Massimo Bacigalupo

Isherwood al cinema

Di decennio in decennio Christopher Isherwood, i cui scritti coprono il periodo 1930-60 in Germania, Inghilterra e America, viene fedelmente ristampato dagli editori italiani, giustamente convinti che si tratta di uno scrittore di prim’ordine. Ora tocca ad Adelphi proporci di leggere due romanzi fondamentali, lucidi e sintetici, entrambi scritti dopo la trasferta negli Stati Uniti alla vigilia della guerra. La violetta del Prater (pp. 136, €16,00) nell’ottima traduzione di Giorgio Monicelli (1948), con una Nota estrosa di Giorgio Manganelli (1988), è la storia della realizzazione di un film musicale a Londra, appunto Prater Violet, nel 1933-34, per la regia dell’ebreo austriaco Friedrich Bergmann, personaggio falstaffiano che è il centro vitale dell’opera. Il narratore autobiografico, “Christopher Isherwood”, è convocato per collaborare ai dialoghi e per far da interprete e tramite col regista data la sua conoscenza del tedesco. La violetta del Prater è un libro comico con risvolti drammatici, in quanto Bergmann (basato sul regista Berthold Viertel, col quale Isherwood collaborò al film Little Friend) segue con ansia le notizie di scontri e repressioni naziste che giungono da  Vienna, e abbandonerebbe il set se la moglie non gli scrivesse rassicurandolo. Isherwood, che scrive dopo la guerra, riesce così a dare uno spaccato di come gli eventi in Germania erano percepiti e in parte rimossi dai contemporanei, e non esita a tematizzare anche la propria indifferenza, la cattiva coscienza dell’intellettuale di sinistra, giacché anche ammesso che ci sia una partecipazione emotiva, a poco serve (dice) se uno non è disposto a impegnarsi tutto, fino in fondo. Intanto mentre a Vienna di spara Bergmann con la sua vitalità contraddittoria crea una Vienna da operetta sul set londinese, e qui il romanzo è anche interessante perché ci porta con tratti sintetici nel mondo degli studi inglesi, ci fa conoscere i produttori fatui e i loro lacché, i tecnici e i montatori, ognuno con una sua visione del mondo. Nel cinema contano i tecnici non gli artisti, dice il montatore; si creano forme, strutture, il resto è aria fritta. (“Non venire a seccarmi con le tue sofferenze artistiche, perché non mi interessano”.) Le forme non funzionali vengono eliminate... Non è ciò che vuole fare Hitler con gli ebrei? chiede Christopher.

    Il testo procede senza scansione di capitoli, come un racconto lungo, rivelando nel dialogo (in cui Isherwood è maestro) l’arte della commedia di costume inglese che risale addirittura alla Restaurazione: “Mia moglie dice sempre che sono una maledetto rosso, un vero sovversivo” racconta il produttore con tanto di Rolls Royce e chauffeur: “Non posso sopportare il modo con cui la maggior parte della gente tratta la servitù. Nessuna considerazione... Non potremmo permettercelo, ma io ne tengo tre: due per il giorno e l’altro per la notte...”.

     In questo mondo si  crea un’intesa padre-figlio fra il leonino Bergmann e Christopher, che concordano nel giudizio sui loro datori di lavoro. (“Siamo come due uomini sposati che si incontrano in una casa di tolleranza”.) D’altra parte c’è anche la comica del giovane Christopher che fa il prezioso ma in realtà non vede l’ora di vendere la sua opera alla produzione. Emerge anche che l’industria dei sogni merita che l’artista vi riversi le sue migliori energie. Bergmann spiega al supercilioso Christopher che la vicenda da operetta della Violetta (la venditrice di viole corteggiata da un principe balcanico in incognito) può essere addirittura un’allegoria del rapporto fra l’intellettuale borghese progressista e il popolo. E alla fine tutto sembra funzionare, Bergmann, che stava per essere licenziato, trova la vena migliore, e nelle ultime pagine i due si congedano come stranieri che si sono incontrati e compresi in un universo misterioso, e in alcune belle pagine Christopher si interroga sul senso di tutto ciò, e addirittura sull’amore.

     Isherwood dunque riesce in breve a toccare una vasta gamma di temi -- individuo, storia politica, circostanze sociali, arte e mercato -- e riesce anche a trovare il bandolo della matassa. Nel 1945, quando pubblicava Prater Violet, Isherwood si era convertito a una forma di induismo sotto la guida di un benevolo guru, in parte adombrato nel paterno Bergmann. La cosa notevole è che Isherwood trasformi queste sue nuove convinzioni in un racconto che non ha nulla di edulcorato o predicatorio, ma anzi è tutto spigoloso, problematico e divertente. Forse non colpisce l’immaginazione come Addio a Berlino, la serie di racconti-romanzo sulla Berlino dell’anteguerra che resta l’opera più popolare dello scrittore. Ma Addio a Berlino è una carrellata di personaggi osservati da un narratore autobiografico, un inglese in Germania, e fra i personaggi spicca ovviamente Sally Bowles, l’inglesina che canticchia in un night mantenuta da amanti occasionali. Sally è come Bergmann una figura incontenibile, che Christopher ammira sconcertato. Sicché La violetta del Prater si può legger come un ulteriore racconto dell’Europa sotto l’ombra del nazismo, un poscritto alle pagine berlinesi, ma di esse più sobrio e maturo. Isherwood era sopratutto affascinato dalle persone, nonostante le sue generose passioni politiche, e nei suoi libri ci regala figure che poi sono in parte basati su persone reali, a cominciare dallo stesso sfuggente Christopher.

     La riedizione di Un uomo solo (trad. di Dario Villa, Adelphi 2010, pp. 148, € 16,00) ci offre la possibilità di ritrovare l’arte di Isherwood  a vent’anni di distanza (il romanzo è del 1964) ma con tutta la sua lucidità e umanità intatta. A Single Man è il racconto in terza persona di George, professore universitario inglese in California, cinquantenne, rimasto solo dopo la morte in un incidente del compagno Jim. Ed è la storia di una giornata: lo svegliarsi dal nulla e ritrovarsi George, le comuni incombenze mattutine, le ore al college con studenti e colleghi, la cena avvinazzata con un’amica in cui i due fanno progetti e pensano forse di unire le loro solitudini tornando nell’Inghilterra patria di entrambi, e poi diverse sorprese a tarda notte. Il libro, da cui è stato tratto l’ottimo film omonimo del 2009, è una delle cose migliori di Isherwood, ricchissimo nella sua brevità,.memorabile negli interrogativi che pone, affascinante per il mondo vario che ci fa conoscere. Isherwood è sempre abilissimo nella rappresentazione della commedia sociale, ma è assai più di uno scrittore satirico. Anzi in quest’opera tarda, scritta a sessant’anni, la sua visione sembra essersi ammorbidita, è egli stesso diventato il paterno Bergmann con i suoi studenti, anche se non mancano risentimenti, e George  non esita nemmeno a masturbarsi pensando a un giovane che lo ha titillato. La saggezza (e la pace dei sensi) non sono conquiste stabili. Ma è la tessitura scorrevole del racconto a rivelare un atteggiamento di piena partecipazione al reale. George nonostante i suoi scatti (i vicini sospettosi, gli omofobi in agguato) sta nella vita quasi come il Leopold Bloom dell’Ulisse (altro romanzo di un solo giorno). Si è parlato di Un uomo solo come classico dell’emancipazione gay, ma la tematica omosessuale vi scorre placidamente come gli altri contenuti della coscienza. George, come Christopher, è un inglese che sta bene in America, un mondo lontano in cui spazi e persone sono più distesi, in cui si può  essere di questa terra e insieme guardarla come dalla luna, nella sua stranezza familiare e ammaliante. il Manifesto-Alias”, 19 febbraio 2011