Massimo Bacigalupo
le avventure di Les
Murray
Nel mondo anglosassone la poesia continua ad avere un ruolo impensabile
in Italia. Riviste di ampia tiratura, dal “New Yorker” all’“Atlantic
Monthly”, pubblicano in ogni numero testi poetici, evidentemente sicure
che essi interessino il lettore come gli articoli e racconti fra cui appaiono.
E pagano bene gli autori. Che peraltro
scrivono con uno stile piano di argomenti di solito legati alla vita
quotidiana, per cui il linguaggio più emotivo e conciso della poesia può fare
ciò che la prosa non può fare. L’ “Atlantic” ha persino un sito che
riporta tutte le poesie pubblicate e permette di sentirle lette dagli autori:
un rapido giro di orizzonte nella poesia americana.
In questo contesto si
inserisce l’australiano Les Murray, nato nel 1938 e da tre decenni poeta a
tempo pieno. E’ di origine rurale (New South Wales), cattolico per conversione,
un uomo corpulento con una vocina antiretorica, che legge rapidamente le sue
riflessioni nervose e così pratica un understatement e un suo umorismo.
E’ anche uno dei poeti oggi più stimati internazionalmente, ma sinora del tutto
trascurato in Italia. Tanto più coraggioso è l’editore Giano a presentarlo non
attraverso una delle sue tante raccolte (come le Subhuman Redneck Poems del 1996, vincitrici del Premio T.S.
Eliot, anche se il titolo è ben poco eliotiano se non nell’umorismo, si
potrebbe tradurre Poesie subumane
degli zotici), bensì con un romanzo in versi di dimensioni debordanti
come l’autore, Freddy Nettuno:
due volumi per totali 840 pagine, compreso il testo inglese e la postfazione
dell’eccellente e paziente traduttore Massimiliano Morini (€ 36,00).
Perché scrivere un romanzo in
versi? C’è un po’ della sfida nell’impresa. I poeti anglosassoni hanno sempre
continuato a creare poemi per misurarsi con i modelli classici. Anche per i
lettori italiani è fresca la rivelazione del massiccio Omeros di Derek Walcott (pp. 581, Adelphi 2003), dove già il
titolo grida la sua ambizione: un poema dei Caraibi, del colonialismo, della
schiavitù, delle Americhe, un poema degno di un Nobel. E non proprio di facile
lettura, visto che Walcott è uno scrittore che carica fino allo spasimo ogni
verso e frase, è un allievo di Faulkner più che di William Carlos Williams
(altro autore di un poema nordamericano, assai godibile peraltro, il Paterson che racconta la storia
(in)gloriosa di quella che è oggi la desolata periferia industriale di
Manhattan: una sua traduzione, opera del compianto Alfredo Rizzardi, è tuttora
nel catalogo degli Oscar). Quanto al nostro Les Murray, si vuole redneck,
“collo-rosso”, operaista, e il suo Freddy Boettcher è un uomo semplice che
racconta in prima persona, in uno stile del tutto colloquiale, le sue
avventure, che in effetti sono i nuovi viaggi straordinari di Sinbad.
Straordinari e orrendi.
Freddy è nato nel 1895, e
durante la prima guerra mondiale è in Europa con le truppe australiane ma
finisce in Germania dove riesce a farsi passare per tedesco dati i suoi
antenati. Retroterra che al ritorno in patria lo rende malvisto. Lo scenario è
dunque cruento, e Freddy assiste regolarmente a massacri, soprattutto quello
compiuto dai Turchi ai danni degli armeni. Questa visione provoca in lui la
reazione mitica che innerva tutto il libro: perde il senso del tatto, non sente
più il suo corpo, e acquista una capacità sovrumana di sopportare il dolore.
Può sollevare pesi enormi, e questo gli permette di trovare lavoro prima su
navi e poi nel circo. Egli deve insieme saper sfruttare e nascondere il suo
talento per non essere preso per uno zombie. In questo segreto sempre rivelato
e nascosto si può scorgere un’analogia fra il protagonista sballottato nelle
guerre del secolo XX e il poeta che ha un talento particolare di scrittura e
insieme finge di non averlo, di raccontare una storia come tante altre.
Il poema è diviso in cinque
libri, intitolati “Il mare di mezzo”, “Abbaiare al tuono”, “Spade di scena”,
“La rivoluzione della polizia”, “Lazzaro sbloccato”: titoli caratteristici del
modo gergale di scrivere di Murray, che lo rende difficile da tradurre e non
sempre facile da intendere. Ma Morini è riuscito egregiamente a rendere la
spinta narrativa, anche se nel romanzo in versi il lettore si imbatte sempre
nella stranezza degli a-capo. Infatti Freddy
Nettuno è un poema in ottave sciolte, memore del Don Juan di
Byron e dei suoi modelli italiani (che però erano molto giocati sulla rima).
Murray non usa rime, sicché l’ottava sembra soprattutto fatta per dare un ritmo
e una struttura a un materiale traboccante, che così viene controllato e
ordinato, versato nello stampo di una forma.
Rientrato dalla guerra,
Freddy sposa Laura e ha un figlio, Joe, anche se dice di non provare nulla
quando fa l’amore. Si trova coinvolto in una vicenda di criminali e viene
ricattato e spedito negli Stati Uniti per eliminare un pezzo grosso. Così
finisce nel palazzo di un Padrino australiano, e quando col 1929 l’impero
criminale crolla diventa il barbone di tanta letteratura fra le due guerre,
viaggiando per tutto il paese di straforo sui treni, sempre perseguitato dalle
guardie delle compagnie. A Hollywood trova lavoro come comparsa in Nulla di nuovo sul fronte occidentale,
conosce l’antipatico Erich von Stroheim, attira l’attenzione di Marlene
Dietrich, ma non coglie l’occasione offertagli dalla “donna più bella del
mondo”. Nella parte IV Freddy è in Germania nel 1932, testimone dell’ascesa di
Hitler, partecipa a risse nelle osterie, difende dai gradassi nazisti un
vecchio ebreo e per questo deve di nuovo darsi alla macchia. Incontra un ragazzo
ritardato, Hans, lo salva dalla castrazione, e fugge con lui su una barchetta
rubata verso la Dnimarca, ma naufaga su un’isola extraterritoriale dominata da
una gran dama eccentrica con corte di generali e vescovi (una Salò
pasoliniana?).
A Dresda Freddy ha anche
ritrovato la madre, sposata ora con un nazista convinto. Come suggerisce il
titolo “La rivoluzione della polizia”, in tutto Murray c’è un atteggiamento
anarchico e antipoliziesco, e i copratogonisti sono spesso marinai, operai in
sciopero, barboni... come in un romanzo di John Dos Passos. Ma i recensori
hanno obiettato che questi personaggi secondari hanno scarso spessore, e in
effetti quando essi riappaiono a distanza di migliaia di versi in buon stile
romanzesco, non sempre ce ne ricordiamo. Freddy
Neptune è molto cinematografico, ricco d’azione, ma ciò non evita una
certa episodicità, tipica del racconto picaresco.
Nella parte V, Freddy è di
nuovo in Australia con Laura e il figlio Joe, che accettano di buon grado la
presenza di Hans, ma la suocera perfida che non ha perdonato alla figlia
l’amore per un poco di buono riesce a far ricoverare Hans in manicomio mentre
Freddy è costretto ad altri viaggi in Cina dove assiste alle atrocità commesse
a Shanghai dai giapponesi, un popolo per cui gli australiani in genere hanno
scarsa simpatia, essendosene sentiti direttamente minacciati.
Tuttavia è proprio la
notizia della bomba atomica “sul grazioso porto” di Hiroshima a far scattare
una serie di reazioni che porteranno alla guarigione di Freddy, attraverso una
preghiera simile a quella del Vecchio Marinaio di Coleridge a cui per tanti
versi assomiglia: “Devi pregare con tutto il cuore, mi fa l’uomo che ho dentro,
/ e non ce l’hai. Posso trovarlo? / Perdona gli aborigeni. Perché
dovrei perdonarli?/ Non mi hanno fatto niente! Perché ci stanno sulla
coscienza. / Scossi la testa, e lo feci. Perdonare è come cominciare”.
Gli aborigeni sono un
assillo per l’australiano, come lo sono per l’americano. Freddy scopre la
serenità superando l’ambivalenza nei confronti di tutte le vittime per cui
soffre, e visto che esse non possono perdonarlo è lui che deve perdonarle per
essergli sempre presenti con le loro mute accuse. Freddy è riunito con Laura,
Joe e Hans (l’handiccapato, il diverso, altro personaggio da “perdonare” che a
Murray è caro) e il romanzo si conclude senza grandi squilli di trombe, come
scoprirà il suo fortunato e appassionato lettore.
Si può accusare Murray di
aver dato troppe esperienze al suo Freddy: Hitler, Marlene, Lawrence
d’Arabia... Quando qualcuno ci racconta le sue precedenti incarnazioni, se è
vissuto nell’antico Egitto era perlomeno un faraone o la sua amante, mai un
poveraccio. Così Freddy incontra proprio tutti. Ma questo rivela l’intento
allegorico sotto la narrazione, e giustifica l’uso del verso. Freddy è
l’outsider legato strettamente all’Euroamerica che vive gli eventi di un
cinquantennio come in un sogno. E nei nostri sogni appaiono non Tizio e Caio ma
Marilyn e Stalin. La metafora dell’insensibilità è puro mito, e dice la
necessità continua di chiudere gli occhi e la possibilità di riaprirli:
“Lazzaro sbloccato”.
“Il Manifesto-Alias”,
7 agosto 2004