Massimo Bacigalupo

mostra a New York per Martina Bacigalupo

La rapallese Martina Bacigalupo, fotografa, risiede da diversi anni a Bujumbura, capitale del Burundi, ed è nota per i suoi servizi dalle zone di guerra, spesso realizzati per giornali francesi. E’ anche nota per alcuni racconti fotografici (vedi il suo sito) in cui segue una comunità o una persona disabile, spesso donne che hanno dovuto soffrire violenze personali o belliche. Martina, che usa il bianco e nero, ha uno sguardo positivo e le sue storie sono sempre centrate nonostante tutto su una sopravvivenza coraggiosa e gioiosa. Il lavoro dell’umano, donne che nonostante le menomazioni accudiscono le loro famiglie e giocano con i loro bambini.

Nel 2011 la Bacigalupo ha ricevuto il Premio LericiPea destinato annualmente a un “Artista ligure nel mondo”, e ha mostrato le immagini commoventi di una di queste donne  esemplari accompagnando ogni istantanea con i commenti dell’interessata. La fotografia è dunque per Martina un momento di condivisione, un modo di dar la parola a chi non ce l’ha ma ha molto da dire.

Ora Martina Bacigalupo riceve la consacrazione da parte del mondo ufficiale della fotografia con una prestigiosa mostra, Gulu Real Art Studio, aperta a New York fino all’8 febbraio 2014 presso il Project Space della Walther Collection (508-526 West 26th Street, Suite 718, mercoledì-sabato 12,00-18,00).

Questa volta però il progetto di Martina di dare la parola a chi non ce l’ha, e così rivelare un mondo dalla ricchezza sconosciuta e impensata, ha subito un’accentuazione particolarissima. Infatti le foto in mostra sono non scattate ma assemblate, lette da lei: oggetti trovati – e in questo Martina si avvicina dai suoi luoghi lontani alle tematiche dell’arte contemporanea, che ben conosce (la sua seconda residenza è a Parigi, a Rapallo la si vede di rado, magari a un recital della sua amica Giua).

Martina racconta di un viaggio di lavoro in Uganda. In uno studio fotografico artigianale di Gulu, seconda città del Paese, vide un mucchio di fotografie di persone da cui la faccia era stata rimossa con uno stampino. Era così infatti che il fotografo locale, Obal Denis, preparava le foto per i documenti. Faceva accomodare nel suo studio gli interessati, magari fornendogli una giacca o altro indumento, li fotografava a figura intera, stampava l’immagine, tagliava la sola testa per il documento e buttava via il resto. Ma proprio questa rimanenza racconta una storia, mostrando gli abiti, le scarpe, le mani rugose di questi uomini e donne. E l’assenza del viso pare alludere a come essi in particolare, e l’individuo in genere, gestiscano la loro personalità, la loro condizione di uno fra mille e milioni, in Africa come altrove.

Sicché Martina si è fatta dare dall’amico fotografo queste “rimanenze” e ora le espone davanti al colto e aggiornato pubblico newyorkese: e già questo è un contrasto forte. Scatterà un senso di identificazione oltre la differenza conclamata fra Gulu e Manhattan?    

Un amico newyorkese che ha ricevuto l’invito mi ha scritto: “Mi ripropongo di contemplare le foto con la faccia ritagliata dal ritratto e l’immagine risultante e quello che fa venire in mente”. E mi ha allegato un’antica miniatura di Maometto che leggendo un poeta si copre la faccia con un fazzoletto “per una ragione completamente differente”. Le immagini hanno questo modo di evocarne altre, anche del lontano passato, dei riti più diversi.

 In questo caso dunque l’attività del fotografo sta nel creare un’immagine dove non c’era, non fisicamente realizzandola, ma riconoscendola, estrapolandola dal suo contesto, facendola parlare e dandole un nuovo senso. Così Martina risolve temporaneamente il problema etico del suo portare uno sguardo sofisticato in un contesto di mera sopravvivenza. La sua convinzione è che l’Africa abbia molto da insegnarci. I volti scomparsi dei clienti del Gulu Real Art Studio ci parlano tanto più chiaramente in quanto assenti.

Sembra un’operazione di recupero un tantino cerebrale. In realtà come sempre nel lavoro di Martina l’arte e lo sguardo sono animati dalla passione e dalla condivisione. Per questo l’ancor giovane rapallese ha lasciato i luoghi dove si è formata (laurea in Lettere all’Università di Genova) per affrontare un cammino solitario, coraggioso, ma nondimeno gioioso. Non per nulla è la nipote di quella Frieda Bacigalupo, che è stata per tanti anni a Rapallo un punto di riferimento, la “dottoressa americana” ricordata col marito in una mostra tenutasi nel 2012 nel Castello e a Liguria Spazio Aperto di Palazzo Ducale, Genova. Frieda aveva lasciato la Pennsylvania nel 1939 per sposarsi in Italia e studiare medicina a Genova. Martina, che della nonna riprende la vitalità esuberante, ha scelto il cammino difficile della vita in un immane continente tutto da scoprire, anche lei comunicativa “dottoressa” nell’arte che si è scelta.