Massimo Bacigalupo

Paul Muldoon. Buio come indovinello. La nuova raccolta (“Sabbia”) del poeta irlandese-americano sessantenne

La recensione del New York Times di Moy Sand and Gravel dell’irlandese Paul Muldoon, ora tradotto in italiano da Giovanni Pillonca col titolo scorciato Sabbia (Guanda, pp. 184, €16,00), si intitolava Darkness at Muldoon, che rima con Darkness at Noon (Buio a mezzogiorno), suggerendo che anche il recensore statunitense annaspava davanti al Niagara di parole del funambolo irlandese-americano per eccellenza. Nato nell’Ulster, dal 1987 l’eterno ragazzo Paul – ormai prossimo ai 60 – vive in Usa e insegna a Princeton, e infatti i critici americani gli hanno decretato il Pulitzer per questo “buio” Sabbia. Ma è un buio non ermetico, che ha più dell’indovinello e dell’elaborazione formale incessante dell’ultimo Joyce, sicché Sabbia dà il piacere di una sfida a cui il lettore più volte riesce a tenere testa, fino a dire: Toh! E’ un libro che andrebbe usato a scuola, per disimparare e poi imparare l’inglese, perché il suo armamentario è tutto perfettamente efficiente.

     Poesia come indovinello, secondo una tradizione medievale, che poi si ritrova in Dickinson e in un altro maestro di Muldoon, Robert Frost, il poeta più adatto per capire l’America. Alla fattoria “Homer Noble” di Frost, Muldoon dedica  una serie di haiku incatenati che comincia:

 

That case-hardened cop.

A bull moose in a boghole

brought him to a stop.

 

From his grassy knoll

he had you in his crosshairs

the accomplice mole...

 

    Cito l’originale per mostrare la serie di rime aba-bcb...

 

Questo sbirro indurito dal tran-tran.

Un alce in un fosso

lo bloccò.

 

Dalla sua collinetta erbosa

ti teneva nel mirino

la sua complice talpa...

 

     Si entra nel mondo di Alice, ma l’haiku successivo riflette:

 

Questa spada già aratro.

Questa foresta una fattoria.

Questa pietra un gradino.

 

    Come in Frost, le cose mutano, e si inizia un cammino fatto di cose viste e di riflessioni non rassicuranti. Occorrerà continuare per capire.

    Il virtuosismo metrico e verbale di Muldoon, tipicamente postmoderno, fa pensare a Sanguineti: in entrambi la poesia nasce dalle strutture della lingua. Nel poeta più giovane il ritmo è franto e le invenzioni sgorgano a ogni pagina. Il risultato è un coacervo a tratti intraducibile, che la versione di Pillonca aiuta a investigare. Per esempio, One Last Draw of the Pipe, un’ultima tirata di pipa, è un sonetto anomalo con rime aaaa-aaaa-abbacc. Dove (qui il bello) “a” è sempre la parola “draw” in dieci significati diversi (tanti ne ha!). Questo della parola-rima è un espediente che compare spesso, cioè è l’intera parola che ritorna, anche se a volte inglobata in altre parole, non so, “blotter / otter”, “pact/compact” – esempio che però si avvicina alla rima tradizionale, e viene dalla poesia The Otter, che rima magistralmente abcdefg-gfedcba, cioè a specchio, tanto più che vi si parla della canta assorbente che (non) riflette uno scritto a inchiostro, ovviamente capovolgendolo.

    Artificio? Certo, ma se un poeta ha una forte personalità e qualcosa da dire (la violenza  dell’Ulster, il ricordo di altri traumi storici, il dolore per un figlio abortito o la morte di amici e maestri come Ted Hughes), i percorsi impensati della lingua danno profondità e procurano scoperte. Le cose si legano, come le rime incatenate delle sestine (forma che qui ricorre due volte). Insomma nulla di distratto e annoiato nel fanciullo Muldoon.

    Il suo Spaccone riferisce ad esempio:

 

Ha succhiato, ci tiene a dirlo,

il sesto rivelatore dito del piede

di una donna che sembrava una giovane Marilyn.

 

     Ma bisogna citare in inglese, ricordando che “Monroe” è un giambo:

 

He sucked, he’ll have you know,

the telltale sixth toe

of a woman who looked like a young Marilyn Monroe.

 

    Come è finita lo scoprirà il lettore nella seconda strofa, che come la prima è a rima baciata, sicché tutta la poesiola ha forma aaa-bbb. Sembreranno giochi fine a se stessi, in realtà qualcosa è successo e qualcosa viene raccontato: la lingua rappresenta la realtà in modo arguto. Sanguineti diceva appunto che la poesia tende alla memorabilità. Leggere The Braggart ad alta voce è un piacere che si pregusta e si vuole ripetere. Lascia un poco interdetti: non c’è facile morale o soluzione sentimentale. Ma siamo vicini al cuore dell’espressione e del racconto. E il sesto alluce della sosia di Marilyn cos’era? Non vorrei pensar male. Questi spacconi irlandesi!

   La contea di Armagh dove Muldoon è nato in una famiglia cattolica da una madre insegnante vessatrice e un padre agricoltore ritorna come luogo ricorrente dell’intertesto muldooniano, non mitizzato però come nel suo sponsor Heaney, sempre tenuto a distanza, indossato e sofferto. Sabbia si apre con un viaggio in auto che anche un principiante può decifrare:

 

With my back to the wall

and a foot in the door

and my shoulder to the wheel

I would drive through Seskinore.

 

With an ear to the ground

and my neck on the block

I would tend to my wound

in Bellek and Bellanaleck.

 

   Che strani nomi! E quante frasi idiomatiche, ognuna un piccolo coacervo di significati. E il lettore continuerà, scoprendo che questo Guida accidentata è un sonetto (abab/dede/fgfg/ee). Sono ricordi dolceamari, ma le rime hanno fissato l’esperienza nei versetti di due piedi, scanditi.

    Sabbia offre anche alcune traduzioni, che vanno molto al di là dell’esercizio: le Melagrane di Valéry, rese in quartine perfette, precedono la poesia Pineapples and Pomegranates, basata su un truce bisticcio fra “pomegranates” e “granates”.  Di Orazio rende in ampie quartine l’ode sulla guerra e quella sulla fattoria sabina. Di  Montale ricrea in modo impareggiabile e muldooniano L’anguilla:

 

The selfsame, the siren

of icy waters, shrugging off as she does the Baltic

to hang out in our seas.

 

     “To hang out” è molto colloquiale, una dizione dura, che fa presa.

     Nell’edizione originale c’è anche una poesia che il traduttore di Sabbia deve aver disperato di rendere. Si chiama Winter Wheat, grano invernale, e ne propongo l’avvio al lettore:

 

The plowboy was something his something as I nibbled the lobe

of her right ear and something her blouse

for the Empire-blotchy globe

of her left breast on which there something a something louse.

 

Cioè:

 

Il garzone stava qualcosa il suo qualcosa mentre mordicchiavo il lobo

dell’orecchio destro e qualcosa la camicetta di lei

per il globo a macchie imperiali

del suo seno sinistro su cui qualcosa un qualcosa pidocchio...

 

     Qualcuno vuol provare a colmare le lacune?

     Sabbia di Paul Muldoon (come Poesie uscito da Mondadori nel 2008) è una scatola da gioco che dobbiamo aprire e maneggiare con cura scomponendo e ricomponendone i pezzi. C’è in effetti una “Darkness at Muldoon”, ma è un buio che ci sfida ad aguzzare lo sguardo e a muoverci verso la comprensione. Quella lunga poesia che si chiama Prime parole famose e comincia: “Le prime parole di Archimede furono: Scostati dal mio diagramma” che metodo seguirà? E perché elenca non le prime ma le ultime parole? Muldoon ci chiede di pensarci. E conclude con un poemetto di 45 (!) ottave, All’insegna del Cavallo Nero, tale da far girare la testa a chiunque, tanto più che parla di un’inondazione che sfiora la casa dove il poeta vive con il figlioletto Asher, citato per nome con la moglie e la figlia maggiore. Anche per loro c’è posto nell’intrico linguistico-poetico, e gli appassionati scopriranno che in quest’ultimo fantasmagorico tour de  force sono inclusi temi e parole dell’intero libro, secondo un principio tutto da decifrare.

“Il manifesto-Alias”, 13 giugno 2009