Massimo Bacigalupo

un lineare, esile faulkneriano

Peter Taylor (il cui vero nome era Matthew Hillsman Taylor, 1917-94) è soprattutto noto come autore di racconti (alcuni dei migliori raccolti in L’antica foresta, e/o 1992) ma con il suo primo tardo romanzo, Ritorno a Memphis (trad. Elena Dal Pra, Giano, pp. 239, 16,00) ottenne il Premio Pulitzer 1986, nonché curiosamente il Premio Chianti Antico Fattore. Non è forse un gran libro, e conserva l’esilità del racconto, ma nel corso delle sue duecento pagine coinvolge via via il lettore con la sua pacata tecnica narrativa e la sua raffigurazione di un mondo che emerge dalla memoria, con le sue zone d’ombra. Memphis, “città fluviale”, è nell’estremo occidente del Tennessee, quel “lungo verde hinterland” come lo definì Taylor. Da lontano la si conosce soprattutto come la patria di Elvis Presley, celebrata nell’abile film di Jim Jarmusch Mystery Train, che a sua volta si ispirava alle vette di Nashville di Altman. Nel romanzo di Peter Taylor Nashville e Memphis, le principali città dello stato, sono i due poli della vicenda, in quanto la famiglia del narratore Phillip Carver ha compiuto un improvviso trasloco dalla prima alla seconda in seguito alla rottura del padre-padrone George Carver con un suo socio d’affari. Peter Taylor presenta lo spostamento come un trauma che conduce in qualche modo all’invalidità della madre, la morte in guerra del fratello, lo zitellaggio farsesco delle due sorelle e il disadattamento del narratore che ora vive a New York con una donna più giovane con cui ha un rapporto più d’amicizia che d’amore. Infatti il padre è intervenuto prontamente e sadicamente per mandare a monte gli amori dei figli, non si sa bene perché. Nato una ventina dopo il grande Faulkner, Taylor racconta anche lui i travagli e rovelli del Sud, per fortuna senza le lungaggini ma anche senza le folgorazioni del maestro. Come nel quasi illeggibile ma grandioso  Absalom, Absalom!, Phillip conversando con la convivente ricostruisce da New York il passato famigliare (argomento su cui di solito i due tacciono), e Taylor è molto abile nell’intrecciare il presente al passato facendoci procedere insieme avanti e indietro fino a condurci con ritmo pacato ma sicuro verso la conclusione – un po’ proustiana e un po’ romanzesca vecchio stile in quanto tutti i personaggi principali si ritrovano “per caso”, invecchiati, nella sala da pranzo di un albergo di villeggiatura nelle colline del Tennessee. La vicenda presente è quella del ritorno al Sud. Il titolo originale è A Summons to Memphis, cioè una convocazione, non un “ritorno”, ma evidentemente l’editore che ha avuto la buona idea di far tradurre per la prima volta quest’opera significativa ha preferito un titolo meno tecnico, dalle risonanze più vaste (che però rischia di suonare anodino). Da quando è rimasto vedovo, il papà Carver ha frequentazioni femminili anche poco raccomandabili, ma ora ha varcato il segno minacciando di sposare una signora, rispettabile ma non per questo meno pericolosa. Temendo per la loro parte dell’eredità, le due figlie rimaste a Memphis a vegliare da lontano sull’ottantenne patriarca, convocano (appunto) Phillip a Memphis per aiutarle a prevenire le nozze, e Phillip corre in soccorso, anche se in apparenza per aiutare il papà a sfuggire alle cure mortali delle sorelle. Ma anch’egli ha da rimproverare al padre di aver in passato posto fine all’unico vero amore della sua vita, sicché la sua posizione è ambivalente. E’ un meccanismo abbastanza semplice, ma basta a creare una sospensione e a dare vita a queste pagine invero poco corpose, fatte più che di personaggi di scene (le brutte figure del padre al night con qualche sgualdrina, la sua apparizione inaspettata all’aeroporto ad accogliere il figlio). Il tema di fondo è l’ostacolo e la frustrazione del proprio desiderio, e l’accettazione dell’inevitabile. Comunque Peter Taylor, che fu un protagonista della vita culturale americana di metà Novecento, è un narratore con una personalità marcata, che non delude il lettore, piano ma tutt’altro che superficiale, molto americano in quel suo giocare a carte scoperte.

“Il Manifesto-Alias”, 10 giugno 2006