Massimo Bacigalupo
missive da
Utopia
le “lettere” di Thomas More a cura di Alberto Castelli (1907-1971)
Thomas More è il solo santo (si dice) che abbia avuto una statua al Cremlino, per via delle profezie avveniristiche della sua Utopia (1515), viaggio nel paese della Ragione, scritto in dialogo con l’Elogio della Follia del caro amico Erasmo. Nell’isola di Utopia c’è libertà religiosa (ma non di ateismo: occorre perlomeno credere al Partito!), la guerra è invisa e si fa solo per necessità, oro e argento sono disprezzati, i giovani scelgono sposi e spose dopo averli ispezionati nudi, e gli anziani malati sono incoraggiati (non obbligati) ad assumere oppio e spegnersi serenamente. Ma More fu anche uno dei protagonisti della politica inglese del primo ’500, fiero difensore del cattolicesimo caro ad Enrico VIII finché egli stesso avversò la Riforma, caduto in disgrazia quando il re decise di rompere con Roma e proclamarsi capo della chiesa d’Inghilterra. Enrico, un tempo ospite frequente nella laboriosa casa londinese di More (numerose figlie, un vecchio padre, una seconda moglie “nec bella nec puella” ma pur sempre amata), lo fece imprigionare nella Torre sotto accusa di tradimento. More, uomo di legge, sperava di salvarsi non esplicitando le ragioni del suo rifiuto di sottoscrivere l’Atto di Supremazia, cioè non pronunciando alcuna critica del re, e anzi continuando a lodarne la persona generosa, ma i suoi avversari ed Enrico vollero la sua testa, che cadde il 6 luglio 1535, e fu esposta per settimane sul Ponte di Londra, finché la figlia la riscattò e le diede sepoltura. Una testa che appare rotondetta, intelligente, molto inglese, negli splendidi disegni e ritratti che ne diede Hans Holbein, che di More fu ospite e amico e ne raffigurò tutta la famiglia intenta alla conversazione e riflessione.
Siamo infatti in tempo di Rinascimento e Umanesimo. La barbarie è sempre (allora come oggi) alle porte (vedi la testa mozza esposta), ma intanto fioriscono gli studi e il pensiero si fa ardito, immagina repubbliche ideali, riscopre i classici, e i dotti si comunicano amicizia e passione in lettere che possono essere lunghe come trattati o corte come cartoline. Come vediamo nel massiccio volume delle Lettere di Tommaso Moro (Vita e Pensiero, pp. 436, €25,00), curato da don Alberto Castelli. Insigne prelato, Castelli (1907-71) fu anche docente e traduttore di letteratura inglese (Shakespeare, Chesterton, Eliot), e dedicò anni di lavoro all’edizione commentata delle lettere di More, rimasta inedita alla sua morte prematura. Il libro è stato ripreso in mano e dato alle stampe da Francesco Rognoni, nipotino di una sorella di don Alberto e smaliziato cultore di cose anglosassoni. L’atmosfera di borghese familiarità che circondava More è richiamata dalla genesi di questo bel volume: Rognoni vi ha aggiunto di suo una lunga introduzione su More/Castelli, in cui passa con agilità dalla propria biografia a quella del prozio a quella del santo, e fornisce un gran numero di notizie bibliografiche e indicazioni critiche.
Apprendiamo così che di More (non di rado contestato negli ultimi decenni per la persecuzione di protestanti) si sono scritte biografie più e meno ammirate, con prevalenza però delle seconde, di cui è buon esempio il Thomas More del romanziere Peter Ackroyd, pubblicato in Italia da Frassinelli nel 2001: “volto non tanto a smitizzare il personaggio quanto a rappresentare, ricreare tutta un’epoca di sconvolgimenti storici, dove la figura di More lancia ‘una sfida alla modernità’… stagliandosi sul grande affresco, il vivo, brulicante organismo della sua Londra”. A proposito delle invettive scurrili di More contro Lutero, Ackroyd ricorda il carnevale di Rabelais, altro grande esponente dell’anima rinascimentale e delle sue utopie (il mistico Terzo libro). Da parte sua, Mario Praz sosteneva che la ragione principale della scelta fatale di More fosse “il rifiuto di agire contro coscienza” e suggeriva (nel 1974) che nelle aule di giustizia italiane anziché il crocefisso andasse esposto il ritratto di Holbein. Anche perché More rappresenterebbe al meglio le virtù borghesi, compreso l’umorismo.
Infatti a Utopia c’è posto per i piaceri dei sensi, purché non si ecceda, e More si sposò 26enne, preferendo, disse, “essere un marito casto che un religioso non casto”, e a Utopia anche le donne sono ammesse al sacerdozio. L’educazione delle figlie era infatti cura di More e diverse volte spezza una lancia – anche in queste lettere – a favore della parità dei sessi in campo educativo. More compose un gran numero di opere dotte, e due o tre delle lettere presentate da Castelli sono dei veri e propri trattati: quella a Martin Dorp del 1515 è una difesa in 70 pagine dell’Elogio della follia, forse più lunga dell’originale. Ma More aveva molto a cuore quest’opera di giocosa critica dei costumi del tempo, tanto più che Erasmo l’aveva scritto a casa sua e gliel’aveva dedicata sottolineando che il titolo Elogium Moriae (in greco) poteva anche leggersi come un Elogio di More. Un’altra lettera di 29 pagine (1432), all’eretico John Frith, poi giustiziato, riguarda la transustanziazione che Frith negava, e qui certo l’edizione di Castelli interessa soprattutto gli specialisti.
Ma More ebbe anche una produzione letteraria amena, di epigrammi, motti, facezie, e pare che la sua scherzosità anche nell’anno di prigionia lasciasse interdetti giudici, carcerieri e familiari. Le ultime lettere qui presentate sono dirette alla figlia Margaret. Il giorno prima della morte egli spera (per quanto ciò possa addolorarla) di essere giustiziato l’indomani, vigilia della festa di san Tommaso di Canterbury, altro martire inglese (e Castelli tradusse il dramma a lui dedicato da T. S. Eliot, Assassinio nella cattedrale, per il libretto dell’opera di Pizzetti). More fu accontentato, e i cronisti riferiscono anche diverse battute scherzose pronunciate sul patibolo. Esempio di ragionare dialettico e cordiale sono anche i dialoghi nella Torre riferiti dalla figlia Margaret in una lettera a un’amica inclusa nella raccolta di Castelli, quasi un dialogo platonico. E forse la morte di More potrebbe leggersi come una moderna morte di Socrate.
Secondo Savinio, “nessuna vita, quanto la sua, fu sacrificata a un principio sbagliato. Che tristezza!”. Infatti viene da domandarsi perché More abbia voluto morire per ciò che sembra un cavillo legale. Come dice Praz, “Enrico VIII, il re toro, disconosceva l’autorità del papa non già per motivi religiosi ma solo per poter ripudiare una vacca in favore di un’altra”. Conosciamo già la risposta di Praz al quesito: “il punto non è tanto quello religioso, quanto quello etico: il rifiuto di agire contro coscienza”. Anche questa una virtù della nuova borghesia, che oppone More all’assolutismo dell’ipse dixit e potrà essere presa ad esempio di altri rifiuti di obbedienza. “Non serviam”. Senza del resto orgoglio, almeno palesato.
Certo la carriera di More, la sua ascesa rapidissima e la sua rapida caduta e dignitosa fine, impressionò i contemporanei. Prima che la vita di More fosse rivisitata dal teatro e dal cinema del ’900, già i drammaturghi del ’500 gli dedicarono un dramma, Sir Thomas More, in cui egli rivela la sua saggezza politica e la sua pazienza e fermezza nella disgrazia. Rimase inedito perché l’argomento era delicato, ma una scena del manoscritto è quasi certamente di pugno di Shakespeare. Lo stesso Castelli scrisse nel 1965 una sorta di intervista postuma a More per un documentario RAI non realizzato: testo vivace opportunamente ristampato in appendice a questo sostanzioso volume di Lettere.
“Il Manifesto-Alias”,
24 maggio 2008