Da Premi Internazionali Ennio Flaiano, L’aforisma. Forme brevi fra antico e moderno. Atti del XIX Convegno internazionale, Pescara, EDIARS, 2003, pp. 63-74.
Massimo Bacigalupo
aforisma e umorismo in America
L’aforisma in America ha avuto notevole sviluppo. Gli Yankee sono proverbiali per la loro laconicità e per l’umorismo sotterraneo che trae in inganno l’interlocutore. La frequentazione della Bibbia rende loro familiare la forma del proverbio, del detto breve e memorabile, e di questo genere si possono seguire le tracce dalle origini a oggi. Un luogo pressoché fondante nella cultura americano hanno le massime di “Poor Richard”, l’almanacco che Benjamin Franklin stampava e distribuiva a Philadelphia dal 1733, e che raccoglieva proverbi e detti da fonti diversissime. Da “A word to the wise is enough and many words won’t fill a bushel” (“Una parola basta al saggio”) a “God helps them that help themselves” (“Aiutati che Dio ti aiuta”). Sotto proprio nome Franklin pubblicò (nell’Autobiografia) un metodo per perfezionarsi nelle virtù attraverso un diuturno esame di coscienza. Distinse tredici virtù, ciascuna illustrata da una massima:
TEMPERANCE
Eat
not to Dullness. Drink not to Elevation.
SILENCE
Speak
not but what may benefit others or yourself. Avoid trifling conversation.
ORDER
Let
all your Things have their Places. Let each Part of your Business have its
time.
TEMPERANZA
Non mangiare fino ad appesantirti. Non bere
sino all’euforia.
SILENZIO
Di’ solo ciò che può essere utile ad altri o
te. Evita la conversazione insignificante.
ORDINE
Fa’ che ogni cosa tua abbia il suo posto. Fa’
che ogni parte del tuo lavoro abbia la sua ora.
E così via per Risoluzione, Frugalità, Laboriosità, Sincerità, Giustizia, Moderazione, Pulizia, Tranquillità, Castità, Umiltà. Era una sorta di decalogo laico, con il quale Franklin afferma di avere corretto il proprio comportamento. Per ogni settimana confezionava una pagina con in testa il nome di una virtù e il motto relativo, a sinistra dall’alto in basso le iniziali di tutte e tredici le virtù, in alto da sinistra a destra le iniziali dei giorni. Così in una data settimana egli si concentrava su una delle virtù, cercando di non contravvenirvi, mentre segnava con un punto nero nella casella corrispondente le infrazioni alle altre. In tredici settimane era possibile un “corso” completo e in un anno quattro. E aveva la soddisfazione di liberare a poco a poco di segni neri le caselle, fino a tentare di raggiungere il risultato che il quaderno restasse immacolato. Secondo Franklin questo sistema gli garantì prosperità e influenza. Leggiamo alcune altre massime:
FRUGALITY
Make
no expense but to do good to others or yourself, i.e., Waste nothing.
CHASTITY
Rarely
use Venery but for Health or Offspring; Never to Dullness, Weakness, or the
Injury of your own or another’s Peace or Reputation.
FRUGALITA’
Non fare alcuna spesa se non per il bene
altrui o tuo, ovvero non sprecare nulla.
CASTITA’
Non valerti che di rado di Venere se non per
la salute e la generazione; mai sino ad appesantirti, indebolirti o danneggiare
la pace e la reputazione tua e altrui.
Non dice di astenersi, ma di non lasciarsi turbare dall’impulso sessuale. E’ soprattutto una questione di buona salute, ed economia. Molto ha fatto sorridere l’ultima delle virtù del repertorio di Franklin e la sua glossa:
HUMILITY
Imitate
Jesus and Socrates.
Sono esempi troppo elevati perché chi li segue possa considerarsi umile. L’illuminista Franklin ritiene tuttavia che Socrate e Gesù in quanto uomini esemplari siano imitabili, e che i loro insegnamenti siano tuttora accessibili in tempi e luoghi tanto diversi. E Franklin dimostrò le sue tesi portando il suo acuto buon senso in ogni cosa che fece, e facendo strabiliare gli europei quando visitò il vecchio continente e si fermò a lungo in Francia. A Parigi sembra concepisse un nuovo sistema di illuminazione stradale a gas che fu presto adottato nella capitale. Nulla poteva fermare la ragione, guida sicura anche nel campo dell’etica e della religione. Naturalmente la massima del Silenzio pone dei limiti anche all’uso dell’aforisma, infatti Franklin osserva che “in conversazione la virtù si acquista piuttosto con l’uso delle orecchie che della lingua” e che “perciò volevo rompere l’abitudine che stavo prendendo di chiacchierare, fare battute e scherzare, che mi rendeva accettabile solo in compagnie superficiali”. Ma che Franklin non fosse privo di umorismo lo vediamo in molti scritti, anche qui quando parla della difficoltà per lui di obbedire alla massima dell’Ordine, e spiega con un aneddoto che era più faticoso praticare la virtù dell’Ordine che far uso della sua buona memoria per ritrovare le sue carte sparpagliate. Così Franklin fornì un esempio buono per tutti i tempi di tredici aforismi per condurre la propria vita e spiegò il meccanismo per curarne l’applicazione. Un fai-da-te dell’etica reso notevole dalla sua lucidità e dalla sua verve aforistica.
L’aurea (furbesca) saggezza di Poor Richard fu parodiata dal maggior umorista americano, Mark Twain, nella figura di Pudd’nhead Wilson, l’investigatore protagonista del romanzo omonimo, una operetta non del tutto riuscita che ha suscitato interesse nel secolo XX per le sue ambiguità sataniche. Ogni capitolo reca ad epigrafe una massima attribuita a un Pudd’nhead Wilson’s Calendar, evidente parodia di Poor Richard’s Almanac. Si tratta di aforismi cinici e amari:
When
angry, count four; when very angry, swear.
Why
is it that we rejoice at a birth and grieve at a funeral? It is because we are
not the person involved.
April
1. This is the day on which we are reminded of what we
are on the other 364.
October
12, the Discovery. It was wonderful to find
America, but it would have been even more wonderful to miss it. Pudd’nhead Wilson’s Calendar
Quando ti arrabbi, conta sino a quattro;
quando ti arrabbi molto, impreca.
Perché gioiamo di una nascita e piangiamo a
un funerale? Perché non siamo l’interessato.
1° aprile. Questo è il giorno in cui
ci si ricorda quello che siamo negli altri 364.
12 ottobre, la Scoperta. Fu meraviglioso trovare
l’America, ma sarebbe stata ancora più meraviglioso mancarla.
L’umorismo di Mark Twain ha una certa tonalità scura, da misantropo; è un umorismo nero non di rado distruttivo. Huckleberry Finn è in buona parte dedicato alla denuncia dell’ipocrisia e della stupidità umana (oltre a essere un incomparabile poema del Mississippi e una creazione di un personaggio eterno di ragazzo, come affermò T.S. Eliot).
Twain abbozzò, forse comicamente, una teoria della comicità, distinguendo il racconto comico, che sarebbe inglese, il racconto arguto, tipicamente francese, e il racconto umoristico, che sarebbe un’invenzione americana, non esportabile. Questo si distinguerebbe dai modelli europei perché basato non sulla sostanza (su una battuta di spirito) ma sull’arte di narrare. Il racconto americano è umoristico perché il narratore si contraddice e ripete e perde il filo tenendo in sospeso l’uditorio e non dando mai a vedere di essere consapevole che il suo racconto è comico. In effetti è questa la tecnica adottata dalla narrazione in prima persona di Huck Finn, un narratore ingenuo che ci fa ridere per tutto quello che riferisce fraintendendolo mentre noi capiamo di cosa si tratta. Per esempio egli non dubita che il Re e il Duca, i due impostori che trovano asilo sulla zattera, siano davvero dei nobili esuli.
Il carattere digressivo del racconto umoristico americano non impedisce, dice Mark Twain, che esso contenga delle battute (che però il narratore deve fingere di non riconoscere per tali). Rivela anche la componente sotterranea di violenza dell’umorismo di frontiera, visto che chi prende sul serio il narratore finto serio si squalifica, rivela di essere un pivello. La truffa e l’imbonimento sembrano accompagnare lo sviluppo della cultura americana. Per esempio i politici sono quasi sempre considerati dei truffatori corrotti, che vendono fumo come i predicatori e i venditori di rimedi nei paesini isolati. Mark Twain scrisse il romanzo politico The Gilded Age, che diede il nome alla sua epoca di fortune pacchiane e spregiudicate, l’Età Dorata. Melville scrisse un romanzo sul tema della truffa, The Confidence Man (Il truffatore), ambientato su un battello del Mississippi. E ancora un drammaturgo d’oggi, David Mamet, ha scritto in Glengarry Glen Ross una commedia sulla vendita di proprietà fantasma che esistono solo nei discorsi degli agenti immobiliari.
Alla parola rumorosa del venditore di fumo si risponde con la laconicità di chi bada ai propri quattrini, con il silenzio o la frase pungente, aforistica. Per questo la teoria di Mark Twain non esclude la battuta tagliente, come quelle di Pudd’nhead Wilson. Possiamo citare degli esempi moderni di questa stringatezza sagace. Robert Frost, il poeta per antonomasia del New England e dei coltivatori Yankee, ha un umorismo diabolico che si esplica in poesie spesso stringate e amare (ce ne sono anche di liriche e narrative). E’ entrata in proverbio la sua frase “Good fences make good neighbors”, buoni confini fanno buoni vicini, che sta al centro della poesia Mending Wall, (Riparando un muro). I due vicini campagnoli si incontrano una volta all’anno per rimettere in sesto il muretto che divide le loro proprietà, perché “c’è qualcosa nella natura che non ama un muro”, che porta dissesto. Il vecchio vicino mentre i due camminano lungo il confine borbotta la sua battuta“Good fences make good neighbors”, e non vuole saperne delle domande che il narratore gli pone sull’argomento. E’ come un selvaggio, non vede ragione, “ritorna all’antico” (il motto era già di suo padre) e alla fine ha l’ultima parola. E’ l’idea americana della libertà limitata che è garantita da uno spazio privato. Gli Stati Uniti sono appunto “stati” autonomi (in una certa misura), composti di individui che a loro volta rivendicano l’autonomia. La narrativa e poesia americana, avendo spesso carattere gnomico, sono ricche di aforismi. Infatti non sono mai del tutto “finzioni”, piuttosto riflessioni saggistiche e apoftegmi. La poesia con la sua concisione e con l’uso frequente della rima dà modo a questa immaginazione aforistica di esplicarsi brillantemente. Frost ne è un notevole esempio:
When
I was young my teachers were the old.
I
gave up fire for form till I was cold...
Now
I am old my teachers are the young.
What
can’t be molded must be cracked and sprung.
Quand’ero giovane erano i vecchi i miei
maestri.
Lasciai il fuoco per la forma fino a
raffreddarmi...
Ora che sono vecchio ho per maestri i
giovani.
Quel che non può modellarsi deve essere
infranto o piegato...
In un celebre sonetto, The Gift Outright, Frost definì addirittura il destino nazionale:
The
land was ours before we were the land’s.
She
was our land more than a hundred years
Before
we were her people...
La terra fu nostra prima che noi fossimo
della terra.
Fu nostra terra più di cent’anni prima
che fossimo il suo popolo...
Raffigura il destino paradossale dei coloni, proprietari formalmente della terra americana ma non proprietà di essa, come in qualche modo un popolo è posseduto dalla patria. Ci vollero “più di cent’anni” prima che, lottando per l’indipendenza dall’Inghilterra, gli americani divenissero... americani. L’avvio aforistico del sonetto è notevole, e si vale di un sistema a chiasmo per stamparsi nella memoria del lettore-uditore.
Un uso così consapevole di una retorica quasi barocca ci ricorda che nella cultura americana il Barocco e il Seicento sono più presenti che nella cultura inglese, perché il Seicento è il secolo della colonizzazione e la forma mentis dei padri pellegrini, le loro letture, si sono trasmesse ai posteri. Sicché la poesia americana, si pensi a Eliot, e la narrativa, si pensi a Melville ma anche a Faulkner e addirittura Hemingway, è più vicina alle acrobazie di John Donne o del Marino che alle forme della letteratura europea moderna. Fa parte a sé.
Esempio massimo di questo secentismo è Emily Dickinson, autrice aforistica quant’altri mai, che tendeva sempre alla frase gnomica e proverbiale, valendosi di tutti gli strumenti tecnici a sua disposizione:
This
is my letter to the World
That
never wrote to Me –
The
simple News that Nature told –
With
tender Majesty –
Questa è la
mia lettera al mondo
che mai ha scritto a me –
le semplici notizie che la natura dettò
con tenera maestà --
My
life closed twice before its close...
La mia vita finì due volte prima della sua
fine...
Not
with a club the heart is broken
Non con una mazza si spezza il cuore
Presentiment
is that long shadow on the lawn
Il presentimento è quella lunga ombra sul
prato
Soto!
Explore thyself!
Soto! Esplora te stesso!
Split
the lark and you’ll find the music.
Spacca l’allodola e troverai la musica.
Il carattere spesso drammatico della lirica dickinsoniana la allontana dall’aforisma in senso di massima generale, si veda la quartina citata all’inizio dove essa definisce la sua opera “la mia lettera al mondo”. Ma in molte poesie essa tende alla definizione da dizionario poetico, come nell’incipit in cui tratta del presentimento definendolo “quell’ombra lunga sul prato” – dove di nuovo l’articolo determinativo compie il passaggio dalla definizione generale alla situazione particolare: quella particolare ombra, come se lei la indicasse a un interlocutore immaginario. Ma gli incipit citati sopra, ad esempio le due apostrofi conclusive, concisissime e in sé concluse, confermano che la Dickinson scrive una poesia decisamente aforistica, e un’occhiata agli avvii delle 1775 poesie che essa lasciò inedite alla morte porterebbero alla stessa conclusione. Infatti la sua è una poesia che si gioca molto sull’avvio. “The Test of Love – is Death” (“La prova dell’amore è la morte”). “Delight – becomes Pictorial - / When viewed through Pain” (“Il piacere diviene pittura / quando considerato attraverso il dolore”). Da questa sinteticità deriva anche quella che a molti è sembrata una certa oscurità, legata fra l’altro al tipico vocabolario astratto che essa predilige. Fu una delle prime moderne a scoprire (o riscoprire) che per parlare d’amore è più efficace eludere la terminologia effusiva e ricorrere invece al lessico della psicologia o addirittura della matematica. Da lei a Eliot con il suo “correlativo oggettivo”, di solito pescato in un ambito metaforico difforme da quello di partenza, il salto non è lungo.
Nelle tarde poesie di Dickinson la furia drammatica decresce e si va sempre di più verso il quadretto distaccato. La poesia sul ragno del 1873 comincia
The
Spider as an Artist
Has
never been employed –
Il ragno non ha mai trovato lavoro come artista per quanto il suo merito sia testimoniato
By
every Broom and Bridget
Throughout
a Christian Land –
Neglected
Son of Genius
I
take thee by the Hand –
Da ogni scopa e servetta
della cristianità –
Figlio negletto del genio
ti prendo per la mano
E qui vediamo come Dickinson unisca aforisma e umorismo. Il ragno crea le sue “opere” dappertutto, eppure non è considerato, anche se scope e servette lo conoscono bene. Da ciò la bella conclusione in cui Dickinson offre la mano al “negletto figlio del genio”: la mano di un ragno! Lei stessa era (felicemente) una negletta figlia del genio, e le sue poesie erano un po’ segrete ragnatele, che fortuna ha voluto non siano finite nella pattumiera dopo la sua morte insieme alle ragnatele del suo compagno d’arte. Il saluto finale ci sposta ancora una volta in una situazione drammatica al presente, la definizione non resta lettera morta, l’aforisma diventa azione.
L’uso di un vocaboario astratto e imprevisto è ciò che rende memorabile anche la scrittura poetica e saggistica di T.S. Eliot, che nel suo Canto d’amore di Prufrock introduce anestesie, lampade, sirene e ostriche, con un effetto che potrebbe essere comico se non registrasse una disperazione moderna. Non è dunque comico, ma umoristico sì, nel senso di Twain. Prufrock è un narratore ingenuo che si ripete e contraddice e non trova il bandolo del suo discorso. L’autore se ne prende gioco mentre lo fa parlare, come Mark Twain di Huck Finn, il che non toglie che Prufrock e Huck siano in parte autoritratti dei loro autori. Anche Eliot si vale della rima e del ritmo con grande effetto, ponendo in relazione maccheronica elementi discrepanti: la sera e “un paziente sotto anestesia”, le stanze dove le dame vanno e vengono con Michelangelo:
In
the room the women come and go
Talking
of Michelangelo.
Le donne vanno e vengono nei salotti
parlando di Michelangelo Buonarroti.
(T.S. Eliot, Poesie 1905/1920,
a cura di M. Bacigalupo, Roma, 1995, p. 31)
In un suo scritto Umberto Eco ha avanzato delle riserve sulla mia traduzione del distico eliotiano, dove avrei rovinato l’effetto solo per ottenere “una zoppicante assonanza” (Dire quasi la stessa cosa, Milano, 2003, p. 271). Non gli è venuto in mente che ho voluto rendere il carattere grottesco e maccheronico dell’originale. Anche la rima di “go e “Michelangelo” ha qualcosa di ridicolo perché fra due lingue e fra un monosillabo e un polisillabo, oltre a essere ridicolo il collegamento fra le signore borghesi e il sublime Michelangelo. Aggiungendo in italiano il cognome di Michelangelo ho voluto riflettere l’effetto in inglese della parola insolitamente lunga. In italiano “Michelangelo” non ci colpisce come una schidionata di sillabe, ma Michelangelo Buonarroti sì. Inoltre chi parla di Michelangelo facendone anche il cognome usa un preziosismo che denuncia la sua scarsa familiarità con l’autore della Sistina. Insomma, l’aforisma poetico e satirico di Eliot è tutto basato sulla rima e sulla difformità sonora e contenutistica fra le sue parti, e l’italiano tenta di suggerire lo stesso incontro-scontro.
Anche nel caso di Eliot, la descrizione di una scena osservata nell’immediato, le donne nei salotti che discutono di arte, cala la scrittura aforistica in un contesto drammatico. Ma la tendenza all’affermazione generale è ben presente in lui. Si ricordi la formula di Sweeney Agonistes, un abbozzo drammatico:
Birth,
and copulation, and death.
That’s
all, that’s all, that’s all, that’s all,
Birth,
and copulation, and death.
Nascita, e coito, e morte.
Questo è tutto, tutto, tutto.
Nascita, e coito, e morte.
La frase viene prounciata da Sweeney, personaggio corrivo che costituisce un alter ego per l’intellettuale e riservato Eliot, accompagnandosi con prostitute e equivoci figuri. Però tende a uscire dal contesto e stamparsi nella memoria. Eliot aveva il dono di dire cose chiaramente ed efficacemente, con scarsa apparenza d’emozione. Nell’ultima opera poetica, Quattro quartetti,
le battute aforistiche non si contano, e acquistano una certa piattezza didascalica:
What
we call the beginning is often the end
And
to make an end is to make a beginning.
Ciò che chiamiamo un inizio è spesso la fine
e compiere una fine è compiere un inizio.
E’ lo stesso gioco di inversioni chiastiche che abbiamo scorto in Dickinson e Frost. Tipico di Eliot è il tono rattenuto, assolutamente prosastico. “Quel che chiamiamo un inizio è spesso una fine”. Potrebbe essere l’inizio di un sermone, colloquiale (come del resto è colloquiale Dickinson). La retorica c’è ma è come celata. Eliot disse di ispirarsi ai quartetti di Beethoven, con i loro avvii lenti e meditativi, apparentemente senza eccitazione. E in lui doveva esserci anche molta precoce stanchezza. Scrisse l’ultimo quartetto a 54 anni, alla stessa età più o meno in cui Dickinson scrisse le sue ultime poesie (ma la poetessa avrebbe sicuramente continuato a scrivere poco ma bene se non fosse morta a soli 56 anni). Una lettura dei saggi di Eliot rivela molte perle, affermazioni fra il serio e l’ironico, sempre assai piane, ma fondate su convinzioni, adesioni e rifiuti profondi. La sua prosa è fra le più suggestive felici e aforistiche del Novecento, eppure egli ha sempre il tono del conferenziere leggermente annoiato. Riporto qui da Il bosco sacro (1920) tre apoftegmi:
There
may be a good deal to be said for Romanticism in life, there is no place for it
in letters.
Criticism
is as inevitable as breathing.
The
more perfect the artist, the more completely separate in him will be the man
who suffers and the mind which creates.
Si potrà dire molte cose in difesa del romanticismo
nella vita, ma per esso non c’è posto in letteratura.
La critica è inevitabile come il respiro.
Più perfetto l’artista, più completamente
separati in lui l’uomo che soffre e la mente che crea.
Il primo è proprio una freddura. Eliot era antiromantico, e dunque difendeva (contro l’empirismo inglese) la necessità della critica, dell’intelligenza. Con ciò conferma le tendenze astraenti della cultura americana, che è una cultura critica nel senso che - come si diceva - lo scrittore americano fa sempre critica (morale) anche quando scrive romanzi e poesie, fa sempre saggi, sforna massime. La mente, dice la terza frase, può essere completamente distaccata dall’esistenza e le sue pene, sovrana, almeno nell’artista “perfetto”, che esclude tutto il contingente e il biografico, tende alla formula astratta e impersonale. Non sorprende che con il suo orecchio sensibilissimo e la sua lucidità antieffusiva Eliot abbia firmato tanti detti memorabili, senza scompigliarsi o alzare – mai – la voce. Si potrebbe leggere il suo (non proprio felicissimo) teatro alla ricerca delle battute aforistiche che lo costellano, e concludere che come tutti gli inglesi egli amò il nonsense di Lewis Carroll e il teatro scoppiettante e blasé di Oscar Wilde.
Una breve carrellata sull’aforisma in America dovebbe soffermarsi sul’autore forse principale del genere, Ralph Waldo Emerson, i cui saggi notissimi sono quasi dei centoni di frasi memorabili e non di rado sovversive. Criticano la fede nella tradizione e invitano ciascuno a pensare per sé, con un profluvio di metafore ed apologhi, sicché Emerson è rimasto massimamente influente sullo spregiudicato individualismo americano, il Saggio di Concord.
No
law can be sacred to me but that of my nature.
Nessuna legge può essere
sacra per me se non quella della mia natura.
Da Emerson derivano le affermazioni apodittiche di Emily Dickinson, la sua decisione di non piegarsi mai alle nature altrui o alle convenzioni sociali, il suo spirito ribelle. E da Emerson derivano le dichiarazioni profetiche di autonomia di Walt Whitman:
Do I
contradict myself?
Very
well then I contradict myself.
(I
am large, I contain multitudes.)
Mi contraddico?
Benissimo, allora mi
contraddico.
(Sono ampio, contengo
moltitudini.)
La licenza di contraddirsi, suggerisce Whitman, deriva dalla spaziosità del suo sentire, cioè in ultima analisi dalla peculiarità dell’America. Ma non ha dubbi che un nuovo mondo sia alle porte:
The
Americans of all nations at any time upon the earth have probably the fullest
poetic nature. The United States themselves are essentially the greatest poem.
Di tutte le nazioni di tutti i tempi gli
americani hanno probabilmente la natura poetica più sviluppata. Gli Stati Uniti
sono in sé essenzialmente il massimo dei poemi.
There
is that indescribable freshness and unconsciousness about an illiterate person
that humbles and mocks the power of the noblest expressive genius.
In una persona incolta c’è
quell’indescrivibile freschezza e inconsapevolezza che umilia e irride il potere del più nobile genio
espressivo.
As
soon as histories are properly told there is no more need of romances.
Appena le storie saranno narrate
compiutamente non ci sarà più bisogno di romanzi.
There
will soon be no more priests. Their work is done.
Presto non ci saranno più
preti. La loro opera è terminata.
Sono dichiarazioni aforistiche tratte dalla Prefazione alla prima edizione di Foglie d’erba (1855), opera di uno sconosciuto giornalista che curò egli stesso la composizione e la stampa in un formato di per sé eccentrico. L’enfasi del giornalista democratico è ben presente nella celebrazione della “natura poetica” dell’America, che, comprendiamo, deriva dal carattere incolto. Whitman, pur essendo uomo di molte letture, ambiva alla semplicità dell’operaio, del vetturale e della massaia, del soldato e della squaw indiana: le “moltitudini” che conteneva. Le loro storie erano più affascinanti di ogni romanzo, il loro spirito più puro di ogni religione. Ma Whitman come si vede sapeva esprimere il suo entusiasmo non solo nei debordanti poemi ma anche in brevi frase incisive. Infatti nelle opere poetiche più ruscite, come Canto di me stesso, egli sfrutta al massimo quello strumento retorico che consiste nel giustapporre lunghi elenchi ripetitivi e incantatori a brevi affermazioni recise. Acritico per scelta, egli possiede un vigile spirito critico e umoristico.
Sicché i due massimi poeti americani dell’Ottocento, Dickinson e Whitman, derivano entrambi dai saggi aforistici di Emerson, lunghe rêveries fatte di brevi tessere di mosaico, ed entrambi alternano commozione, critica, satira e umorismo asciutto. Prendono il lettore in contropiede con le loro battute di spirito, lo sfidano con indovinelli e reticenze a un gioco a rimpiattino. Whitman celebra sempre i piaceri spirituali e fisici dell’amicizia virile, ma interrogato da un omosessuale inglese sulle sue preferenze sessuali nega scandalizzato qualsiasi imputazione omoerotica. Dickinson chiusa nella stanza che non le piace lasciare dichiara solennemente in tante poesie di essere “sposata” e di trascorrer “notti selvagge, notti selvagge”. Avevano in sé il germe del paradosso nella vita, che si riflette anche nel carattere paradossale dell’opera.
Accanto ad Emerson non va taciuto il nome del suo amico e discepolo ribelle Henry David Thoreau, la cui opera (specie Walden) ha avuto tutto sommato maggiore fortuna dei saggi di Emerson. Thoreau scrive dei diari di naturalista di primo Ottocento seguendo l’esempio degli amati secentisi inglesi per trarne sempre brevi riflessioni memorabili:
The mass of men lead lives of quiet desperation.
La maggioranza degli uomini
conduce una vita di tranquilla disperazione.
I never found the companion that was so companionable as solitude.
Non ho mai trovato il
compagno che fosse di compagnia come la solitudine.
Thoreau intravide e criticò anzitempo la società dei consumi, e sostenne il diritto politico alla “disobbedienza civile”, cioè tradusse la sua critica paradossale, diciamo i suoi aforismi, in azione, o almeno in una influente teoria della “resistenza passiva” poi presa a modello da Gandhi e altri contestatori “civili”. Anche qui abbiamo dunque il paradosso di un recluso che sforna affermazioni e teorie destinate a grandi e imprevisti sviluppi.
L’aforisma sembra dunque una forma che ben si addice alla psicologia americana, con la sua laconicità alternata a verbosità, col suo individualismo, il suo umorismo e la sua sinteticità, con la sua capacità di innovazione linguistica. Whitman definiva la sua poesia un “esperimento di linguaggio”, e sotto questa etichetta possono in modi diversi comprendersi autori di fortunati aforismi novecenteschi come Gertrude Stein, Wallace Stevens ed Ezra Pound. La Stein gioca con le parole ripetendole con sensi diversi (“Una rosa è una rosa è una rosa”):
Before the flowers of friendship faded friendship faded.
Prima che il fiore
dell’amicizia svanì l’amicizia svanì.
Aforisma o affermazione intraducibile alla lettera perché in inglese il verbo al plurale e al singolare sono indentici. Pound, liquidato dalla pungente Stein come un “insegnante da villaggio, ottimo se sei un villagio e se no no”, tendeva al detto breve ed alcuni sono rimasti nella memoria del secolo XX: “La letteratura è notizie che restano notizie”, “L’epica è un poema che contiene la storia”, “La poesia deve essere scritta almeno altrettanto bene che la prosa” (ma questo forse lo disse anche Eliot). Make It New!, Rinnovare! – motto cinese già citato da Thoreau in Walden. G. Singh ha curato tutto un libretto di Aforismi e detti memorabili di Pound (Roma, 1993) dove si troveranno molti esempi del suo spirito americano, della sua sincerità abbastanza ammirevole, ma anche della tendenza eccessiva a semplificare e banalizzare deprecata dalla Stein. Ma non c’è dubbio che egli si ponga nella tradizione di disobbedienza individualistica dei grandi di cui abbiamo parlato, che qua e là degenera a idea fissa e non è sorretta dalla diffidenza yankee per ogni soluzione troppo facile (certo presente in Dickinson, meno in Whitman). Anche Pound è uno che promette di dire tutto ma poi è sfuggente e ingannevole, accenna a segreti per soli iniziati, e allude a saperi arcani tratti dalle sue letture onnivore della cui importanza non riesce sempre a convincerci. L’incolto di Whitman vuole misurarsi con i colti sul loro stesso campo e con freschezza e semplicità, ma l’operazione non riesce del tutto.
Molto più prudente, Eliot ha una grande capacità di creare frasi chiarificatrici e antiretoriche, e di navigare fra terrore e sazietà, visione e cultura. Non trova gli incolti poetici, sarebbe contro la sua natura, ma può affermare sinceramente la virtù dell’umiltà e amare certi esempi di arte popolare come il cabaret e le oscenità da ginnasiali: sono uscite postume delle rime di questo genere che si divertiva a mandare agli amici fra cui Pound, e ha avuto grande fortuna il suo libro di poesie sui gatti.
Wallace Stevens (1877-1955), da molti considerato fra i massimi poeti del Novecento, e in qualche modo il culmine della raffinatezza e del gelo, aveva una notevole verve aforistica. Teneva quaderni di Adagi, che poi disseminava nelle sue poesie abbastanza oscure.
The
real is only the base. But it is the base.
Il reale è solo la base. Ma è la base.
Sentimentality
is a failure of feeling.
Il sentimentalismo è un fallimento del
sentimento.
A
poet looks at the world as a man looks at a woman.
Un poeta guarda il mondo
come un uomo guarda una donna.
The
purpose of poetry is to contribute to man’s happiness.
Lo scopo della poesia è
contribuire alla felicità dell’uomo.
Intellettualismo e gusto figurativo creano una poesia unicamente americana, e molto particolari sono anche queste affermazioni, che uniscono ovvietà e autorità e critica. Magari anche un pizzico di umorismo. Non è il music hall di Eliot ma la banda e l’inno della chiesa unitariana nelle domeniche della Nuova Inghilterra. Case di legno bianche, prati verdi, boschi che si accendono di rossi e gialli magnifici nell’autunno, detto “Indian Summer”, estate indiana. Così incomprensibile e blando appare il mondo americano, lontano da ogni turbamento autoironico ed esistenziale, ed è questo il paesaggio degli aforismi di Stevens:
A
poem need not have a meaning and like most things in nature often does not
have.
Una poesia non deve avere un
significato e come molte cose in natura spesso non ne ha.
Chi volesse continuare questa indagine fra gli scrittori contemporanei può consultare due poeti tradotti in italiano. L’alfabeto di un poeta di Mark Strand (Brescia, 2001) è un libretto di riflessioni che partono da parole e nomi in ordine alfabetico, e tende alla concisione colloquiale che abbiamo visto negli autori trattati:
U sta per Utah, la cinta occidentale del mio indispensabile tedio e, sotto molti aspetti, la sua ispirazione... Charles Wright, non so dove, dice: “C’è così poco da dire, e tanto tempo per dirlo”. Beh, lo Utah ci dà questa sensazione...
Nella sua divagazione alfabetica e vagamente aforistica Strand cita un altro aforisma, di un poeta amico e coetaneo.
Charles Simic è un autore di poesie e prose argute su un mondo cruento il cui senso sfugge, ma in cui tutto sommato è possibile vivere in “tranquilla disperazione”, vedi Il mondo non finisce (Roma, 2001):
Da queste parti un sacco di gente è stata portata a spasso sugli UFO. Non lo riterresti possibile, con tutte le graziose chiesette bianche che si vedono, così ben frequentate la domenica.
In Simic c’è una drammatica passione del gioco. Serbo naturalizzato americano sin da ragazzo, è un esempio di un’identità linguistica e culturale in evoluzione, acquisita, ma non per questo meno americana, per esempio nel suo uso spregiudicato di tutto un armamentario filosofico, da Emerson a Heidegger. Questa tendenza speculativa, astratta, è una caratteristica ricorrente della letteratura americana. Scrive Simic:
The
poets and writers I admire stood alone. Philosophy, too, is always alone.
Poetry and philosophy make slow solitary readers.
Gli scrittori e poeti che ammiro sono vissuti
soli. Anche la filosofia è sempre sola. La poesia e la filosofia formano
lettori lenti e solitari.
L’aforisma è un modo di afferrare la realtà con il pensiero-parola. Gli scrittori americani hanno conservato la capacità barocca di calare la retorica nel nuovo mondo delle scoperte, e questo ne ha fatto degli aforisti privilegiati. Come descrivere quell’ “estate indiana” che arrossa mirabilmente boschi e colline? Ecco Emily Dickinson con la sua poesia-aforisma:
We
wear our sober Dresses when we die,
But
Summer, frilled as for a Holiday,
Adjourns
her sigh –
Da morti vestiamo abiti scuri,
l’estate invece, parata a festa,
rimanda i sospiri –