Massimo Bacigalupo

indecifrabile Stein

Due mostre tenutesi nel 2011 a San Francisco hanno documentato il collezionismo di Leo e Gertrude Stein nella Parigi di un secolo fa (lui Renoir e Cézanne, lei Picasso e Matisse) e l’(auto)creazione del mito Stein da parte della ipnotica e defatigante scrittrice, che infatti crebbe in California, anche se nacque in Pennsylvania e studiò psicologia con William James a Harvard. Anche la seconda mostra, Seeing Getrude Stein, ospitata dal Contemporary Jewish Museum, si concentrava su aspetti non letterari, articolandosi in “Cinque storie”.  Prima storia: l’immagine della Stein ritratta da artisti e fotografi (da Picasso a Man Ray al suo esecutore letterario Carl Van Vechten). Seconda: la vita domestica della coppia Stein-Toklas, che lavorò veramente a quattro mani. (Da festeggiare la recente ristampa einaudiana della traduzione di Pavese dell’Autobiografia di Alice Toklas, il più accattivante e bugiardo libro di Stein; a quando la riedizione del magnifico Tre esistenze?)  Terza storia: l’“arte dell’amicizia”, cioè il circolo di artisti quasi tutti maschi, quasi tutti omosessuali (da Bowles a Wilder) che la Stein seppe farsi con le sue doti intellettuali e mondane. Uno dei suoi celebri ritornelli recita: Before the flowers of friendship faded friendhsip faded, prima che il fiore dell’amicizia avvizzì l’amicizia avvizzì. E nel 1953 Donald Gallup curò un felice libro di lettere alla Stein intitolato appunto The Flowers of Friendship. L’ultima lettera è quella di condoglianze ad Alice scritta da Bernard Faÿ nel 1946, “da prigione”, nota discretamete Gallup. Infatti Fay, direttore della Bibliothèque Nationale sotto Vichy, era stato condannato per collaborazionismo, nonostante le testimonianze a sua discolpa di Gertrude, sulla cui ambiguità politica in quegli anni (e non solo) ci si è spesso interrogati. Ma Stein anticipava Warhol, oltre che nell’omosessualità fatta arte, nell’opportunismo e nell’amore del paradosso, tanto da trarre in inganno i lettori politically correct, che a volte criticano la sua affermazione (del 1935) che Hitler merita il Nobel per la pace perché scacciando gli ebrei elimina i conflitti e pertanto favorisce la pace... Vale la pena di ricordare come Stein apparve a un’altra laboriosa intellettuale gay americana a Parigi, la libraia Sylvia Beach: “Alice era uno spirito più fine, più acuto ed era una donna adulta, mentre Gertrude era bambina, una specie di enfant prodige...”. La voce irridente e sbarazzina, scientemente provocatrice, di Stein, rimane nell’orecchio. Si finge bambina ma un po’ in effetti lo è, questa donna dal corpo che sembra un fagotto, un buddha americano celebrato oggi come un’icona culturale nel parco sulla Quinta Strada alle spalle della New York Public Library, dove fra gli impiegati in pausa pranzo si erge il tozzo ritratto in bronzo, quasi un Buddha moderno, dedicatole da Jo Davidson. 

     La quarta delle storie raccontate al Jewish Museum riguarda appunto “Stein celebrità”, il suo trionfale ritorno in patria del 1934, quando tenne affollate conferenze dispensando saggezza su argomenti letterari e geografici (e auspicò il Nobel a Hitler), le sue fotografie accanto alla bandiera a stelle e strisce, insomma il suo patriottismo esibito. Tutto in Stein è esibizione, ed è “camp” nell’essere così comune e ordinario da far sentite una ventata di follia: le piaceva abbracciare i G.I. che liberarono Parigi, sempre più maschia dei maschiacci, madre asessuata. Nella mostra un’ultima sezione è dedicata all’eredità artistica –  Warhol, Grooms ecc. – e in poesia si potrebbe citare John Ashbery, che spergiura che The Making of Americans (finito giusto cent’anni fa e da lui letto nelle sue mille pagine, dice, dopo trent’anni di dilazioni) è il capolavoro del modernismo americano.

    Chi vuol visitare una mostra virtuale di cimeli Stein non ha che da andare sul sito della Beinecke Library (http://beinecke.library.yale.edu/digitallibrary/stein.html) che offre centinaia di foto, cartoline, manoscritti, a cominciare da un’immagine di Gertrude e Alice in luna di miele fra i piccioni di Piazza San Marco. Chi invece vuole avventurarsi nelle più segrete stanze della sua scrittura ha oggi in Italia tutta una biblioteca in cui pescare. Sellerio ristampa Sangue in sala da pranzo, a cura di Benedetta Bini, una specie di giallo (“C’era una volta essi cominciarono è cominciato”), Archinto offre una scelta di pezzi brevi, Flirtare ai grandi magazzini, mentre  Liberilibri pubblica per la cura di Marina Morbiducci diversi massicci volumi: dopo Teneri bottoni (2004, pp. 323, con testo a fronte), opera fra le più radicali di Stein, poemi in prosa di parole-oggetti (“Una borsa che fu lasciata e non solo presa ma rifiutata non fu trovata”), e  Geografia e drammi (2007, pp. 417 -- l’edizione originale uscì, a spese di Stein, nel fatale 1922), Morbiducci e le sue collaboratrici ci propongono oggi Opere ultime e drammi (2010, pp. 525), una raccolta postuma di testi che vanno dal 1927 all’ultimo dramma, La madre di tutti noi.

    Questo lavoro, come il precedente Quattro santi in tre atti, fu musicato da Virgil Thomson, musicista assolutamente tradizionale di marcette e atmosfere, e riguarda (si fa per dire) la femminista Susan B. Anthony: “Io sono qui. Pronta a essere qui. Pronta a essere qui. Pronta a essere qui. E’ mia consuetudine”. Ci sono altre decine di personaggi, storici, inventati e moderni, da John Adams all’amico Gallup. Le proverbiali ripetizioni e scansioni di Stein si adattano bene a essere messe in musica. Difficile togliersi di testa la melodia scritta da Thomson per la battuta di Daniel Webster: He digged a pit, he digged it deep, he digged it for his brother. Into the pit he did fall in the pit he digged for tother. E sono commoventi le ultime parole riflessive di Susan-Gertrude: “La vita è lotta e fatica, sono stata martire per tutta la vita non per quello che ho conquistato ma per quello che ho subito. (Silenzio)... Per tutta la mia vita, per tutta la mia vita”. Le parole di Stein, svuotate di contenuto e referenzialità, tornano proditoriamente a toccarci con antica malinconica saggezza.

    Sempre in questo Opere ultime e drammi, accanto a tante pagine indecifrabili, troviamo un dramma pacatamente convenzionale, Il sì va bene per un ragazzo, vicenda di tensioni, ambiguità  e ripensamenti familiari nella Francia  occupata, uno degli ultimi scritti di Stein. Pochi giorni prima che morisse, un telegramma le annunciava che esso sarebbe andato in scena a Broadway, il che di certo la rallegrò (anche se poi non avvenne). Molto più esoterico è un quarto volume curato da Morbiducci, per fortuna con testo a fronte, Sollevante pancia (2009, pp. 131) che pare celebri sul nascere l’amore di Gertrude per Alice, ripetendo a non finire quanto è bello “sollevare pancia” e  “avere una mucca”. Mucca, spiegano le interpreti, sta per “orgasmo”, ma non mi sembra questo autorizzi a tradurre cow, come fa appunto Morbiducci, con “orgasmo” o “lussuria”. Il linguaggio privato delle amanti vuole rimanere un gioco che dice e non dice.

    Ma Gertrude a volte sa essere esplicita:  Kiss my lips. She did. / Kiss my lips again she did. / Kiss my lips over and over and over again she did. Sorprende ritrovare queste righe in un sito sexy, Erotic Attic, accanto a una cartolina osé, come poteva essere osé una cartolina parigina di cent’anni fa, quando appunto fu scritto Lifting Belly. Nessun dubbio, Stein è diventata popolare. “Alfabeta2-alfalibri”, 12 settembre 2011