Massimo Bacigalupo
F. R. Leavis e l’intelligenza morale
Per chi vuole orientarsi nel mare magnum della letteratura di lingua inglese F.R. Leavis costituisce tuttora una guida fondamentale. Infatti il “Dottor Leavis” dedicò la vita all’insegnamento ed era dunque consapevole della necessità di scegliere e guidare, di distinguere la storia letteraria dove c’è posto per tutti, e tutto è egualmente degno di studio, dalla critica, che dato anche lo scarso tempo a disposizione per gli studi (e per la vita) deve saper indicare i punti salienti. Da ciò la chiarezza provocatoria delle affermazioni di Leavis. Uno dei suoi libri più influenti, La grande tradizione (1948), si apre così: “I grandi romanzieri inglesi sono Jane Austen, George Eliot, Henry James e Joseph Conrad – fermandoci per ora a un punto della storia relativamente sicuro”. Il resto del libro è una disamina dei capolavori (sempre secondo Leavis) della Eliot, di James e di Conrad, e nessuno l’ha letto senza ricavarne un nuovo senso entusiasmante della grandezza di visione di questi scrittori.
Ma qual è il metro di giudizio che consente a Leavis di scegliere solo quattro nomi in tutto una letteratura e cultura del romanzo? Spiega: “Ben pochi nomi delle storie letterarie appartengono davvero al campo del significativo risultato creativo. Per richiamare a un vero senso delle differenze è bene cominciare distinguendo i pochi veramente grandi: i romanzieri maggiori che contano allo stesso modo dei poeti maggiori, nel senso che essi non solo mutano le possibilità dell’arte per praticanti e lettori, ma che sono significativi in termini della consapevolezza umana che promuovono: consapevolezza delle possibilità della vita”.
Dunque il criterio di giudizio è insieme una creatività formale e un impegno conoscitivo che va ben al di là della raffinatezza estetica. Leavis amava citare il detto di Eliot: “La sensibilità muta di generazione in generazione lo si voglia o no; ma l’espressione è mutata solo dal genio”. Ma soprattutto i grandi di Leavis hanno in comune “un interesse nella vita insolitamente sviluppato, portato a un’intensa messa a fuoco”. Essi, aggiunge, “lungi dall’avere il disgusto o disdegno o noia di un Flaubert, sono tutti caratterizzati da una capacità vitale d’esperienza, una sorta di reverente apertura davanti alla vita, e una notevole intensità morale”.
Il nodo dunque è quello di arte e moralità. I maestri di Leavis scrutano le profondità dei dilemmi umani, la continua necessità di scegliere, e distinguono implicitamente rettitudine e falsità, vedono in realtà la vita come un fatto preminentemente morale, quasi religioso. E in ultimo alla stessa vita e alla sua ricchezza innalzano il monumento della loro opera. Quanto questo sia vero, specialmente del cupo Conrad, non è certo, ma è questo che Leavis argomenta nel suo libro appassionante. Che ha il merito indubbio di mettere in luce valori letterari e umani indiscussi, naturalmente senza confondere predicazione e visione.
Nulla in effetti nella letteratura moderna è più sottile di Austen, Eliot, James e Conrad, per cui più che di moralità pura e semplice dovremmo parlare di “intelligenza morale”. Sono scrittori che riescono a restituire la complessità ma che hanno ben chiara la rotta, per cui esercitano una funzione di educazione alla vita nella maniera migliore, immergendoci in essa, sfidandoci con le loro rappresentazioni.
Questo principio rigoroso di selezione Leavis lo estende anche all’opera degli scrittori che ammira, in particolare per James ritiene fondamentali Gli europei, Gente di Boston, Washington Square e soprattutto Ritratto di signora, mentre dissente dagli ammiratori della fase ultima, giudicando ad esempio Gli ambasciatori una novella gonfiata spropositatamente. E la nostra esperienza di lettori spesso gli dà ragione. Fra le opere di James solo Ritratto di signora ci consente di vedere oltre, di gettare uno sguardo sulle cose ultime. E’ il vertice della narrativa inglese?
Leavis, che in fondo in quanto critico-educatore difendeva modernamente i valori vittoriani, fu importante non solo come battistrada in campi inesplorati (fondamentali i suoi due libri sulla poesia) ma anche nel reagire con fermezza alle mode, come quella appunto dell’ultimo James. Vivendo nell’ambiente letterario, gli pareva essenziale non cedere alla chiacchiera dei bene informati, al giornalismo letterario del Times Literary Supplement, barometro infallibile delle reputazioni. Il giornalismo era per lui uno dei nemici principali del lettore e dello studente, indirizzandolo su testi di dubbia importanza, con il rischio di fargli perdere di vista appunto le opere imprescindibili. (Formidabili le sue stroncature di critici alla moda che ad esempio dissentivano dalla sua quasi venerazione per D. H. Lawrence.)
La letteratura insomma, secondo Leavis, è un campo minato, dove mille stimoli accademici sociali e commerciali disorientano il giudizio. Missione dell’insegnante è non far leggere agli studenti gli autori minori su cui esercita la sua erudizione o i suoi hobby, ma quegli scrittori senza i quali la sua vita sarebbe più povera, quelli che sono la misura degli altri.
Il ribelle Leavis intervenne spesso sull’istituzione universitaria, lamentandone già negli anni ’50 la trasformazione in azienda. E nell’università ebbe vita abbastanza difficile, non divenendo mai “professore” (ma va ricordato che tuttora a Oxford e Cambridge c’è un solo “professore” di inglese, gli altri docenti sono tutti “Mr.” o “Dr.”). Comunque, egli ben se lo sarebbe meritato, essendo divenuto la personalità critica più autorevole e temuta del suo tempo. Con il collega I.A. Richards e l’allievo William Empson costituì la cosiddetta Scuola di Cambridge, ma sicuramente Leavis è il critico più attuale dei tre, poiché Richards si disperde nello scientismo e Empson nell’esibizionismo interpretativo (il notorio e illeggibile Sette tipi di ambiguità). Leavis è calato nella società e interpreta in maniera coinvolgente scrittori che non si smetterà mai di leggere, ci spiega anche perché leggerli, e perché leggere.
“Il manifesto-Alias”, 4
agosto 2007
F. R. Leavis (1895-1978) è un protagonista
della critica inglese, docente amato e isolato a Cambridge, critico temuto e
irriso, idolatrato dai suoi seguaci. Con la moglie Queenie fondò e diresse per
vent’anni “Scrutiny”, rivista di critica
militante anti-bellettristica. La letteratura per Leavis non era una sinecura
come per il bel mondo accademico e sociale inglese ma un campo decisivo
dell’azione e conoscenza umana, perciò non vi era spazio per aneddoti e mode.
Si trattava di definire il meglio della tradizione e del moderno e di
argomentare le proprie scelte. Così nell’ambito della poesia Leavis fu il
principale fautore di T.S. Eliot, mentre identificò rigorosamente una “grande
tradizione” del romanzo inglese il cui più vero erede non sarebbe James Joyce,
pietra tombale di un’epoca, ma il più propositivo e vitalistico D.H. Lawrence.
Leavis rimane un critico indispensabile, che a ogni pagina provoca il lettore a
prendere partito, a leggere con e contro lui.