Rocco Lomonaco
macinando balli
Attratto dal titolo Venere a Parigi. Donne donnine donnette donnone donnacce della Belle époque (curato da Enzo Giannelli, Biblioteca del Grano, A. Curcio Editore) speravo di trovarvi qualcosa di più di una veloce e succinta rassegna sulle tante vedettes (cantanti e ballerine in primis) dei café-chantants parigini di quegli anni. Se l’intento era di organizzare un viaggio attraverso i locali a cavallo di due secoli curiosando tra ricordi, bizzarrie e rimpianti lasciati dai caffè concerto che animavano la Belle Epoque, questo si rivela più sommario e affrettato di un’escursione in torpedone fornendoci delle abituali frequentatrici di quei palchi istantanee che nella rapida successione tendono a sovrapporsi nella memoria facendone emergere poi i soliti nomi noti, rammentati per aver incrociato le biografie di Toulouse Lautrec o del principe di Galles. Anzi, qualche pagina sembra tradotta tel quel da pubblicazioni e opuscoli francesi; non si spiegherebbero altrimenti alcune vaghezze e imprecisioni come quei “confetti” che abbondavano nelle feste, o l’ Aréopage (lasciato così, in francese, come se mancasse il corrispettivo italiano per il teatro dell’esibizione di Frine) o ancora (pag. 73) “piuma e spada” invece che “penna e spada” per indicare giornalisti e ufficiali; e definire Clémenceau “leader di estrema sinistra” è più che un insulto.
Insomma, un’occasione che non mantiene le promesse della foto in copertina di Lyane de Pougy, la cui vicenda ben illustra gli esiti paradossali o sorprendenti di vite che ancora oggi, tra sfilate di moda, canzoni e letti di potenti, fanno scrivere di sé. Per una Lyane nata bene che dopo le Folies-Bergère passò in convento come monaca terziaria prima di spegnersi all’Hotel Carlton di Losanna, v’è uno stuolo di ballerine, attricette, chanteuses, ex-modiste o fioraie che spesso chiudevano l’aleatoria carriera allevando conigli, coltivando rape e cavoli o, più bruscamente, lanciandosi dalla fresca Tour Eiffel o dai ponti sulla Senna. Alcune si salvarono per doti di spirito innato e quando non impalmarono svitati nobili inglesi in cerca di brividi continentali, inventarono per le proprie chiassose gesta emblemi di un certo garbo: Marion Delorme fregiò la propria carta intestata di uno stemma in cui, sotto un mazzolino di pervinche, si leggeva il motto Je m’ouvre la nuit. Tipi umani, quelle cocotte, di cui Sacha Guitry diceva che, anche messe in cima al Monte Bianco, sarebbero state molto accessibili.
Altre cordialmente rumorose, come Jeanne Bloch, aggiunsero bonomia alla naturale opulenza per emergere dal gruppo o affascinarono scultori di cui furono modelle precoci; le loro forme si impolverano in qualche deposito d’Accademia, perdute come il piccolo teatro che l’architetto P. Roche realizzò evocando nella struttura stessa i veli che vestivano la sua musa Loie Fuller.
E se Grille-d’Égout (letteralmente: Griglia di fogna) tra quadriglie e can can ebbe comunque modo d’adagiarsi sugli allori, Jeanne Faes, a detta di Irene Brin, facendo una spaccata s’immolò sul lavoro “senza un gemito, tra le acclamazioni del pubblico”. Polaire, amica di Colette, fu per un tempo, stella de La Scala (posta, come l’Eldorado, in Boulevard de Strasbourg) ma questo non la salvò dal finire in miseria, rovinata dal gioco. Miglior sorte toccò ad Anne Held che, conosciuto Florence Ziegfield, fu da lui lanciata in America prima di sposarlo.
Altre intrapresero viaggi meno faticosi: ne risultò, tra i tanti scambi, rivitalizzato il secolare gemellaggio con Napoli (all’epoca ancora la città italiana più popolosa) che di Parigi echeggiava, non solo in minore, motivi e protagonisti. Già si paragonò rue Lepic (a Montmartre) ai Gradoni di Chiaia, ma il nesso stava, al di là dell’imperante gusto parigino fra le signore dell’ex capitale borbonica, nella consolidata anglofilia dei signori partenopei forse precedente quella del gentilhomme che faceva stirare la sua biancheria a Londra.
Fanny Lyona dal Salone Margherita, anzi, viaggiò verso il Moulin Rouge per esibirsi in danze andaluse prima di volgersi con successo all’Operetta. A Napoli caffè e saloni erano animati da uno spirito affine: canzonettiste, meglio: sciantose, macchiette, letterati curiosi, aristocratici scapestrati, gran signori e camorristi, micce ideali per accendere scandali e processi, tra una coppa di Veuve Cliquot e un bicchiere di “vischiasodo”.
E Salvatore Di Giacomo in una sua “arietta” così sintetizzava la metamorfosi di una stellina dell’Eden, altro grande locale di varietà napoletano:
“Te chiammave Assuntina < ‘a pupata >.
Ire onesta…Ire sarta vitosa…
E mo, tutto na vota, sciantosa !
E te chiamme Floretta Bijou !…”
Fortunate le ragazze delle quadriglie che in Lautrec o Albert Guillaume ebbero il proprio Boldini (o la barista delle Folie che fermò il pennello di Manet, quando cocktail si diceva “combine”) così transitando nel rispettoso mondo dei musei; grazie a loro ci ricordiamo della Goulue finita decrepita in una casa chiusa o di Jane Avril, già protegée di Mallarmé. Il resto è un rosario dolente di neiges d’antan. Per una Bella Otero, una Cléo de Mérode o una Lina Cavalieri quante Blanche, Berthe o Manon, sfuggite anche alla matita di Steinlen, arruolate adolescenti nei battaglioni di Citera e Lesbo e poi, una volta ammesse all’imponente presenza del Moulin Rouge, lasciate ad esibirsi mentre nella sala attigua il Petomane intratteneva rumorosamente i clienti più ridanciani.
E sì che, agli inizi, subito dopo la sconfitta di Sedan, in qualche caffè la borghesia repubblicana poteva ascoltare, oltre le usate canzoni sentimentali o piccanti, anche inni e canti patriottici; potremmo azzardare che la stessa tradizione “crapulosa” del cafè-concert operasse come antidoto all’influenza germanica? chanson à boire contro leitmotiv in attesa della differita revanche? Se lo chahut non poteva esorcizzare il temuto passo teutonico, forse concisione ritmica della quadriglia e geometrica decisione della spaccata avrebbero contrastato la vaghezza esasperante e dilatoria della scena wagneriana.
D’altro lato, la propaganda coi fatti dei dinamitardi anarchici che incendiava alcuni caffè di fine ottocento ricordò a quegli stessi borghesi ben altri conti da saldare; ne permaneva l’eco fin nell’ambiguo gradimento riscosso da quella Temps des cerises che, rivitalizzata dalle nuove strofe occasionate dalla Commune, testimoniava per chi, dei rumorosi banchetti apprestati dopo l’invito ad arricchirsi, era stato solo spettatore seduto in un appannato assommoir.
La revanche venne, ma vi si accompagnò pure la fine di quella civiltà. Il “tempo delle ciliegie” invece è sempre una piaga aperta.
”La Bava”, Estate 2009