Massimo Bacigalupo
lettera dal Kuwait
La Fondazione Al-Babtain organizza da anni premi di poesia, convegni e pubblicazioni in Kuwait e altrove. A fine ottobre si è tenuto un incontro internazionale in occasione della presentazione dell’ultimo parto della Fondazione, un’Enciclopedia dei poeti arabi nei secoli XIX e XX, redatta in molti volumi da studiosi di tutta l’area arabofona. Infatti Abdulaziz Saud Al-Babtain, il creatore della Fondazione, ha anche finanziato la splendida “Biblioteca Al-Babtain per la Poesia Araba”, in pieno centro di Kuwait, vicino alla Grande Moschea e al palazzo dell’emiro. E’ qui che si sono svolti gli incontri, in parte celebrativi della cultura araba e della nuova enciclopedia, in parte intitolati al “Dialogo fra Civiltà e Religioni”. Si tratta evidentemente di iniziative meritevoli che creano contatti fra intellettuali e studiosi del mondo islamico e occidentale, in un momento di progressiva apertura culturale dei Paesi del Golfo. L’“Arab Times”, giornale kuwaitiano di lingua inglese, è di buona qualità, e di linea liberale o equidistante, critico nei confronti di Guantanamo come dei fondamentalismi sauditi (il dottore egiziano condannato a 15 anni di fustigazioni settimanali per aver reso eroinomane – è l’accusa – una principessina). Gli edifici pubblici kuwaitiani sono protetti da sbarramenti anticarro, per timore di attentati terroristici, ma l’atmosfera è rilassata, amichevole, non poliziesca, e uno può gironzolare piacevolmente nei vecchi quartieri sopravvissuti fra i grattacieli o lungo il mare in cui volendo ci si può anche tuffare (ma al mercato del pesce sono esposti piccoli squali). Una vecchia piazza davanti a una moschea con i tavolini del bar-ristorante, in alto dei grandi ventilatori all’aperto per la stagione più calda. Come dappertutto in medio oriente, il tè forte e buono arriva in un bicchierino di vetro con zollette di zucchero.
Ma torniamo al convegno. Uno dei consulenti della Fondazione, l’anglista giordano Mohammed Shaheen, parla delle sue traduzioni inglesi di Mahmoud Darwish, il grande poeta palestinese scomparso lo scorso agosto, ben noto anche in Italia. Joseph Maila, libanese residente a Parigi, consulente di varie organizzazioni internazionali per il dialogo, discute di identità e resistenza all’omologazione, rivelandosi fiducioso in un processo di democratizzazione dall’interno del mondo arabo, che egli si attende soprattutto dalle donne e associazioni femminili, le minoranze religiose e etniche e le associazioni per i diritti dell’uomo. Più provocatorio, Jamil Jreisat, docente di Pubblica Amministrazione in Florida, sostiene che la discussione sulla globalizzazione è ormai oziosa perché piaccia o no tutti la viviamo quotidianamente (e infatti la borsa kuwaitiana ha subito un tracollo proprio nei giorni del Convegno), e che i paesi arabi dovrebbero rivelare un minimo di volontà di collaborare: se gli europei con le loro lingue e culture diverse sono riusciti a darsi un organo politico e amministrativo comune, i Paesi arabi che condividono lingua e tradizioni dovrebbero almeno fare altrettanto. Ma gli interventi sono sempre molto brevi, e il discorso infiammato e realistico di Jreisat viene forzatamente scorciato. L’ora della preghiera incombe e non si può sforare. Il che del resto, date le lungaggini tipiche dei convegni, non è un male. Poi tutti si soffermano nell’atrio a prendere il caffè arabo, servito in tazzine di vetro, pallido e amarognolo, da lucidi boccali dal lungo becco. C’è Yury Tavrovsky, direttore del mensile moscovita “Diplomat”, che confessa gioviale di essere stato un apparatchik del vecchio partito: parliamo della religiosità che oggi sembra così diffusa in Russia e colpisce il visitatore delle chiese sempre affollatissime. Tavrovsky, ebreo laico, sostiene che è spesso una facciata, anche se io sospetto che se può essere così per il ceto medio, il popolo sembra particolarmente devoto, come sa chi ha visto le celebrazioni pasquali. C’è una giovane giornalista egiziana dai copricapi fantasiosi, ma pur sempre copricapi, che lavora per il principale organo letterario del Paese e chiede ai partecipanti una sintesi dei loro interventi. C’è Abd Alhah Al-Uthaimin, saudita, consulente del Premio Internazionale di Re Faisal, ambitissimo: s’è laureato a Edimburgo, è un uomo affabile con tutta la saggezza e furbizia dell’Arabia: accenna i retroscena della Guerra del Kuwait, dove Saddam ha fatto il gioco dell’Occidente. Ci sono anche dei preti cattolici siriani e libanesi, che ovviamente parlano italiano, e rievocano incontri con disinvolti e abilissimi monsignori. Una poetessa palestinese, che ha vinto il premio di poesia con una lirica sul profumo dei fiori che le richiama nell’esilio la casa natale...
Nella giornata successiva la prima sessione è coordinata da una professoressa dell’Università del Kuwait evidentemente laica nell’abito, interessata (mi dice) al romanzo sul tema della prigionia. Le consiglio Se questo è un uomo. L’argomento della mattinata è “Come risolvere i conflitti: le basi per favorire il dialogo”. Abdullah Al-Jasmi, professore kuwaitiano di filosofia, propone una prospettiva teorica sulla comunicazione. Io parlo dell’immigrazione come si presenta in Europa e degli strumenti che l’Università può offrire con corsi interculturali per formare operatori sociali e insegnanti. Anche della presenza crescente di studenti stranieri, in particolare cinesi, e delle prospettive comunicative che questo comporta. Poi di esempi di dialogo fra Islam e Occidente passati e presenti, dalla società araboandalusa all’Averroè di Dante, al connubio ideale Fitzgerald-Khayyam narrato da Borges... Uno studioso inglese di letteratura novecentesca, Patrick Parrinder, autore fra l’altro di un libro su James Joyce, cerca esempi di dialogo in due romanzi classici nel loro genere, Passaggio all’India di E.M. Forster e La mano sinistra dell’oscurità di Ursula Le Guin, dove si tratta di dialogare con un abitante di un altro pianeta. Parrinder interroga il concetto di “cultura” in opposizione a “civiltà”, ricordando la vieta formula di Huntington del “conflitto di civiltà” e la puntuale contestazione di Edward Said. Parrinder non rinuncia per questo al concetto di “civiltà”: “Un ‘dialogo fra civiltà’ è un confluire di varie civiltà, anzi presuppone tale confluenza. Nella nostra moderna civiltà globale, dove tutti abbiamo tanto in comune, sostenere ad esempio che le differenze di religione costituiscano una separazione fra civiltà è un esercizio di mistificazione e nostalgia. La differenza è culturale, non di civiltà”. Si apre il dibattito. Una ascoltatrice rigorosamente in nero obietta: il Corano è la parola di Dio, che bisogno c’è di dialogo? Dall’altra parte qualcuno fa presente che l’Occidente ha a sua volta chiuso le orecchie al dialogo in Iraq...
Ho convinto il laico Parrinder a accompagnarmi in una piccola moschea, dove un fedele ci ha accolti amichevolmente, tenendoci un discorso sul tradimento dell’Islam da parte dei disonesti e violenti che gli danno una cattiva fama all’estero e ha insistito perché andassimo a visitarlo: in ogni casa c’è una stanza in cui gli uomini siedono, mangiano e discutono... E le donne? Ah, le donne, quelle sono per i bambini... Intanto rientrando in albergo trovo un grande movimento. Ci sono, mi dicono, due banchetti nuziali, ma solo per le donne, servite da donne. Gli uomini cenano altrove. A mezzanotte lo sposo, accompagnato da pochi fidati, si presenterà, le donne copriranno tutte di nero i loro vestiti sgargianti e costosi, la sposa sarà consegnata...
“Il Manifesto-Alias”, 22
novembre 2008