Massimo Bacigalupo
Waldie. Una instant city da difendere
Arriva in Italia a 15 anni dalla prima edizione Holy Land. Ricordi suburbani di D.J. Waldie (traduzione di Annamaria Biavasco e Valentina Guani, il Canneto). E’ la storia di una città operaia, anzi di una “instant city”, Lakewood nei pressi di Los Angeles, nata dal nulla su terreni agricoli in tre anni: 17.500 case di 90 metri quadrati con giardinetto, albero obbligatorio, vialetto d’accesso... “I compratori non avevano bisogno di incoraggiamento. Quando l’ufficio vendite aprì in una limpidissima domenica delle Palme nell’aprile del 1950, c’erano 25.000 persone ad aspettare... Le coppie in coda attendevano di essere accompagnate alle sette case in esposizione. Era la prima volta che per vendere abitazioni veniva usata una strada di case... Le case in esposizione erano arredate dal negozio di arredamento di Aaron Schultz, a Long Beach, in quattro stili diversi: Acero, Tradizionale, Moderno e Provinciale...”. Molti dei compratori lavoravano nella vicina fabbrica aeronautica Douglas, che finché durò garantì impiego al circondario. Nel 1954 Lakewood divenne città (oggi 83.000 abitanti), con la caratteristica pioneristica di appaltare i servizi essenziali (polizia, nettezza urbana eccetera) a consorzi esterni, sicché nel Comune, dove Don Waldie ha passato una vita a lavorare, ci sono solo 170 dipendenti.
Holy Land racconta mezzo secolo di microstoria suburbana della California del Sud, in maniera compatta, alternando vicende pubbliche (i modi della speculazione finanziaria che generò il progetto arricchendo i costruttori ma fornendo anche un habitat decente agli acquirenti), annotazioni storiche (le prime carte e cessioni spagnole da cui per li rami derivano i numeri delle strade di Los Angeles e i vialetti di Lakewood, alcuni intitolati a Nixon e Mamie Eisenhower) e momenti personali. E ci sono le foto della terra vuota con le fondamenta, le code dei compratori, le cucine tipo con le modelle anni ’50 in calzoncini neri corti, comunque casti, che aprono il rubinetto o il frigo, l’alzabandiera, i parchi giochi...
Quello che si crea è un dialogo complesso nella sua chiarezza alla Edward Hopper, letteratura (addirittura un poema in prosa in 316 sezioni numerate) che si fa senza voler essere letteratura, e direi senza una sola allusione letteraria. Gli appassionati magari ricorderanno l’esagitato reportage sui mezzadri del Sud della Depressione Sia lode ora a uomini di fama (1941) di James Agee, integrato dalle scarne foto di Walker Evans, ma mentre sia Agee che Evans erano artisti, maestri consapevoli anche nel non mostrare l’arte (Evans), Don Waldie non chiede che lo si legga in religioso silenzio, presenta un reportage apparentemente banale. Poi però lo intitola Holy Land, Terrasanta. E allora dove siamo? Tutto è vero e tutto è metafora. Originalissimo manufatto americano, in cui però l’artista si riversa tutto in un’anonima contemplazione dell’esistente. E dell’esistere.
Leggiamo due delle 316 sezioni: “251. Queste case costruite nel dopoguerra sono così leggere che in caso di forte terremoto potrebbero addirittura ripararci. [a capo] Lo stesso si può dire del peso delle nostre abitudini. [a capo] Ho evitato più che potevo il cattolicesimo di mio padre, ma abito ancora qui. [a capo] 252. A volte penso che le uniche due forze realmente esistenti qui siano le circostanze e la ‘grazia’”.
Già questa numerazione ricorda un pacato inventario o un principio costruttivo aleatorio o la numerazione delle strade di New York e L.A. Una serie di constatazioni pacate, che Waldie (un californiano che non guida!) dice sono nate mentre tornava a piedi dal suo ufficio in Comune. In esse l’annotazione e l’aneddoto si alternano senza scarto a quello che un poeta chiamerebbe la rivelazione (“grazia”). A un lettore di testi americani viene in mente un altro impiegato in completo grigio che componeva le sue riflessioni andando e tornando a casa dall’ufficio prima che Waldie nascesse (1948), il poeta Wallace Stevens. Oggi sul percorso che Stevens faceva a Hartford ci sono le strofette numerate di quel pezzo da antologia che si chiama “Tredici modi di guardare un merlo”: “Il merlo vorticava nei venti d’autunno. / Era una piccola parte della pantomima”. “Il fiume è in movimento. / Il merlo deve essere in volo”. Quadretti giapponesi, nitidi e incomprensibili. La California è ancora più vicina all’Oriente del Connecticut, sicché Waldie fa a meno di ogni arte. Forse non sa nemmeno che sta scrivendo un poema.
Altri grandi poemi americani sulla città sono il trascurato Paterson di W.C. Williams (molto vicino a questo Holy Land nel mescolare storia pubblica e visione privata) e l’affabile Winesburg Ohio di Sherwood Anderson: poema in prosa come Holy Land, galleria inesauribile di personaggi e macchiette come ce ne sono nelle 316 strofe di Waldie. E in fondo anche E.L. Masters faceva la stessa cosa con la poesia rauca di Spoon River. Anderson disse a Faulkner di scrivere del suo fazzoletto di terra, così Faulkner arrivò a Stoccolma. Waldie non ha questa ambizione ma segue lo stesso metodo, con risultati spesso eccellenti.
Ecco il ritratto di Ben Weingart, uno degli speculatori che edificarono Lakewood: “Non leggeva libri ma soltanto la sezione degli annunci del Los Angeles Times, per vedere se fra le offerte d’affitto c’erano anche sue proprietà... Portava con sé varie centinaia di dollari in una busta strappata a metà. Regalava sapone e rasoi ai barboni....”. Potrebbe essere il Dottor Reefy di Winesburg con le sue “pillole di carta” su cui ha scritto pensieri prima di appallottolarle e metterle in tasca. Ma Weingart è descritto tale e quale dall’infermiera-amante Laura Winston. Poesia trovata. Ed ecco la disposizione comunale secondo cui è vietato predire il futuro, cioè “fornire informazioni... derivanti da poteri, facoltà o forze psichiche occulte, chiaroveggenza, cartomanzia, psicologia [!], psicometria, frenologia... sfera di cristallo o mistero orientale”.
Era anche vietato vendere case a messicani, neri ed ebrei, sicché i tre speculatori Boyar, Taper e Weingart non avrebbero potuto abitare nella loro creatura più redditizia. Oggi Lakewood è ovviamente integrata e multirazziale, ma la storia non è negata. Waldie difende (implicitamente) la suburbia dagli attacchi degli architetti alla Mumford che vi vedevano poco meno che l’inferno, e dalla sufficienza degli intellettuali. Cosa potrebbe essere più orrendo di queste periferie e case fatte con lo stampino dove tutti pensano quello che pensano gli altri e si spiano i prati per protestare se non hai tosato il tuo? No, dice Waldie, questa è Terrasanta.
“Si sedette sul bordo del letto nella stanza di mezzo. Aspettava che il padre morisse” (55). Si passa alla prima persona: “Mio padre passò davanti a camera mia per andare in bagno a fare la doccia... Mentre aspettavo, sentii un gemito. Non era niente di eccezionale... Poco dopo cercai un cacciavite a lama stretta... Alla fine vidi il suo cadavere” (56). Una volta da piccolo Waldie vide piangere il padre dopo un litigio con la moglie: “Adesso penso che le sue fossero lacrime di umiliazione” (178). Una pagina addietro la stoica morale: “Chi critica questo sobborgo sostiene che voi e io viviamo vite limitate. [a capo] Io sono d’accordo. La mia vita è limitata”. Che all’interno di questi stretti limiti ci sia la grazia è quanto il lettore scopre conoscendo e abitando con Don Waldie il suo spicchio di realtà di cose e parole. “Il Manifesto-Alias”, 5 giugno 2012