Massimo Bacigalupo
una Molly più serva
Enrico Terrinoni ci regala il piacere di rileggere Joyce e di
stupire della fatica di tradurre 267.000 parole (Guerra e pace pare ne abbia 564.000 – ma forse presenta meno
problemi): Ulisse, traduzione di Enrico Terrinoni
con Carlo Bigazzi (“I Mammut” Newton Compton, pp.
852, € 9,90).
Come
ben si sa, di Ulysses
esiste una versione classica di Giulio De Angelis, che ha retto
sorprendentemente bene al suo mezzo secolo di vita. De Angelis scrive un
italiano idiomatico quasi sempre efficace e quasi sempre aderente al testo. C’è
qualche svista anche dovuta alle riedizioni e qualche toscanismo di troppo. Ma
le consulenze di cui si valse, i vari Cambon, Izzo e Melchiori, non furono vane. Se qualcuno avesse la pazienza
di rileggerla ed emendarla di refusi e occasionali improprietà avremmo quanto
di più vicino a un Ulisse italiano si
possa desiderare.
Un
esempio: quando Molly Bloom all’inizio del celebre monologo si scaglia contro
una bacchettona che a suo dire le insidiava il marito, la accusa di essere
“contro i costumi da bagno e le scollature che nessuno avrebbe voluto vedere
addosso a lei si capisce ... miracolo che non voleva ci si coprisse la faccia”.
Così nell’elegante edizione Medusa Mondadori del 1960. Nella riedizione
“corretta” del 1988 leggiamo invece: “miracolo che non voleva ci si scoprisse la faccia”, così ovviamente
privando la frase di senso.
E Terrinoni, 2012, quando l’Ulisse finalmente esce di diritti e ognuno può provarsi a
pubblicarlo nell’originale e altre lingue (ovviamente ci vorrebbe il testo a
fronte!), come se la cava? “...niente costumi da bagno e scollature chiaro a
lei chi ce la vorrebbe vedere... miracolo se non cià
chiesto di tenere coperta pure la faccia”.
Sembra
abbia voluto dare a Molly un tono più colloquiale e frammentario, a parte la
scelta stravagante di scrivere “cià” per “ci ha”.
E l’inglese, anno 1922? Eccolo: “down
on bathingsuits and lownecks
of course nobody wanted her to wear... a wonder she didnt
want us to cover our faces”.
De
Angelis è più vicino all’originale. “To be down on” vuol dire “essere contro”, e non “Niente...”,
cioè in 1960 e 1922 c’è più logica e sintassi che in 2012. Nell’inglese è implicito
il pronome “that” dopo “lownecks”,
il che è perfettamente grammaticale, laddove 2012 introduce un anacoluto
“chiaro a lei chi ce la vorrebbe vedere”. Una Molly più serva. 2012: “di tenere
coperta pure la faccia”. Il
rafforzativo non c’è in 1922 e in 1960, ma è un peccato veniale che va nella
direzione dell’oralità.
Quanto
agli apostrofi il discorso è più delicato. E’ vero che Molly dice/scrive “didnt” anziché “didn’t”, ma si
tratta di un forma ortografica non insolita nella corrispondenza o in certi
periodi (Cormac McCarthy la usa abitualmente), dunque
non presenta ostacoli alla lettura e decifrazione. Invece “cià”
è un ircocervo che ci ricorda gli scapigliati ed è difficile da difendere.
Tutto il monologo di Molly, caratterizzato dall’assenza di punteggiatura, gioca
col lettore che deve segmentare le frasi mentre le compita creando un senso di
sospensione divertita e commossa. Porre altri ostacoli alla lettura è
rischioso. Le forme “à” e “ò” per “ha” e “ho” sono ipercorrette. E se Molly non usa (pensa) gli apostrofi perché
dovrebbe essere così brava con gli accenti? Già ai tempi di Joyce qualche
goliardo e sperimentalista scriveva “I” (io) con la minuscola, ma Joyce si è
ben guardato dal riempire il suo grande Liebestod (o Liebesleben) di fastidiosi “i”.
Analogamente,
la convenzione tipografica inglese esige che la “oh” esclamativa sia sempre
scritta maiuscola (O) anche all’interno di frase. Spesso i traduttori pensano
che si tratti di una scelta dell’autore e traducono come fa Terrinoni:
“e O quel torrente profondo e spaventoso O e il mare il mare cremisi a volte
come il fuoco” (1960: “e Oh quel pauroso torrente laggiù in fondo Oh e il mare
il mare qualche volta cremisi come il fuoco”; 1922: “and O that
awful deepdown torrent O and the sea the sea crimson sometimes
like fire”). Forse “laggiù
in fondo” è più efficace di “profondo” perché Molly sta descrivendo una vista
dall’alto, e il neologismo “deepdown” dà il senso di
uno sguardo tremendo e sublime come tutto questo grandioso finale. Può essere
che ci sia una buona ragione per conservare queste O macroscopiche, magari come
simbolo della vagina che forse è l’organo che parla in questo capitolo, ma io
voterei per la minuscola. (Anche perché si
tratta appunto di un calco comune.) Ben più vistoso il problema degli
“ò”e “à”. Ma vista l’età relativamente giovane di Terrinoni
e la facilità con cui oggi si interviene su un testo in ristampa, la nuova
traduzione del capolavoro potrà facilmente essere perfezionata nella lunga vita
che le auguriamo.
Un suo
merito cospicuo è inoltre la presenza di un apparato ampio ma non ipertrofico. Terrinoni ha scritto un’ottima introduzione e ha apposto in
conclusione annotazioni a ogni capitolo (oltre cento pagine). Non so perché
qualche recensore ha scritto che questa edizione libera Ulisse dalle incrostazioni degli esegeti. E’ vero il contrario, nel
senso che l’edizione mondadoriana presenta il testo
nudo come lo voleva Joyce (salvo l’aggiunta nella ristampa 1988 di premesse
superflue alla discutibile edizione “corretta” su cui Terrinoni
fornisce interessanti chiarimenti), mentre 2012 offre un apparato ingente che però
si mantiene nei limiti della funzionalità. In un certo senso in effetti è più
divertente chiosare un testo da soli, ma è già un bene che le note in 2012 si
trovino in fondo e non a pie’ di pagina (sempre un
modo di infilare il commentatore nel testo, cioè dove non c’entra).
Comunque
i misteri dell’Ulisse restano tanti.
Sulla prima pagina il falstaffiano (Terrinoni) Buck Mulligan manda un fischio
dalla Torre Martello. “Due fischi robusti e striduli gli risposero nella calma”
(1960: “In risposta due fischi acuti attraversarono la quiete”. 1922: “Two strong shrill whistles answered in the calm”.) “Quiete”
è forse meglio di “calma” ma 2012 non omette di tradurre “strong”. (E
l’allitterazione delle s in 1922 torna in 2012.) Da dove vengano questi due
fischi Joyce non ce lo dice, e nemmeno la chiosa. Se la sbrighi il lettore.
E oltre
ai misteri restano i piaceri di questo godibilissimo romanzo enciclopedico, il
cui argomento (caso mai ce ne dimenticassimo) è cosa significa essere umani. (“alfabeta2/alfalibri”, marzo 2012)