Massimo Bacigalupo

un nuovo Leopardi americano 

“I’ve always loved this lonesome hill…” Così l’avvio di “L’infinito” nella traduzione del poeta irlandese Eamon Grennan (Leopardi, Selected Poems, 1997). Leggere in traduzione un nostro classico è spesso affascinante, come sentirsi ridire in altra forma frasi che si amano. Ma l’impressione che fa a noi che conosciamo l’originale è certo diversa da quella del lettore straniero che l’incontra la prima volta. La poesia è ciò che si perde nella traduzione, diceva qualcuno. Chi legge in italiano i Sonetti di Shakespeare può forse dire di conoscerli? Ora Jonathan Galassi, poeta e direttore della raffinata e fortunata casa editrice newyorchese Farrar Straus Giroux, ha tradotto e integralmente e pubblicato i Canti leopardiani (FSG, pp. 498, $35,00), cercando un inglese piano ma non banale, e abbondando di note. Così per certi passi più ispidi sarà probabilmente più agevole leggerli in inglese che in italiano. Leopardi infatti non scherzava per complessità sintattica. Non a caso le poesie che tutti amano sono una decina, le altre restano ricordi scolastici.

    Galassi aveva compiuto  un’analoga operazione traducendo i Collected Poems di Montale, in realtà solo i primi tre libri canonici. (Più tardi, per un piccolo editore di poesia, ha curato la versione inglese del contestato e bellissimo Diario postumo. Da segnalare che un volumetto italiano di poesie di Galassi, North street dithyrambs, è uscito nel 2006 presso il Melangolo.). Le traduzioni montaliane rendevano bene il senso dei testi, anch’essi tutt’altro che facili. Quanto alla poesia, temo che fosse intraducibile almeno quanto quella di Leopardi. Comunque è tale l’ascendente di certe liriche (Dante, Petrarca, Foscolo, Belli…) che generazioni di poeti-traduttori si provano a copiarle nella loro lingua, proprio come il copista che riproduca la tela di un maestro. Recentemente è uscito uno strano volume di traduzioni inglesi di Montale, Corno inglese (Joker, 2009), che include oltre cinquanta tentativi  di rifare “L’anguilla” da parte di altrettanti copisti. Un’esagerazione.

     Leopardi ha richiamato spesso l’attenzione dei lettori stranieri, da Gide a Melville (che lo adombra in un personaggio del suo immenso e poco letto poema Clarel). Anche Ezra Pound nelle prime raccolte incluse due versioni di testi sepolcrali di Leopardi, seguito nel dopoguerra dal bostoniano Robert Lowell, che “imitò” sia Leopardi che Montale del tutto liberamente, partendo dal calepino del vecchio glorioso Penguin Book of Italian Verse (purtroppo mai sostituito). Più recentemente all’Università di Birmingham è stato creato un Centro per lo Studio di Leopardi e della Poesia Romantica che sta lavorando alla traduzione integrale dello Zibaldone – operazione invero ardita. Ma l’America pensa grande, e sembra che Jonathan Galassi, nuovo paladino del verbo leopardiano, si sia impegnato a pubblicare questa prima e unica traduzione integrale dell’enorme e geniale massa di appunti del poeta di Silvia. Che magari diventerà la base di nuove azzardate teorie letterarie, come anni fa avvenne negli Usa per Giambattista Vico e Antonio Gramsci.

     Ma la prova della torta sta nel mangiarla, dice un proverbio inglese. Vediamo come Galassi rende un testo breve e decisivo, “Alla luna”.

 

To the Moon

O graceful moon, I can remember, now
the year has turned, how, filled with anguish,
I came here to this hill to gaze at you,
and you were hanging then above those woods
the way you do now, lighting everything.
But your face was cloudy,
swimming in my eyes, thanks to the tears
that filled them, for my life
was torment, and it is, it doesn't change,
beloved moon of mine.
And yet it helps me, thinking back, reliving
the time of my unhappiness.
Oh in youth, when hope has a long road ahead
and the way of memory is short,
how sweet it is remembering what happened,
though it was sad, and though the pain endures!

 

I versi sono quasi tutti classiche pentapodie di dieci sillabe, ma il dettato procede sciolto, colloquiale. Galassi cerca un effetto di immediatezza a scapito della correttezza, come se il testo fosse un cri de coeur. Così in un inglese più sorvegliato non si direbbe “thanks to the tears” (grazie alle lacrime) per “(tremulo) dal pianto”. “E pur mi giova” penso che non significhi tanto “mi aiuta” quanto “mi piace”, e tradurre “la ricordanza” con il volutamente poco elegante infinito “thinking back” conferma che Galassi è un allievo del principale autore della Farrar, appunto Robert  Lowell, che però nelle sue deformazioni leopardiane faceva parlare il recanatese come un vero esistenzialista degli anni 1950. Il primo verso poi, “O graziosa luna, io mi rammento”, tutto giocato sui due emistichi contrapposti, sarebbe forse stato più evocativo in inglese senza l’enjambement, cioè quel “now” enfatico, aggiunta necessaria per chiudere la pentapodia. Insomma, Galassi ci dà un Leopardi moderno, newyorchese neoclassico, che pone delle domande sulla lettura e traduzione, e che per essere apprezzato andrà pur sempre letto accanto all’originale.

Il Secolo XIX”, 21 dicembre 2010