Massimo Bacigalupo
Henry James in Italia
Le Ore italiane di Henry James,
raccolta di scritti di viaggio composti fra 1872 e 1909, sono facilmente
reperibili nella traduzione italiana di Claudio Salone con prefazione di
Attilio Brilli (Garzanti). Per i curiosi della prosa di James, così intensa e
intricata da far addirittura dubitare della possibilità di tradurla (e capirla),
il testo originale, Italian Hours, si
può scaricare facilmente da diversi siti. Henry James è uno scrittore senza
vuoti, animato si direbbe dall’horror vacui. Ecco centinaia di pagine senza
esitazioni, un flusso ininterrotto di
impressioni, divagazioni, riprese, ritorni, incontri... La posizione è
quella sovranamente al corrente di chi sa tutto, si schermisce per essere
l’ultimo di una infinita schiera di visitatori, eppure guarda per ultimo con
instancabile partecipazione, su un filo virtuosistico che sta fra la commozione
e l’(auto)ironia. “Troppa grazia, padrone”, come diceva quel tale. Siamo in
effetti in un mondo rarefatto, qualcuno potrebbe dire snobistico. Sbaglierebbe
perché James da bravo americano non ha pregiudizi né affetta superiorità.
Depreca le “orde” (nel 1880!) di turisti specie germanici, approfitta
delle ore dei pasti per imbucarsi in San
Marco o del crepuscolo per godersi in solitudine Pompei, e condivide con colti ma democratici lettori connazionali
certi suoi segreti.
Ideale per godere della Campagna romana o della gondola personale è la compagnia
adatta, una compagnia particolarmente acuta e partecipe, dunque preferibilmente
femminile. I loro scambi cortesi e arcanamente sensibili ai sensi più riposti
di parole e intrecci di cose viste e cose pensate saranno come gli scambi di
cui sono ricche le pagine di racconti e romanzi: si pensi alla Londra di The Altar of the Dead e alla New York di
The Jolly Corner – riproposto
con testo a fronte da Marsilio col
titolo L’angolo bello – dove il
protagonista ha sempre una confidente dei suoi pensieri più segreti che
permette all’esile trama di progredire.
Ma non esageriamo. Cacciatore di storie e impressioni, Henry James ha anche
la facoltà di stringere parole e cose che contano e rappresentano sia una vita
e un mondo tutto particolare ambientato nella Belle Epoque, sia una posizione
sull’Italia, un reportage non dall’altroieri ma dall’altrosecolo. La
contemporaneità è già arrivata con la riduzione della realtà a parola e
coscienza (Descrizione senza luogo è
il titolo di una poesia del 1945 di Wallace Stevens), poi ci sarà il baratro
mortale del 1914, a cui James non sopravvivrà (morì nel 1916, settantaduenne).
Ma chi lo seguirà inserirà le aporie nella tela di ragno sovrana da lui
disegnata, nello spazio da lui creato.
E l’Italia? Ore italiane si apre
a Venezia, cui sono dedicate le prime 80 pagine, prosegue con una visita degli
anni 1870 al nord Italia (uno dei temi è il mutare del volto del Paese e poi di
Roma dopo l’Unità), quindi si sofferma a Roma e dintorni per un centinaio di
pagine, poi ancora Siena, L’autunno a
Firenze (1873), altre città toscane, Ravenna (1873), per concludere con
l’abbagliante Capri visitata e rievocata fra 1900 e 1909.
Ecco il nostro scrutatore alla Grotta azzurra: “C’era solo, sopra e sotto,
attraverso il blu dell’aria e del mare, un grande confuso brillare di scogliere
e crinali e bastioni brucianti, una perdita per la vicinanza della splendida
sagoma coricata e della massa più generale e un’opportunità – niente affatto
perduta, vi assicuro – di sedere e meditare, persino moralizzare, sulla tolda
deserta, mentre una felice confraternita di turisti americani e tedeschi,
comprendente è ovvio molte consorelle, si calava nelle tinozze dondolanti in
attesa e, con alcuni colpi di remi, si infilava sistematicamente nel piccolo
orifizio della Grotta azzurra. C’era un momento apprezzabile in cui erano tutti
persi alla vista in quel ricettacolo, il momento ‘psicologico’ quotidiano in
cui deve tanto spesso avvenire all’osservatore recalcitrante sulla tolda
deserta di sentirsi consapevole di quanto sarebbe piacevole se nessuno di loro uscisse
di nuovo. Lo charme, il fascino di quest’idea sta non poco (anche se non tutto)
nel fatto che, quando l’onda si alza sopra l’apertura, c’è la più incoraggiante
apparenza che è perfettamente possibile che ciò avvenga. Ecco fatto. Non ci
sono più. E’ una faccenda a cui la natura, con un colpo precisissimo e con il
miglior gusto del mondo, ha tranquillamente
provveduto”.
Il tono di James è sempre
conversevole, supercivilizzato, e anche (a essere maligni) un po’ zitellesco,
come di una vecchia dama che continua imperterrita a vivere nel suo mondo
arzigogolato. Ma c’è il piccolo particolare che James è uno zitellone genio,
per cui le frasi si lasciano centellinare per la loro perfezione tornita. E poi
James non è solo l’esteta, è un puritano dall’acutissima sensibilità morale.
Giudica, non si abbandona, o riesce a far le due cose insieme, sempre col buon
gusto supremo di trattare queste sue pagine come delle noterelle svagate. Per
cui non c’è miglior libro in cui perdersi che Ore italiane, per cominciare a respirare, anche se è un respiro di
secoli addietro. Ancora ci dà energia, come alcune delle pitture che entusiasmano
James.
In un brano del 1909 ricorda la
visita a Monte Oliveto presso Siena, monastero deserto in seguito
all’espropriazione dei beni ecclesiastici, mantenuto da un unico civile e
tragico abate (di cui molti serbano il ricordo, vedi Il viaggio in Italia, 2006, di Attilio Brilli). C’è “il freddo
eterno dell’enorme interno monastico in cui sorridendo digiunammo” (James
ricorda addirittura di aver avuto la presenza di spirito di portare con sé uno
spuntino, altrimenti a Monte Oliveto non avrebbe trovato di che sfamarsi). Ma
poi gli tornano in mente “quegli affreschi straordinariamente forti ed
espressivi di Luca Signorelli e del Sodoma”: “Ricordo la frigida scorribanda
attraverso tutto il resto della nudità, inclusa quella della grande chiesa
disonorata e anche quella della testimonianza abissalmente rassegnata
dell’Abate sulla sua situazione umana e personale; e poi, con una tale forza di
contrasto e senso di sollievo, i grandi protetti bagliori solari e spruzzi di
colore di composizioni e impianti scenici dove un paio di mani ridotte in
polvere secoli or sono avevano così modellato il miracolo orgoglioso della vita
e della bellezza che l’effetto è come di un giardino che fiorisce fra le rovine”.
Analogamente James ha saputo registrare con tranquilla sicurezza di tratto
quanto ha visto nei lunghi anni di frequentazioni italiane, e anche trasmettere
sulla pagina il tono della sua voce. Si sa che negli ultimi anni egli era
solito dettare i suoi lavori a una stenografa. Si vede che le frasi gli
uscivano perfette, una legata all’altra da riprese di metafore e clausole. Non
si fermava mai (“an endless sentence” la chiamava Pound, che lo udì parlare,
nel settimo dei Cantos). La mano e la
lingua ridotta in polvere da quasi un secolo (1916) continua a parlare a chi
naturalmente si siede nel circolo magico e privilegiato degli ascoltatori.
Parla di impressioni curiose e rivelazioni, e sarà naturalmente in alcune
pagine dei romanzi che toccherà vette che nell’arte della narrativa non hanno
nulla da invidiare agli impianti scenici e alla visione morale dei più grandi
artisti.
La frase che segue a quella citata sopra e conclude il capitolo non è delle
più facili, ma le ultime due righe presentano una serie incantata di ulteriori
definizioni degli affreschi (James, che non venne mai a patti con la sua
omosessualità ed era schifato da Oscar Wilde, è pur sempre segretamente
attratto dal soprannome Sodoma). Mentre l’antica pietà, lo spirito e
l’intenzione degli affreschi sono “in un certo senso appannate”, tuttavia
rimane “still bright and assured and
sublime – practically, enviably immortal – the other, the still subtler, the
all aesthetic good faith”. Strana parola in minore, questa “buona fede”, su
cui concludere una serie così esaltata, dove spicca quell’immortal, anch’esso preceduto da avverbi che precisano e risuonano
musicalmente: “practically, enviably
immortal”.
James è da godere in questi dettagli, in queste dinamiche che dicono ma mai
esagerano, se non per un vezzo che è subito presentato come tale. E’ il caso,
nel brano finale su Capri e Napoli, dei periodi che un James in vena di
prosopopee dedica al “nostro ultimo e più brutto e più mostruoso ausilio al
moto”, cioè... l’automobile (all’altezza del 1909: scendendo da Roma a Napoli
per le vallate meravigliose e risalendo lungo la costa). “E’ vero di codesto
mostro, come l’abbiamo sin qui conosciuto, che non si può né lodarlo né criticarlo
senza arrossire: tanto riflette la compagnia che deve tenere” (questa non la
capisco). “La sua splendida agile potenza indirizzata a fini nobili ne fanno di
sicuro in talune occasioni una creatura puramente benefica...”
Continuiamo in questo brano tutto da ridere, ma non solo, saltando una
quindicina di righe: “La curiosità ha perduto, in seguito a questa estensione
sorprendente, forse le sue salutari rinunce; la contemplazione è diventata
tutt’uno con l’azione, e la soddisfazione tutt’uno con il desiderio – sempre
parlando nello spirito dell’amante sconsiderato di un uso illuminato dei nostri
occhi...”
Molto rumore per nulla, ma anche questo spettacolo del vecchio James che
parte per uno dei suoi voli iperbolici è spassoso per quei complici che dopo
tutto sono i lettori che entrano nella cerchia del vecchio maestro un po’ tocco
ma sempre probabilmente consapevole e autoironico. Del resto basta girare
pagina per sentire James dettare una delle sue barocche o edoardiane
celebrazioni delle ore italiane.
Ancora un sforzo (ne vale la pena): “Tuttavia, sto divagando pazzamente, cioè
guardo troppo in avanti; la mia intenzione era solo lasciare che il mio senso
della spietata bellezza di giugno del Golfo di Napoli all’ora del tramonto e
sulla terrazza dell’isola si associasse con tutto il gusto inesprimibile del
banchetto scenografico dei nostri due giorni motorizzati. La curiosa questione
della squisita maniera grande come la più enfatica totalità delle cose: di cosa essa possa, espressa con tanta
predominanza in natura, insidiosamente, nei secoli, apparecchiare a generazioni
e popolazioni, non aveva aspettato quella speciale enfasi che ho detto per
farmisi presente”.
Chi ha capito alzi la mano... James qui riprende un pensiero di alcune pagine
addietro, su cosa può avvenire all’uomo sociale e politico, cioè agli italiani,
in un luogo così sfacciatamente dominato dal bello naturale e artistico.
Purtroppo vediamo quotidianamente i disastri di questo paradosso.
Continua e culmina James: “Devo averci riflettuto più o meno consciamente
lungo il percorso. Poiché come non poteva essere un’essenziale verità,
costantemente e intensamente davanti a noi, che l’Italia è davvero in tal
misura il più bel paese del mondo, prendendo tutte le cose insieme, che gli
altri devono restare in disparte e in silenzio quando lei parla? Vista così in
grandi spazi onnicomprensivi e iridescenti, è l’incomparabile intrecciata fusione, fusione di storia umana e
passione mortale con gli elementi di terra e aria, di colore, composizione e
forma, che costituisce la sua attrazione e le dà la suprema grazia eroica...”.
Cose viste e pensate si intrecciano in questo modo nel soliloquio o quasi stream of consciousness jamesiano, che è
soprattutto un flusso di parole. Parole che ci giungono da un salotto
edoardiano e che invitano e incantano e in fondo appagano come una delle
registrazioni più compiute di una sensibilità e di una posizione esistenziale e
artistica che possediamo. Resta il mistero di come il solitario viaggiatore
James, che parla di settimane per le viuzze di Siena, di intere stagioni
trascorse a Roma, Firenze e Venezia, potesse anche essere l’autore di un’intera
biblioteca di romanzi e racconti formidabili, fra i quali almeno un capolavoro
assoluto, Ritratto di signora,
scritto appunto per buona parte in Italia. Infatti James è un viaggiatore
operoso, che prima di sedersi al Caffè Florian in Piazza San Marco o
passeggiare alle Cascine ha composto decine di pagine, scritto lettere, corretto
bozze (molte e incessanti le revisioni dei testi usciti in rivista, poi in
volume, poi ristampati a distanza di decenni in edizioni uniformi).
L’età dell’agio, sembrerebbe, dove il tempo non mancava, perché poi in
James mai un senso di fretta, di non aver tempo. Anzi, si prende tutto il tempo
del mondo e come una volta confessò il minimo frammento di storia (per lui
“cacciatore inveterato di storie”) diveniva voluminoso. Perché c’è la storia,
come diceva, e la storia della storia, quella che di solito racconta, cioè come
la storia viene rifratta in tutti i partecipanti chiamati al banchetto
dell’esistenza. E poi ci vogliono le parole, che a loro volta hanno i loro
ritmi, parentesi, ramificazioni.
Tutto per nulla? No, perché come si diceva c’è sempre il fondo di una
visione anche austera delle scelte fondamentali (non edonistiche pur in tanto
tripudio di impressioni). Il fratello
psicologo William, quando riceveva e leggeva controvoglia i romanzi di Henry,
gli scriveva che non capiva perché perdesse tempo dietro a tali frivolezze e
flatus vocis, chiaramente non sensibile alla tavolozza magistrale del prosatore
e alla sorprendente acutezza del suo sguardo nel profondo dove le cose oscure
si agitano, le grandi domande sulla vita. Henry si proteggeva da questa incomprensione
e dalla crasse materialità della sua epoca di benessere pacioso mimetizzandosi,
circondandosi di un cuscinetto di gomma di parole. Diceva che se persone così
avvertite, con antenne così ipersensibili, come quelle dei suoi racconti, non
esistevano, andavano inventate per l’onore della specie. Da ciò l’effetto di
crescita che le sue pagine, come sempre la grande arte, producono nel lettore.
Anche Proust scriveva che le frasi del Tristano
e Isotta rivelavano nel nostro animo una profondità che non sapevamo di
possedere. Un’esperienza salutare.
E poi curiosamente, contro le perplessità di William sulle barocche
costruzioni di Henry, il cinema ha recentemente dato ragione al romanziere: i
suoi racconti sono avvincenti, tanto da prestarsi alla transcodificazione e in
fondo volgarizzazione e reggere benissimo per un pubblico poco in vena di
sofisticherie. Perfino La coppa d’oro, tardo romanzo che pochi hanno il coraggio di
affrontare, è diventato un film perfettamente riuscito. James, cacciatore inveterato
di storie, sapeva far tesoro dell’esperienza, ma ne aveva tanta che certo
l’ispirazione non gli mancava. Lo dice anche in queste Ore italiane che da grande artista dovunque si volga trova
soggetti. Le pagine su Genova e su una giornata trascorsa fra la Portovenere di
Byron e la Lerici di Shelley sono per chi le conosce un ottimo esempio di
elaborazione felice di una serie di rapide impressioni per il gusto dei lettori
che sono sempre presenti, chiamati a partecipare di tanta dovizia e cordialità.
Anche il capitolo su Casa Alvisi, dedicato alla defunta Mrs. Bronson, una
confidente e ospite che accoglieva i visitatori a Venezia come amichevole
padrona di casa e metteva in scena spettacoli con piccoli veneziani a Casa
Alvisi (dirimpetto alla Salute) prima di trasferirsi nell’Asolo di Browning, dà
tutto il senso di una civiltà di ieri ma anche di oggi.
Ma vediamo come James apre Ore
italiane e le sue impressioni veneziane, con sovrana captatio benevolentiae (nel 1882, un secolo e mezzo fa!): “Non c’è
più nulla da dire sull’argomento. Tutti ci sono stati, e tutti ne hanno
riportato una raccolta di fotografie. C’è tanto poco mistero intorno al Canal Grande
quanto intorno a una nostra via locale, e il nome di San Marco è familiare come
il campanello del postino. Non è
proibito, tuttavia, parlare di cose familiari, e ritengo che, per il vero
amatore di Venezia, Venezia sia sempre in argomento”.
“il manifesto-Alias”, 24
agosto 2014