Massimo Bacigalupo
dall’infanzia
alla Storia
Cosa succede nel Preludio, vasto poema autobiografico a cui è
legata soprattutto la fama di William Wordsworth? Il
fatto che Wordsworth, nato 250 anni fa nel Distretto
dei Laghi al quale il suo nome è associato, abbia per la poesia moderna la
stessa importanza che il suo coetaneo Beethoven ha per la musica è uno stimolo
a rileggere il poema per verificarne grandezza e attualità.
È una celebrazione
dell’autosufficienza e della solitudine, doveva infatti introdurre a un grande
progetto poematico intitolato Il recluso. È la
storia di una vita sia dal lato più intimo (il titolo provvisorio era «Crescita
della mente di un poeta») che appunto dal lato creativo. Una vita che si
affaccia sulla storia europea in un momento cruciale, la Rivoluzione francese,
di cui Wordsworth è testimone entusiasta. La poesia,
la natura, l’uomo semplice non corrotto da una società meschina e artificiale,
sono il centro dell’indagine e della celebrazione della forza vitale compiuta
su migliaia di versi, ma c’è anche il resoconto immediato, la cronaca di prima
mano di eventi che conosciamo solo dai libri di storia. Questa capacità di
passare dall’intimità alla storia in fieri come essa viene vissuta è una delle
grandi forze del poema. Il racconto è condotto nella misura pacata, prosastica,
del verso sciolto, che procede con tranquilla confidenza, senza mai incepparsi,
riprendendo sempre un discorso ininterrotto. Infatti Il preludio è anche
un libro che si racconta mentre viene scritto, che tematizza la propria
composizione. È dedicato all’amico Coleridge, assente
per un viaggio, come lettera, testimonianza, risposta a un suo preciso invito e
incoraggiamento. Un immenso poema privato, colloquio dei due geniali trentenni,
fraternamente legati da un comune progetto etico, critico e poetico.
Ogni testo letterario nasce da
un’occasione, per un committente o un pubblico, un interlocutore, come del
resto una lettera, solo che un poema si rivolge in definitiva a tutta una
società, e l’opera evidentemente si compie solo nel momento che raggiunge il
destinatario, e poi se fortunata entra nella coscienza comune. Quando nel 1806 Coleridge tornò dal faticoso viaggio a Malta, Wordsworth lesse ad alta voce a lui e ai suoi intimi quanto
aveva scritto, lungo diverse serate, e Coleridge ne
fu debitamente commosso. La voce dell’amico, che così spesso lo chiama in causa
direttamente, e poi il silenzio. «Quando mi alzai», scrisse Coleridge
nel poemetto in cui rievoca quel momento, «scoprii che pregavo».
Religiosità anche, davanti a un’opera
che tocca le corde più profonde dell’umano. Il pensiero del divino vi ricorre
più volte, mentre si contestano le forme esteriori assunte dal cristianesimo.
La natura è espressione, linguaggio, di Dio, ma così anche la mente umana. E l’uomo sottratto ai vincoli innaturali che lo
immiseriscono si rivela nella sua nobiltà. Qui vediamo la consonanza con
l’idealismo di Beethoven. Il preludio racconta un’educazione, ed è
un’educazione, in quanto è una rivelazione continua del «potere della mente»
calata nel quotidiano, purché sappia liberarsi dai ceppi dell’egoismo e dei
falsi rapporti, della fiducia eccessiva nella scienza e nella ragione.
Wordsworth vive anni in cui notizie drammatiche
si accavallano, confessa di aver perso la bussola riflettendo disperatamente su
politica e società (col razionalismo di Godwin, padre di Mary Shelley) ma di
aver poi ritrovato il suo baricentro attraverso l’introspezione, la natura,
l’amore degli intimi, la poesia. Il che non significa astrarsi da storia e
società ma stabilire un punto di forza sicuro da cui vivere il mondo. Ed è
questo che si propone di comunicare al lettore, che non può non essere ispirato
da questo modello come dai cori del Fidelio. Un poema da leggere ora più che
mai, quando il conforto della routine viene meno, la vita stessa è in pericolo,
e ci si chiede cosa conti davvero.
In questi giorni è stata ristampata
la mia traduzione del Preludio (con uno scritto di Virginia Woolf
(Mondadori «Oscar Classici», pp. 544, €11,00), traduzione risalente al 1990,
che rimane il lavoro di cui sono più orgogliososo. Ho
riletto il poema consecutivamente dall’inizio alla fine, cosa che forse non
facevo dal 1990, anche per scovare eventuali fraintendimenti (qualcuno infatti
c’è). Il dettato di Wordsworth è come un fiume che
scorre lento e sicuro, e una frase si immette nell’altra provocando qualche
incertezza nell’interprete, che deve rileggere i lunghi possenti periodi. Una
poesia in paragrafi, prosastica, ma ogni pagina offre rivelazioni.
Sono tredici libri. Nel prologo il
poeta lascia la Città e si propone mesi di pace e di fruttuoso lavoro
solitario, vuole scrivere un poema, passa in rassegna argomenti storici e fantastici,
non trova ciò che cerca, e allora decide di investigare la propria storia, un
argomento che conosce bene. E comincia la rievocazione dell’infanzia che è fra
le cose più spettacolari di tutta la poesia che conosciamo. Proust? Sì, ma in Wordsworth c’è una diversa intensità fantastica, e la
visione, il ricordo, sono molto fisici, legati al corpo, al respiro, al vento,
il monte, il cielo.
Nel libro III il giovane arriva a
Cambridge, siamo nel 1787, e vediamo cosa voleva dire diventare studenti fra
compagni e arcigni studiosi, sono pagine vivaci ma sempre sorrette dalla musica
profonda. Quindi un libro dedicato alle vacanze, il ritorno sui luoghi cari, e
poi nel 1790 il viaggio in Francia e sulle Alpi dello studente, la scoperta
della Rivoluzione, «quando la gioia di uno è gioia di milioni». Il passaggio
delle Alpi è una delle pagine visionarie più dense e sublimi che possediamo. Un
libro precedente, il quarto, è intitolato «Libri»: la scienza, la poesia, il
loro significato significato, anche il loro mistero.
Finiti gli studi, la metropoli terribile, Londra alla fine del Settecento,
raccontata da chi la vive affascinato e terrorizzato. Dopo un libro dedicato a
come «l’amore della natura conduce all’amore dell’umanità» – molto concreto,
sempre – due libri raccontano l’anno trascorso in Francia, a Parigi sui luoghi
della rivoluzione, fra l’esaltazione repubblicana e il Terrore.
Gli ultimi libri narrano il momento
di smarrimento razionalista e il ritrovamento della salute per sé e chi lo
vorrà ascoltare, e propongono la tesi dei «punti di tempo», spots
of time, esperienze epifaniche che materiano la coscienza di ciascuno e hanno
la capacità di animare tutta la vita. Che Wordsworth
esemplifica dal proprio vissuto con risultati stupefacenti. Il lettore è
tentato di sondare i «punti di tempo» di cui si nutre la sua personalità,
operazione consigliabile, ma intanto è stato richiamato a una grandezza
possibile, e questo in tutta semplicità. Il lavoro comune della mente come
inesauribile ricchezza purché vi sappiamo attingere. «The holy
life of music and of verse» dice un verso del libro I: «la santa vita della
musica e del verso». Grazie a Beethoven e Wordsworth.
“il Manifesto-Alias”, 7 giugno 2020