Massimo Bacigalupo
Shakespeare 400
Un
po’ di Shakespeare a 400 anni dalla morte? Per una immersione salutare c’è la
nuova edizione Bompiani a cura di Franco Marenco,
delle “Tragedie” e delle “Commedie”,
massicci volumi con testo a fronte, ottime introduzioni e nuove traduzioni: in
prosa, il che è una scelta. Vedere studiosi quali un Masolino
d’Amico commuoversi quando scrivono di Otello o Lear è una sorpresa salutare.
Le migliori intelligenze della nostra generazione, come diceva Ginsberg, si immergono ed escono rinforzate dal confronto.
Volumetti più maneggevoli sono i singoli drammi nei Grandi libri Garzanti
curati dal compianto Nemi D’Agostino. A me toccarono due decenni fa le due parti dell’“Enrico IV”,
i drammi di Falstaff, che ho riletto in questi giorni per risentire le
chiacchiere dei due vecchietti, i
giudici Shallow e Silence,
che attendono la visita del prode ciccione Falstaff venuto a reclutare soldati
per le guerre (sempre guerre!). Quando si incontrano (siamo in “Enrico IV Parte
II”, Shallow chiede a Silence
come sta la sua “compagna di letto” (la moglie) e la figlia e Silence risponde che la figlia non è una bellezza, e che il
figlio William studia a Oxford “at my cost”, a mie spese… Sembra un
papà di oggi preoccupato per i costi in aumento. Ma è anche curioso vedere che
quattro secoli fa quando Tizio incontrava Caio discorrevano come si fa oggi di
come stava il tale e il tal altro. E poiché i due giudici son vecchi, spesso la
risposta è che il tale non c’è più. “Vero, vero, dobbiamo tutti morire, lo dice
anche il salmista”, cioè la Bibbia. Non ci vuole in realtà la Bibbia per saperlo… Poi arriva Falstaff che fiuta l’affare e dà corda
a Shallow, che vanta le sue birichinerie da studente
(“Mi chiamavano ‘il focoso Shallow’, e le buonerobe sapevo dove trovarle”). Falstaff se ne esce con
la celebre battuta, “Abbiamo sentito le campane di mezzanotte”. E l’altro:
“Proprio così, proprio così”. Due secoli e oltre dopo, Charles Dickens,
soggiornando a Villa Peschiere di Genova e udendo lo scampanio di tante chiese,
intitolò “Le campane” (“The Chimes”) un racconto di
Natale che qui scrisse. E pensava proprio al grasso cavaliere.
Da qui in un ideale percorso shakespeariano si
potrebbe passare ai “Sonetti”, quei magici testi in cui il poeta invita un
giovane a sposarsi perché il mondo conservi traccia della sua bellezza. W.H. Auden ha suggerito che la
relazione di amore e sudditanza del poeta nei confronti del bel giovane
aristocratico è analoga a quella di Falstaff col principe Enrico, che quando
diventerà il glorioso re Enrico V non avrà scrupoli a bandire il vecchio
compagno di baldorie. Dei “Sonetti” esistono infinite traduzioni. Molto
particolare ma a suo modo riuscita quella di Roberto Piumini (Bompiani) che
rispetta le rime e le arguzie originali. Difficile però riprodurre il senso
sconfinato del tempo che crea e
distrugge: “Come le onde corrono verso la riva, così i nostri minuti s’affrettano
alla fine…”. Amore, potere, sesso, arguzia: in quei
“Sonetti”, insieme profondissimi e strizzate d’occhio cortigiane, c’è più di
quanto si possa afferrare, se non la loro natura di “artifici dell’eternità”, per usare un’espressione del
grande Yeats.
Shakespeare scrive teatro, presenta la
terribilità e insensatezza della condizione umana in tutta la sua varietà, la
“infinite variety” propria della sua Cleopatra.
Ragazzina viziata e falsetta, grandiosa figurazione
quando si dà la morte. Capita di rado di vedere Shakespeare rappresentato sulla
scena all’altezza. Ma bastano due allievi di scuola di recitazione che ripetono
gli scambi degli assassini in “Macbeth” per trascinarci nel gorgo. Un
bell’“Antonio e Cleopatra” si vide alcuni anni fa per la regia di Luca De Fusco: i personaggi fra Roma e Alessandria si muovevano
sullo sfondo di un mare proiettato, una distesa infinita in cui le loro parole
suonavano perfette. Muore Antonio e Cleopatra dice che “Nulla resta di notevole
/ sotto la luna visitatrice”. The visiting moon…
Si
sostiene giustamente che tale e tanta poesia è impossibile da tradurre, e invece
no, come spettatori abbiamo ascoltato Otello Macbeth Cleopatra con godimento
che non era mediato, puramente artistico.
Sorprendente anche perché Shakespeare è il colmo del barocco, ama
decorare di immagini e giochi di parole. Dice Amleto, “I am
too much in the sun”, sono troppo al
sole, ma sono anche troppo “figlio” (son
e sun sono
omofoni). Insomma, ci vuole grande
rispetto e gusto per cavare da questi testi quanto ci offrono, e spesso sono le
compagnie giovani e fresche (come gli allievi che anni fa con Mesciulam misero in
scena il “Sogno”) che si divertono e coinvolgono di più.
Nel
teatro la battuta è efficace nel momento che viene detta. Inutile disquisire su cosa intende
Amleto con “To be or not to be, that is the
question”. Esprime un’interrogazione, non è un
filosofo. Dice una battuta ad effetto, sei sillabe con tre accenti. Nel teatro
di quattro secolo fa le parole dovevano suonare, arrivare, incantare. Non era e
non è necessario capire. Il senso lo sa Amleto, noi intendiamo il suo
arrovellarsi infinito, tutto trasformato in parola. Certo, c’è una visione del
mondo nella sua complessità, lo scontro fra le motivazioni umane, i manierismi,
la confusione, l’occasionale grandezza. La storia tutta presente sotto la luna.
Per avvicinare Shakespeare ci aiutano i registi e attori. Ma lui mette in bocca
ad Amleto quei giusti avvertimenti agli attori che ancora taluni stentano ad
imparare. Non sbracciatevi tanto, non urlate, anche al culmine della passione
ci deve essere un sotterraneo controllo (essere insieme dentro e fuori la
parte?), una soavità. “Gentile Shakespeare” infatti lo dicevano i
contemporanei. Terribilità, commedia, dolcezza. Ofelia
che offrei fiori, la festa campestre di “Il racconto
di inverno”, le chiacchiere di Shallow e Silence. L’uomo.
Ma
non esageriamo col vecchio Bloom che in un suo raptus ha immaginato uno
Shakespeare “inventore dell’umano”. Veramente c’erano già stati Dante, Eschilo,
Omero. Come avrebbe riso l’impresario commediografo di Stratford
dei vaneggiamenti che si son fatti sul suo conto. Morì per aver preso freddo
dopo una bevuta col collega Ben Jonson. Il quale,
richiesto di un parere sull’amico defunto, disse solo che “mancava
d’arte”… Ma dichiarò anche: “Non fu per
una sola età ma per tutti i tempi”. Infatti, seriamente scherzoso, il poeta dei
Sonetti affermava: “Sin quando gli
uomini respirano e gli occhi vedono , / sino allora questo verso vive e a te dà
vita”. Sin quando.
“Secolo XIX”, 23 aprile 2016