Massimo Bacigalupo

Wallace Stevens, la riscoperta del poeta della realtà

60 anni or sono, il 2 agosto 1955, moriva a 75 anni Wallace Stevens, un gigante della poesia americana, che negli ultimi decenni ha persino oscurato in patria gli astri più bizzosi dei coetanei Frost, Pound ed Eliot. E persino da noi è accolto come una rivelazione, a giudicare dal coro unanime dei recensori che ha salutato la recente uscita del Meridiano di Tutte le poesie da me curato per Mondadori (pp. CLX+1325)

Il Meridiano contiene 332 poesie tanto lucide quanto misteriose, lunghe dai 2 ai 659 versi – così il poema vagamente dantesco Note per una finzione suprema, scritto nel 1942, in piena guerra, e che alcuni giudicano il capolavoro. 

Poesie, poemi, finzioni... Non è forse un mondo lontano dalle nostre preoccupazioni a quotidiane? Sono passati giusto cent’anni da quando Stevens pubblicava le prime opere fondamentali, cent’anni in cui se ne sono viste di cose e guai. Dunque dovremmo leggere una poesia come “Peter Quince al clavicordo” o “Domenica mattina” (che sono appunto due testi del 1915)? La prima comincia: “Come le mie dita su questi tasti / fanno musica, così gli stessi suoni / sul mio spirito fanno anche musica. // Musica è dunque sentimento, non suono...”. Peter Quince (che poi era un personaggio di Shakespeare) si diletta di queste fantasticherie, e continua venendo al tema erotico: “ed è perciò che quel che sento / qui in questa stanza, desiderando te, / pensando alla tua seta dalle ombre azzurre / è musica...”.

Stevens è un poeta edonista e ragionatore, che mescola severità, sensazione, musica. Qualcuno ha citato D’Annunzio. Ma l’estetismo di Stevens non ha nulla di esibizionistico, è severo e ironico, e si vale di un vocabolario che persino un non anglofono può sondare.

Si sa che nella vita era vicepresidente della più grossa compagnia di assicurazioni americana, e non amava parlare di poesia, e nemmeno leggerla, per non esserne influenzato, diceva. Infatti non c’è dubbio che le sue mille pagine sprizzino un’originalità non ricercata ma spontanea. Come il nuovo mondo americano di cui è il paradossale esponente (non fu mai in Europa, a differenza di pressoché i suoi coetanei scrittori globetrotter).

Qualcuno ha detto di essersi insospettito quando ha scoperto che Stevens è amato da coloro che dicono di non amare la poesia. Eppure l’eterno tema di Stevens è proprio il ruolo della poesia e dell’immaginazione in un mondo che la schiaccia, e che pure non può non essere suo fondamento. Lo apprendiamo leggendo gli aforismi raccolti nel Meridiano. “La realtà è solo la base. Ma è la base”. Oppure: “Il denaro è una sorta di poesia”.

Stevens ci guarda serenamente con la sua perfetta cravatta e camicia a righe dalla copertina del Meridiano e dal suo grande ufficio nell’America degli anni ’50.  Sembra non nutrire dubbi sulla possibilità di affrontare il reale, e infatti i lettori lo venerano per la sua capacità di “staccare” e richiamare al compito della conoscenza e della vita, con concreta astrazione. Le sue poesie sono come degli indovinelli, o dei disegni giapponesi. Non si capiscono ma si guardano, con inesausta soddisfazione. Ecco, sappiamo che a Stevens possiamo sempre tornare e trovare una parola lucidissima e misteriosa che ci parrà di non aver mai letto prima, per quanto lo abbiamo frequentato. L’inafferrabilità dei suoi testi così solidi ne fa il fascino inesauribile.

“Secolo XIX”, 2 agosto 2015