Claudio Baglietto, nato a Varazze nel 1908, fu un promettente filosofo del quale rimane ben poco di scritto. Fra i primi a interessarsi a Martin Heidegger, lasciò l’Italia degli anni Trenta per incontrare il tedesco, ma non fece più ritorno onde evitare il servizio militare.  Morì a Basilea nel 1940. Dai tempi dell’Università di Pisa, affine nell’impostazione morale, fu amico fraterno di Aldo Capitini il quale nel 1966 - quando la sua attenzione nei confronti del mondo giovanile fu pronunciata e si era diffuso il suo’uso del termine “nonviolenza”, così, tutto attaccato - pubblicò il seguente ritratto in Antifascismo tra i giovani con la trapanese casa editrice Celebes.

Aldo Capitini

Claudio Baglietto

Dentro la Normale mi avvicinai a Claudio Baglietto, studioso eccezionale prima di letteratura italiana, passato quindi alla filosofia: fece un ottimo lavoro su Heidegger, allora quasi sconosciuto in Italia. Baglietto era nato a Varazze nel 1908, figlio di persone del popolo: era una mente limpida e forte, un carattere disciplinato, uno studioso di prima qualità, una coscienza sobria, pronta ad impegnarsi, con una forza razionale rara, con un'evidentissima sanità spirituale. Cominciai a scambiare con lui idee di riforma religiosa, egli era già staccato dal cattolicesimo, né era fascista. Su due punti convenivamo facilmente perché ci eravamo diretti ad essi già in un lavoro personale da anni: un teismo razionale di tipo spiccatamente etico e kantiano; il metodo gandhiano della noncollaborazione col male. Si aggiungeva, strettamente conseguente, la posizione di antifascismo, che Baglietto venne concretando meglio.

 

Non tenemmo per noi queste idee, le scrivemmo facendo circolare i dattiloscritti, cominciando quell'uso di diffondere pagine dattilografate con idee di etica di politica, che continuò per tutto il periodo clandestino, spesso unendo elenchi di libri da leggere, che fossero accessibili e implicitamente antifascisti. Invitammo gli amici più vicini a conversazioni periodiche in una camera della stessa Normale dove io abitavo come segretario e Baglietto era perfezionando e poi assistente di filosofia di Armando Carlini. A queste conversazioni partecipavano con interesse (non dico: con adesione) Carlo Ludovico Ragghiami (stato sempre antifascista, normalista e poi assistente volontario di Matteo Marangoni), Claudio Varese (stato normalista, assistente volontario di Momigliano e intimo amico di Baglietto), Enrico Alpino (stato sempre antifascista, normalista esterno), Walter Binni, Vincenzo Maria Villa (normalisti), Giuseppe Dessi (studente di Lettere all'Università), Guido Di Pino, Alessandro Perosa.

 

Tra Baglietto e me c'era molta diversità: egli, più giovane, più inesperto della vita, con simpatie carducciane e goethiane, tuttavia cattolico fino a poco prima, capace di prepararsi rigorosamente in filosofia, poco partecipe di politica; io, dalla vita più affaticata e più anziano, dall'animo più leopardiano e anche sentimentale, non più cattolico da molto, attentissimo alla politica da una posizione non fascista, di studi letterari e filosofici. Entrambi non cattolici, egli aveva una profonda conoscenza della filosofia kantiana; io, con idee meno preparate in filosofia, premevo con un interesse, insieme teorico e pratico, e insistevo per esigenza moralistica sull'avversione al facile, attualistico storicismo fascista ed anche cattolicizzante, conciliazionistico, che era in alcuni di quella Università.

 

L'occasione a cominciare qualche cosa di pratico ci fu data da questo fatto. Una sera Baglietto mi raccontava di frequentare le riunioni della San Vincenzo, dove andava solo per aiutare quell'opera di carità, senza far nulla che fosse particolarmente cattolico. E io gli dissi: «Non è questo tuttavia un modo di collaborare con ciò in cui non crediamo? Perché non facciamo qualche cosa di simile, ma non in nome di un sistema religioso che non è il nostro?». E facemmo qualche cosa di quel genere, con un certo sforzo per il disagio che provavamo ad affrontare casi pietosi in nostra persona, senza aver dietro un'istituzione. Gli amici vedevano che ci stavamo impegnando per la nonviolenza, e cominciarono le regolari discussioni serali alla Normale o passeggiando. I fascisti lo sapevano, ma non ci vedevano chiaro. «Intellettuali, sgobboni, astratti». Loro stavano costruendo l'Italia! Negli amici più assidui in queste conversazioni ci era come ho detto non adesione, ma interessamento attento. E' da notare che non si parlava sempre di «religione», ma di morale, di filosofia, di estetica e di politica.

 

I principi che costituivano il nucleo delle idee che presentavamo alla discussione degli amici, erano fuori della struttura di ogni religione particolare, ma erano, nello stesso tempo, l'essenza delle religioni più grandi. Venivamo dopo il Kant, e questo, da allora, mi è parso costante criterio per ogni lavoro religioso. C'era in noi un teismo, che valse a mantenere un riferimento di assoluta purezza a tutto il nostro lavoro, nel dover fronteggiare un immanentismo mondano, esteriore. In seguito ho visto, svolgendo l'esperienza religiosa, che al posto del rapporto tra umiltà dell'individuo e assolutezza e infinità di Dio, si collocava prevalente un atteggiamento di «apertura infinita dell'anima», di appuntarsi al tu vòlto alle singole persone. Ma quando questo tu perda la sua scaturigine di infinità e di tensione al valore, il tu teistico torna ad avere una funzione decisiva.

 

Baglietto portava di suo principalmente l'assoluta distinzione tra spirito e realtà. Egli mi aiutò a formulare con limpidezza la mia ostilità al mondanismo, la mia critica dello storicismo. Di particolarmente mio portavo l'urgenza di riferimenti pratici, di depuramento psichico, l'interesse per le persone. Io avevo più coscienza dei contenuti, il mio compagno della forma.

 

Più che l'adesione, i nostri principi religiosi, che parevano troppo scoscesi, eccezionali, personali (pur essendo guardati con attenzione), suscitavano scrupoli morali e riserve politiche; ma

l'antifascismo sorgeva non sul diretto terreno politico, bensì da un fondo diverso: si pensi ai nostri principi di nonviolenza e di nonmenzogna. Era ben più che un antagonismo sul piano della politica: era portare l'assolutamente altro, la rigenerazione. Eppure amici veterani dell'antifascismo sul piano culturale e politico, come Ragghianti ed Alpino, ne uscirono rafforzati. Ed altri giovani, i quali, ancora fascisti, ci avevano guardato con riserva, con interesse, e talora anche con qualche scatto di avversione, quando poi scoprirono tutto l'inganno del fascismo, riandarono con l'animo a quell'ostinata intransigenza nostra, ne intesero la ragione, l'ispirazione. Perché da quell'episodio cominciò tutta una corrente di antifascismo. Gli amici si dispersero in Italia, quelli che rimasero alla Normale approfondirono il ricordo, ci cercammo e ci ritrovammo, cominciarono i convegni: Pisa, la Normale, si erano come allargate. Le nuove esperienze culturali e pratiche mi resero più complesso di motivi vari e più forte mentalmente, ma la purezza, l'innocenza di quel lavoro non potevo superarla. L'esigenza di razionalità è rimasta.

 

Il rapporto tra questo lavoro nostro e la situazione italiana di allora può essere considerato sotto questi punti di vista.

 

1. Anzitutto la riluttanza ad accettare il facile storicismo giustificatore del fatto compiuto, accoglitore della realtà della potenza, seguace di ciò che da astratto ideale si fa movimento di

moltitudini, peso concreto nella storia, istituzione, governo. E' noto che al fascismo erano affluiti molti uomini di cultura, con a capo il Gentile: essi avevano in mano la direzione ideologica e pratica della scuola, e si cibavano di crescenti successi. In regime di dittatura e di mancanza della libertà di stampa, limitatissima era l'influenza di altre correnti culturali-ideologiche, e ben poco o nulla si riusciva a sapere dell'opposizione politica: non si ha un'idea oggi, con la stampa libera, di quanti fatti ignoravamo, con una stampa eguale e manovrata dall'alto. L'avversione allo storicismo di tipo gentiliano era, perciò, di caratare etico, e non principalmente politico, anche se la nostra attenzione, anzi il nostro interesse al liberalismo e al socialismo fossero ben vivi. Nel campo rigoroso del pensiero eravamo, in sostanza, kantiani fino al teismo, con distinzione netta tra realtà e valore. Le prime frasi di scritti, messi insieme da noi due e che facemmo girare in molte copie dattilografate, erano queste: «La realtà non importa nulla quando si faccia altra questione che non sia di fatto (cioè di scienza, cronaca, verità positiva, oggetto della scienza). Importa quello che è meglio fare, quello che si deve fare (il meglio, il bene, il valore). Che si trova pensandoci: la decisione avviene in sede morale, caso per caso, secondo le leggi generali (ma per vedere se il singolo caso rientra nella legge, devo decidere nel caso particolare)». I fogli di questi Punti principali terminavano con questo periodo: «La morale è l'affermazione razionale della vita, che è l'unica che ci possa essere, perché è l'affermazione di un singolo momento di vita come un bene di tutti, affermazione che deve essere fatta per essere coerenti in qualsiasi cosa si compia».

 

2. L'insoddisfazione della religione tradizionale per la sua alleanza con il regime fascista, saldata in modo particolare ed evidentissimo con la Conciliazione del febbraio del 1929. Se un aiuto per contrastare il fascismo non era venuto dalla monarchia e dall'esercito, se non veniva dalla cultura ufficiale nei suoi nuclei organizzati, non veniva nemmeno dalla Chiesa di Roma. E allora risalimmo alle sorgenti stesse della vita religiosa, e particolarmente a Gandhi, il più vicino per il suo teismo aperto (si direbbe kantiano) e per il suo metodo di attiva noncollaborazione secondo i principi della nonviolenza e della nonmenzogna. Dobbiamo a lui di averci indicato il prezioso metodo di lotta che è il dir no e propagare attivamente. Gandhi stava conducendo in India una lotta contro l'oppressione, che proprio in quegli anni era al suo culmine. Liberi da ogni preoccupazione istituzionale in religione potevamo anche valerci, nello studio delle origini cristiane, dei risultati della critica storica, sfrondanti tante leggende sorte intorno all'assolutizzazione di Gesù.

 

3. La prospettiva che stabilivamo nella nostra teorizzazione e nella nostra pratica di «liberi religiosi» metteva in primo piano la nonviolenza. Quello della non violenza era un principio alquanto nuovo per noi stessi (anche se, quanto a me, mi ci andassi avvicinando fin dal tempo della Prima guerra mondiale); e questo spiega perché ne vedemmo tutti i riferimenti e le conseguenze solo procedendo. La noncollaborazione ci attraeva: pensavamo che se gli italiani fossero stati guidati a non collaborare col regime fascista, esso sarebbe in breve caduto; e quanto male si sarebbe evitato!

 

4. L'opposizione politica ne derivava; era insieme liberale e socialista, appunto per l'accentuazione morale e per una società di tutti. Ma il lavoro ideologico, politico e sociale doveva svolgersi in seguito; e sebbene Baglietto continuasse il suo studio separatamente da me a Basilea fino alla sua morte, mi è poi risultato che si trovava su posizioni di tipo liberalsocialistico (come alcuni di noi in Italia) .

 

Il nostro episodio è da richiamare per mostrare il peso del lavoro dato alle idee e come la ragione profonda di un tipo di antifascismo fosse (il che è meno noto) di carattere religioso, non tradizionale, e non istituzionale. Risorse allora il problema di una riforma religiosa in Italia, e, credo, per non più arrestarsi. La duplicità di riforme, religiosa e politica, in una sola rivoluzione, che il Mazzini aveva proposto nel Risorgimento, si ripresentò a noi, dopo che era stata fatta l'esperienza che l'educazione degli italiani non li aveva resi sufficientemente attenti e ostili all'inganno del fascismo, e dopo aver visto la facilità dell'alleanza tra le due istituzioni ecclesiastica e statale.

 

Il nostro lavoro di chiarimento di idee nel nucleo della Normale diventò chiaro nella mente del vicedirettore Francesco Arnaldi, un latinista, intelligente critico e molto attivo per la Normale, ex-combattente della Prima guerra mondiale (della classe del 1897), tenace nazional-cattolico, e nella mente del direttore o più propriamente commissario, Giovanni Gentile. Dopo la morte del precedente direttore, Luigi Bianchi, ex-normalista, grande matematico, avevamo sollecitato – un gruppo di normalisti presenti a Pisa - Gentile a diventare direttore, come illustre ex-normalista. Non facemmo affatto questione del suo atteggiamento politico, ma ci parve che l'alto valore intellettuale del filosofo e il fatto che fosse stato normalista ci mettesse al riparo da interventi gravi (il direttore della Normale è nominato dal governo, che potrebbe avere anche la grossolanità di mandare a dirigerla uno che non sia stato alunno in quella comunità). Fu un vantaggio per la Normale la nomina di Gentile, che fu «commissario» con pieni poteri, senza Consiglio direttivo (nel metodo fascista) per ingrandire la Normale, che ebbe l'aggiunta di un grande edificio e quindi un aumento di alunni, e un riordinamento amministrativo. Mi diceva una volta Gentile mentre guardavamo da una finestra la bella Piazza dei Cavalieri: «Questa piazza deve diventare tutta nostra». Pensava alla moltiplicazione di collegi universitari sul tipo della Normale.

 

Armando Carlini diceva al Gentile, nelle visite che questi faceva alla Normale, un gran bene del valore filosofico di Baglietto, e Gentile procurò al mio amico una borsa di studio per recarsi a Friburgo di Germania dove insegnava Heidegger. Così nel 1932 accompagnammo Baglietto alla stazione, e restammo in corrispondenza. All'Estero egli continuò le riflessioni sulla nonviolenza, giunse alla persuasione dell'obbiezione di coscienza nei riguardi del servizio militare, e scrisse che non sarebbe più tornato in Italia, e si trasferì a Basilea come esule, per non usufruire più della borsa. Gentile ne fu indignatissimo, non tanto per l'opinione mostrata dal Baglietto, quanto per la seccatura che aveva dall'aver garantito per lui presso le autorità militari che avevano dovuto concedere il nulla osta per il passaporto. Ricordo che il Gentile, sapendomi scrupoloso moralista, voleva convincermi che quello era un atto scorretto, ma non ebbe da me alcun consenso. Il Gentile non sentiva il valore del farsi «esule», e di perdere tante cose. Poco più tardi feci dire dal vicedirettore (che era stato sempre benevolo con me, con amicizia e aperta stima) al Gentile che la pensavo come Baglietto:non volevo che il vicedirettore fosse compromesso dal proteggermi. Arnaldi andò a Roma a parlare con Gentile; questi gli disse: «Diciamo a Capitini di prendere la tessera del partito». Pensava di coprire così la cosa. Arnaldi gli rispose, che gli avevo già detto non avrei mai preso la tessera fascista, e Gentile decise di chiedermi le dimissioni da segretario della Normale; e in questo senso mi scrisse. Io gli risposi (erano i giorni di Natale del '32) spiegando la serietà delle mie idee e il mio impegno, dicendo anche che, con la chiarezza spirituale che avevo raggiunto, potevo eseguire meglio il mio compito di segretario della Normale e assistente disciplinare dei normalisti, e che perciò non intendevo dimettermi. Gentile mi dimise lui e mi invitò ad andarmene. E venuto a Pisa nei primi giorni del gennaio 1933 mi fece chiamare per salutarmi, e mi disse: «Credo che non riuscirei a persuaderla». Non risposi altro che: «Credo che anch'io non riuscirei a persuadere Lei». Il vicedirettore mi disse poi che Gentile era impaziente che io sistemassi le mie cose e me ne andassi, perché ero divenuto di colpo vegetariano (per la convinzione che esitando davanti all'uccisione degli animali, gli italiani - che Mussolini stava portando alla guerra -, esitassero ancor più davanti all'uccisione di esseri umani), e a Gentile infastidiva che io, mangiando a tavola con gli studenti come continuavo a fare, fossi di scandalo con la mia novità.

 

Giovanni Gentile aveva dato espressione filosofica con il suo idealismo e la teoria dell'Atto puro a quella ripresa romantica, che ebbe varie forme anche in Italia, e che in lui aveva un notevole rigore culturale ed un alto livello etico. Questo fu in lui comune con i migliori della Voce, con i modernisti (malgrado la differenza filosofica del suo attualismo che voleva essere tutto razionale di contro all'irrazionalismo e alla trascendenza), e più avanti con Piero Gobetti, e anche con noi che leggevamo del suo Atto puro, indipendentemente dalla sua politica e dal suo convocare gl'intellettuali italiani dentro il fascismo per tenerlo, diceva lui, sulla linea buona. Poteva riuscire spiacevole una certa oratoria anche nello scritto, ma indubbiamente il suo fare aveva avuto dell'austero, del religiosizzante, con un ingegno superiore ed anche un animo caldo, trascinante e spesso anche generoso. Gli piaceva, nella sua grande salute, nella sua sicurezza del sonno e della digestione, nella consapevolezza dell'imponenza della sua figura, tutto ciò che fosse vivo, vitale, energico; le persone alte (così lo sentii una volta rallegrarsi, guardando il pubblico alla discussione della mia tesi di perfezionamento); voleva una volta indurmi a riconoscere che Attilio Momigliano era, si, un uomo di valore, ma era così poco eloquente, così smorzato nel tono della voce, nel fare (tutte cose che, invece, a me piacevano moltissimo ed erano tanto coerenti con l'uomo); nella sua villa al mare disse una volta al capobidello della Normale che voleva molti, molti polli, un gran bel pollaio. Il fascismo perciò lo trascinava, e rendeva più grossolano e pericoloso questo calore vitale, questo gusto della spesa fluente di energia; e da qui le gravi sue compromissioni teoriche e pratiche, le sue prepotenze, e soprattutto l'amore per Mussolini che egli denominava «magnanimo», anche lui con cattivo gusto, ma sinceramente, associandosi alla gara di grandi epiteti per il «Duce». Gli piaceva moltissimo il fare deciso, propulsore, sprezzante anche; si divertiva un mondo a raccontare come Mussolini liquidava i suoi ministri con una semplice telefonata: «Accetto le vostre dimissioni», come era capitato a Pietro Fedele, tutto sorpreso e addolorato (secondo il vivo racconto di Gentile). Sapeva far crescere il potere nelle sue mani. Per l'influenza sulla classe culturale italiana con pronti aiuti e favoreggiamenti, con comprensione e anche frequente indulgenza raccontava spesso di quelli che, dopo aver firmato il manifesto Croce, erano andati da lui a scusarsi. Con l'intùito di capire chi meritava di essere aiutato, con la sollecitazione alla collaborazione nell'Enciclopedia Treccani da lui diretta, egli potrebbe essere accostato alla decisiva responsabilità di appoggio al fascismo che ai nostri occhi avevano la Monarchia e il Papato. Con l'andare degli anni diminuivano i momenti liberali, e crescevano quelli autoritari; scomparivano i momenti più aperti (si pensi alla nota al cap. I della Teoria dell'Atto, nella quale parlava dell'ideale come «più reale del reale» e che «non è possibile di intendere prima di amare»); e cresceva il gusto dei momenti statalistici, quasi di grande questore, da cui gli veniva l'eccessiva sensibilità al pericolo costituito dai dissidenti. Ma, d'altra parte, era anche umano, - e tante volte ne ho visto prove -, e contro di me, quando fui fuori della Normale, - cioè oltre il fatto di avermi cacciato dal posto a trentatré anni -,non fece nulla, anzi diceva che in me c'era «la stoffa del martire»; e una volta che mi vide ad un convegno di ex-normalisti, mi strinse affabilmente la mano. Sul terreno del patriottismo scolastico e del gusto - particolarmente meridionale, meno abituato al civismo democratico - dell'autorità (ben diverso dalla costanza critica e insistente a sollecitare dal basso che ebbe Gaetano Salvemini), era avvenuto quell'intorbidamento delle premesse etiche. Anche il Gentile è un esempio del male di un'educazione patriottarda dall'alto, creatore e vittima di un costume da superare. L'Atto gentiliano, già negli scolari o studiosi che più ne avevano risentito, si apriva o nella posizione etica del tu, o nel problematicismo, o nel pluralismo democratico.

 

Nei primi giorni del gennaio 1933 stavo per lasciare la Normale non a Gentile e Arnaldi, sgraziati e miopi applicatori degli ordini crescentemente totalitari (e più tardi, quando prescrissero l'iscrizione al partito fascista, come condizione per l'ammissione al concorso in quel collegio mantenuto con i denari di tutti, io mandai una durissima lettera di protesta proprio a Gentile), ma ad un gruppo di giovani, perché da allora un gruppo di antifascisti, o di attenti ascoltatori della critica al fascismo, vi fu sempre. I normalisti ebbero dal mio «no» un'impressione, perché videro che cos'era il fascismo; gli amici più vicini approvarono (Ragghianti fu tanto concorde che rifiutò il posto di assistente di Storia dell'arte, perché esigeva l'iscrizione al partito); qualcuno, pensando al danno che ricevevo e alla posizione che lasciavo, mi consigliò di ripensarci. Non mandai nemmeno le mie dimissioni da assistente volontario; ma più tardi ebbi la lettera che troncava l'assistentato per iniziativa dell'autorità universitaria. Prima del 15 gennaio, una mattina, partii per Perugia accompagnato da un gruppo di amici alla stazione e salutato anche da convinti fascisti come il caro Basilio Manià. Dicevo sorridendo che era la mia «fuga dalla Mecca».

 

A metà del '32 Baglietto aveva lasciato la Normale, ed ero rimasto io a tenere le frequenti conversazioni, sempre più politiche, con gli amici nella Normale. Con Baglietto rimasi in corrispondenza, e ci scambiavamo il racconto delle tappe delle nostre riflessioni. In una lettera mia a Baglietto del 1° settembre 1932, dicevo: «Lo scopo dell'educazione politica dev'essere quello di sedare, mediante uno spirito schiettamente religioso, l'eccessivo ribollire economico e la sensualità dell'odio e la tensione particolaristica. E la politica deve tendere a formare unità le più larghe possibili, in modo da circoscrivere e immobilizzare i popoli barbari, da render loro impossibile la soluzione violenta dei propri problemi. E questa oggi è la tendenza intima della storia; presto gli Stati Uniti riconosceranno e s'accorderanno con i Sovieti; e stringeranno essi le nazioni a tendenza imperialistica, come il Giappone ed altre».

 

In una sua lettera a Claudio Varese (da Friburgo, 1° novembre 1932) Baglietto scriveva:

 

«Ognuno deve andare per la sua via, fare quello che dopo avervi ben pensato, gli pare giusto, e poi quello che ne verrà sarà sempre bene. Nessuno ha il dovere di arrivare a persuadere altri delle sue idee. Si starebbe freschi! Quindi può essere per me di importanza molto limitata e particolare quello che idee da me accettate possono produrre in altri. In senso assoluto anzi, io non ho da occuparmi affatto di ciò. Come ogni uomo, anch'io ho un solo dovere, quello di cercare di chiarirmi le idee (quello che si dice cercare la verità) e di agire senza transigere conforme a quelle che mi sembrano migliori: e le due cose (e questo è molto importante) sono una cosa sola. Questa è poi per ogni uomo anche l'unica via per la felicità, intesa nel senso vero della parola: e sarà tutta mia fortuna e vantaggio mio, non di altri, se io lo farò. Gli altri sono naturalmente per me una sola cosa con me. Questo dunque io cerco di fare, e certo ogni cosa che mi possa dire anche uno di quelli che comunemente parlando si dicessero dissenzienti da me, mi può essere molto utile, se io cercherò di capirla. Ma bada bene che lo stesso è il caso tuo e il caso di ognuno. Se la religione, come ogni altra idea, fosse vera, cioè ricca di possibilità universali, sarà tutto vantaggio tuo il capirla (che è lo stesso che praticarla, cioè viverla): sarà tanto di chiarezza e di forza, e quindi di gioia (di quella gioia che è pienezza spirituale, e che è l'essenza stessa dello spirito come «creatività») che verrà a te. A me, né ad alcun altro, non solo non me ne entra in tasca niente («in tasca» in tutti i sensi), ma nel caso tuo come di molti altri il vostro atteggiamento può forse contare anche assai poco quanto al farmene comprendere la verità, cioè le possibilità universali...

 

«La religione è la lirica della buona fede e della buona volontà. «La distinzione di spirito e realtà (o storia), in quanto comprensione che si tratta di due categorie diverse, e che quindi non possono mai coincidere e coprirsi, certo è il primo passo per uscire dal qui pro quo fondamentale della mentalità "idealistica" più volgare».

 

In una lettera a me da Basilea, del 19 novembre 1932: «E in generale, come sai, mi pare che noi corriamo sempre troppo il pericolo di pensare a un'attività sugli altri invece che in noi stessi, e che quindi valga la pena di badare quanto è possibile a non pensare mai nessuna idea come una verità di cui si debba cercar di persuadere gli altri; che è sempre, in quanto tale, una posizione falsa. Io per ora non riesco a risolvere psicologicamente la cosa se non a questo modo: che naturalmente dirò sempre a quelli che me lo chiedono, o a cui so che interessa, quello che penso; anzi non ho forse mai sentito così forte come ora il valore dell'amicizia e della comunità con tutte le persone a cui si è naturalmente legati da affetto. Ma cercherò sempre quanto più mi sarà possibile (e, almeno a me, riesce molto difficile) di dirla come un fatto, a titolo di informazione sulle mie opinioni e come naturale spiegazione del perché mi pare di aver il dovere di agire a un dato modo. Se no, mi pare di aver veduto per troppo lunga esperienza che si ricasca troppo facilmente (e con tutti questi propositi, io ci ricasco sempre) nell'atteggiamento che immaginosamente diciamo politico, cioè di affermazione della propria individualità per sé stessa: si fa peggio degli altri, ma con l'idea ferma di essere moralmente migliori, e di essere senz'altro dalla parte di Dio. Che è la situazione religiosamente più mostruosa in cui possa essere un uomo, ed è di per sé giustamente antipatica a lutti, e chi l'assuma in quanto tale è fuggito giustamente da tutti come pestilenziale».

 

Al prof. Armando Carlini il 5 dicembre 1932 da Basilea: «Quello che io penso non si possa ammettere è il servizio militare, dato quello che esso implica, come ho già accennato nella prima lettera, nella forma presente. Per lo meno, il servizio militare obbligatorio. E quindi io in Italia non tornerei qualunque regime ci fosse, anche liberale o di sinistra quanto si può pensare, quando ci fosse il servizio militare obbligatorio. E così non tornerei in patria, essendone fuori, se fossi cittadino francese, o svizzero, o belga, e di quasi tutti gli stati del mondo. La ammissibilità e la utilità pratica di agire in tal modo saranno da vedere a parte, ma così di fatto penso. Io sono così lontano dal pensare a un'attività politica nel senso comune della parola, cioè a una lotta che è quasi sempre violenza e ad ogni modo lotta e antipatia contro determinate persone e gruppi di uomini, che penso invece che la cosiddetta «azione» di questo genere sia affatto inammissibile, e che non sia ammissibile altra azione che quella «religiosa». In che modo (come nel caso mio) l'azione religiosa sia naturalmente anche un'azione politica, e quale linea di azione «politica» quindi la religiosa implichi, questo è un problema difficile, da vedere a parte: io credo di averlo almeno teoricamente press'a poco risolto: ma come ho detto , non v'è certo da pensare ad una politica nel senso che ha comunemente la parola. Il primo e più elementare requisito della religione, e quasi la sua essenza, è, cosa assai vecchia, l'amore per ogni uomo in quanto tale, l'assoluta uguaglianza virtuale di ogni uomo nell'amore che noi dobbiamo avere per lui, quindi la esclusione assoluta che si possa odiare ed avere antipatia per un uomo qualsiasi. Ed evidentemente, se pensassi che si possano ammettere a trattare come nemici anche solo quelli che si dichiarano tali verso di noi, non avrebbe senso la mia decisione. Ma io penso che un solo pensiero di odio o di antipatia per una persona qualsiasi è spiritualmente un male così grande che anche tutti i «successi» politici non sarebbero e non sono, in confronto, nulla. Giuste o sbagliate, pratiche o ingenue che siano queste idee, ad ogni modo io sono così lontano dal pensare a un'azione «politica», e dall'essere rimasto all'estero per questo che anzi credo che uno scopo come quello toglierebbe a me ogni diritto morale a non tornare».

 

Baglietto dalla Germania era passato in Svizzera a Basilea, e li viveva studiando e dando lezioni. Si occupò della «Giovane Europa» e di teorie economiche, fu visitato da Bruno Buozzi. Era molto stimato, un esule italiano così preciso, colto, rigoroso. Morì nel 1940: ne ebbi notizia in una cartolina scrittami in latino da Bernouilli. Sono stato più volte a Basilea; ho conosciuto il Bernouilli, Maria Muller Senn (vicepresidente della Dante, scolara generosa e devotissima del Baglietto, ora morta), ho visto l'alto ricordo da lui lasciato. Egli è sepolto nel cimitero di Basilea; i suoi parenti vivono a Varazze.