri te salutant! Salve, Cesare Augusto! Un morituro ti saluta... Felice? Sono l'uomo più felice della terra, perché ho l'onore di combattere e morire per te, divo imperatore! " p.195.
Altri livelli di significato si propongono: le navi come stati, come nazioni, con il loro carico di merci da commerciare, l'umanità felice (i passeggeri) o dolente (la ciurma) che le popola, le loro gerarchie (i privilegi degli ufficiali), le guerre metaforizzate dalle risse tra marinai nei bar degli angiporti a difesa dell'onore delle bagnarole su cui fanno vita grama.
La nave è per Traven un microcosmo di relazioni che può essere proiettato su ogni contesto sociale perché ne condensa il reticolo di rapporti (di sfruttamento, di dominio, di repressione, di emarginazione) e ne esemplifica, con la coazione determinata dagli spazi angusti, la completezza e l'impossibilità di uscirne. La condizione del carbonaio Gales è umile forma di vita capitalistica, non sottomessa eppure conscia dell'impossibilità di riuscita della propria rivolta. Il rapporto con la Yorikke è complesso al di là di ogni dire: salvezza, punizione, famiglia, prigione, redenzione. Gales oscilla tra gli stati d'animo più contrastanti, tra la volontà di ribellione e la consapevolezza della sua impraticabilità, sia collettiva che individuale. Non è tuttavia una visione nichilista: la solidarietà tra gli emarginati c'è e, in taluni casi, è forte anche se non è fondata sulla condivisione esplicita delle condizioni materiali dello sfruttamento quanto sulla solidarietà umana tra i sofferenti; le possibilità di riscatto individuali sono legate al riappropriarsi del proprio destino - come dice Traven - e cioè all'uscire, almeno a livello di concepirne la possibilità, dalle regole del gioco che vede gli individui sconfitti. Su queste basi, forse, si può ricostruire un embrione di volontà collettiva (la società stirneriana degli uguali?) di rivolta.