Massimo Bacigalupo
le talpe di Moby Dick
Leggere o rileggere Moby-Dick potrebbe essere un bel proposito
per l’estate, visto che la fama di libro-mondo, di vero specchio dell’umanità e
dell’America alle soglie dell’apocalisse, è affatto meritata. Può dissuaderci
la lunghezza, ma in realtà i 135 capitoli sono per lo più brevi, si possono
gustare col gelato. E la comicità è una nota ricorrente, accanto ovviamente al
sublime e tutto il resto. Ma chi non si destreggia nel bell’inglese del 1851
dovrà servirsi di una delle otto traduzioni integrali disponibili da noi, in
primis quella classica del giovane Pavese, che ha un bel respiro d’autore e
dunque è tutto sommato da preferire. Una delle più recenti, di Bernardo Draghi
(Frassinelli, pp. 758, €12,39), è alquanto meritoria per freschezza e impegno,
ed è unica nel contenere una postfazione del traduttore sui criteri addottati
nella versione. Così Draghi ci spiega perché ha scelto di rendere il celebre
incipit “Call me Ishmael” con “Diciamo che mi chiamo Ismaele”: per sottolineare
che Ishmael non è necessariamente il “vero” nome del narratore ma un nome
simbolico che egli assume (Ismaele orfano nel deserto). D’altra parte la forza
dell’imperativo originale si perde: “Chiamatemi Ishmael” anche in italiano ha
molti sensi, compreso quello dell’autonominazione simbolica. Nel presentare una
sua lettura scenica di Moby-Dick, Alessandro Baricco ebbe a dire che
l’avvio è ammirevole nella sua semplicità, “come dire, mi chiamo Mario Rossi”.
Nulla di più sbagliato: Ismaele non è Rossi! Tutto in questo romanzo sarà ricco
di valenze, e l’imperativo annuncia che esso è tutto una apostrofe al lettore,
chiamato in causa ad assistere alla tremenda vicenda.
Nella postfazione Draghi
racconta come grazie alla rete e altro ha potuto venire a capo di problemi
irrisolti nelle precedenti traduzioni e cita l’inizio del capitolo 110, dove per cercare una falla nella stiva si
procede a issare in coperta tutte le botti, scendendo sempre più giù, “mandando
quelle moli gigantesche (gigantic moles) da quella nera mezzanotte in
alto nella luce del sole” (Nemi D’Agostino). Draghi dopo una lunga
discettazione conclude che “moles” sono talpe e traduce “giganteschi talponi”,
sostenendo di essere il primo a essersene accorto. Poiché nel 1991 mi è toccato
rivedere per Mondadori la traduzione di Cesarina Minoli, ho effettuato un
controllo. In effetti, Minoli traduce “moli gigantesche”. Ma la versione da me
riveduta, disponibile negli Oscar, legge “quelle talpe gigantesche”. Chissà
perché Draghi afferma che l’errore è comune a tutte le traduzioni, quando invece esso è corretto in quella
pubblicata nella collana di tascabili più diffusa in Italia. Visto che tutti i
traduttori e revisori hanno distrazioni, sono contento di averla scampata in
questa occasione e rivendico le mie talpe... Non per questo sono meno grato a
Draghi di avere simpaticamente discusso i suoi procedimenti: se no non mi sarei
accorto di questo piccolo nodo. Chissà che esso non incuriosisca qualcuno e gli
faccia mettere Moby-Dick (scelga lui o lei la traduzione!) nella sacca
da viaggio.
“Il Manifesto-Alias”, 2 agosto 2008