Alberto Cellotto
Wallace Stevens in traduzione italiana.
Intervista a Massimo Bacigalupo
AC: A quando risale il suo primo incontro con la poesia
di Wallace Stevens e in quali tappe principali si articola questa lunga
frequentazione, da poco sfociata nella curatela del recente Meridiano di
Mondadori intitolato Tutte le poesie?
MB: Una ricca antologia tascabile di Stevens mi fu
regalata intorno al 1970 da un giovane poeta americano che passò un periodo a
Rapallo, Nick Piombino, in seguito attivo nell’ambito della “Language School”,
che fa una poesia assai concettuale. In seguito fu importante per me il saggio
di Randall Jarrell che dopo aver protestato davanti all’ultima raccolta di
Stevens, Le aurore d’autunno (1950) si
entusiasmò per La roccia, la sezione di
inediti di Collected Poems (1954),
come poesia di “stile tardo”. Sicché quando Giovanni Raboni mi chiese nel 1984
di curare un volume per la sua collana palermitana Acquario-Guanda e fra varie
mie proposte scelse Stevens, raccolsi in un unico volume, Il mondo come meditazione, tutte le poesie dell’ultimo periodo
1950-55, quello dopo Le aurore,
annotandole e trovando anche molta soddisfazione nell’inventare un linguaggio
appropriato. In seguito questo volume è stato ripreso dalla rinata Guanda, e ne
ho approfittato per riscrivere l’introduzione e l’apparato (quelli della prima
edizione, 1986, non mi convincevano più). Ma la traduzione è cambiata poco
nelle varie edizioni, cosa che con Stevens per me è piuttosto rara.
AC: Veniamo subito al Meridiano e a una
domanda personale, che però riguarda quel "senso di
responsabilità" di un curatore che si appresta a offrire una traduzione
integrale di un corpus poetico: quali sono stati i primi pensieri quando s'è
profilata l'idea di un simile progetto e quali sono stati invece i pensieri a
lavori conclusi?
MB: Nel 1994 avevo pubblicato nei Millenni Einaudi un’antologia
comprendente circa metà dell’opera di Stevens, un bel volumone illustrato di
cui ero piuttosto fiero, ma di cui in fondo poco si parlò dato il carattere un
po’ ingessato della collana. In un incontro a Segrate verso il 2011 suggerii a
Renata Colorni che magari si poteva completare l’opera raccogliendo tutto
Stevens in un Meridiano: un monumento, dissi scherzando, per cui ci saremmo
guadagnati la gratitudine e il ricordo dei posteri. Renata accettò, dopodiché
cominciarono le immani fatiche... Il primo contratto stabiliva come data di
consegna il dicembre 2012, e nell’estate mi misi a tradurre e commentare
diligentemente le poesie escluse dal Millennio. Ma in quello stesso anno
lavoravo a una nuova traduzione per Guanda dei XXX Cantos di Pound, impresa non da poco che uscì a ottobre, e a
una ampia scelta di poesie di Coleridge per la serie “Un secolo di poesia” del
“Corriere della Sera”, che uscì a novembre, e nel 2013 dedicai tempo a un altro
lavoro (la riedizione per Archinto di Fine
al tormento di “H.D.”). Sicché fu soprattutto nel 2013 che cominciai a
correre con le traduzioni nuove, che consegnai dopo varie riletture nel marzo
del 2014. Ma in realtà il duro era ancora da venire. La revisione fu affidata
ad Anna Ravano, ottima conoscitrice di poesia (ma non di Stevens, mi scrisse
subito). Un impaginatore inserì le nuove traduzioni (appunto, circa la metà)
fra quelle riprese dal Millennio, e Anna mi rimandò i file completi con tutte
le sue puntualissime annotazioni, spesso con lunghe citazioni dall’OED (come
quelli del mestiere chiamano il monumentale Oxford
English Dictionary). Scoprii ovviamente che le versione del Millennio 1994
andavano spesso ritoccate, meno quelle del Mondo
come meditazione del 1986, forse più ispirate e anche meno ardue (?). Vedo
che il file delle revisioni di Armonium
(la prima delle raccolte riunite nei Collected
Poems) mi arrivò a settembre del 2014. Un bel ruolino di marcia ne seguì,
visto che il Meridiano è uscito a giugno del 2015, con un po’ di fretta
all’ultimo per arrivare prima dell’estate. C’era poi il problema delle
annotazioni ai testi, che mandavo con i file delle traduzioni riviste e
controllate, cioè come ultimo passo, a loro volta dopo una rilettura da parte
di Anna Ravano. Dopodiché comincia a introdursi nel duetto Francesca Pinchera,
che si occupa della messa in pagina e che a sua volta presenta dubbi e
suggerimenti, non di rado azzeccati. E’ un bel balletto, ma anche defatigante.
Stevens è sempre lì, misterioso, non scalfibile dalle formiche sul monumento...
Stevens diceva che una poesia spiegata è morta, per questo le sue restano
inspiegabili. Ma nutrienti e in qualche modo confortanti. Vivere alcuni anni
con Stevens sulla scrivania è stato bello. E’ così tranquillamente certo di
quello che ha da dire, di quello che importa, eppure non diviene mai ovvio. Mi
ha colpito la segnalazione di Mario Fortunato sull’“Espresso” del 16 luglio.
Fortunato cita per intero la breve ultima poesia di Stevens, Del mero essere, perché, scrive,
“nell’incertezza di questi giorni di incertezza politica e follia terroristica,
pare riassumere la calcinata solitudine delle nostre speranze”. Insospettabile
attualità dell’inattuale Stevens... Poi rileggendo Del mero essere e ripensando al difficile ultimo verso, “The bird’s fire-fangled feathers dangle down”,
mi è venuto in mente di correggerne la traduzione impossibile, cosa che farò se
come spero il Meridiano si ristamperà.
AC: Può ripercorrere a sommi capi la composizione di
questo volume - che ricalca in buona sostanza i Collected Poems - dando alcuni cenni sull'epoca delle traduzioni e
soprattutto sulle linee guida che hanno orientato l'apparato di commento?
MB: Come detto, si tratta di una avventura trentennale,
che però ha avuto un giro di vite dal 2013, sicché il volume nasce unitario.
Nell’estate del 2013 ricordo che ero in un aeroporto a Monaco in attesa del
cambio aereo per Berlino e su un portatile scarsamente efficiente mi industriavo
a rendere versi non lontani dal flatus vocis: “Force is my lot and not pink-clustered / Roma ni Avignon ni Leyden, / And
cold, my element” (Esame dell’eroe in
tempo di guerra).Oppure: “Chome!
clicks the clock, if there be nothing more” (Montrachet-le-jardin). Sono poesie scritte alla fine della II
guerra mondiale. Stevens è sempre serio ma anche fantastico e stranamente
divertito e divertente. Quanto al commento, c’erano già delle annotazioni
estese in Il mondo come meditazione
del 1986, che ho rifuso e reso meno accademiche nella riedizione del 1993. Ho
ormai pratica di commenti. Cerco di scrivere piuttosto pianamente ma suggerire
a volte anche l’emozione che il testo provoca. La mia edizione delle Poesie della Dickinson uscita negli
Oscar ha annotazioni per ogni singolo testo, e anche indicazioni sulla metrica,
materia poco nota trattandosi di inglese ai lettori italiani e non solo, eppure
ovviamente essenziale, purché tutto questo commentare sia fatto con una certa
sprezzatura non troppo indegna dello spirito dei testi scrutati. Sono anche per
certi versi lontani, e le note chiariscono se possono il contesto, il tono
(così importante): nella poesia mancano gli “emoticon” e può essere utile dopo
decenni e secoli esplicitarli... Ma le scoperte con Stevens non finirebbero
mai.
AC: Com'è lo Stevens aforista?
MB: Gli aforismi, Adagia
li chiama lui, sono in massima parte inediti in vita, sicché non hanno la
perfezione formale di tutto quanto Stevens stampava. Comunque lui non ha mai
scritto nemmeno in privato una sciocchezza e o una zeppa. Gli Adagia sono annotazioni sobrie ed
estreme (ecco il carattere di Stevens!) che spesso servivano da fonte della
poesia, dove talvolta riappaiono tali quali. Credo che stiano bene in appendice
a Tutte le poesie, perché fanno
sentire uno Stevens più spoglio eppure senza tentennamenti, e infatti i
recensori hanno tutti citato qualche battuta. Avviarsi nei testi poetici è
senz’altro più arduo. Eppure un’amica mi ha scritto giorni fa un sms: “Anna mi
ha regalato il Meridiano, la cui lettura è stato l’aspetto più bello e
coinvolgente di un’estate altrimenti da dimenticare”. Stevens diceva infatti
che la poesia deve aiutare la gente a vivere la propria vita. Mi vanto di avere
tradotto un’altra opera che credo faccia questo per chi vi si immerge, Il preludio di Wordsworth, poeta di cui
Stevens è l’ironico e indefinibile successore.
AC: Secondo lei perché chi scrive di Stevens sente quasi
sempre il bisogno di ricordare il suo impiego a vita in una importante
compagnia di assicurazioni?
MB: Occorre pur dire qualcosa, cominciare da qualche
parte. Un poeta dell’America di Hopper, che passa tutti i santi giorni in
ufficio, ma poi scappa a Key West e L’Avana. Ma questa è un’altra storia.
Spassosa la dichiarazione della moglie a questo riguardo, che ho messo a
epigrafe della Cronologia del Meridiano!
AC: Quali sono state le maggiori difficoltà (intendo
anche difficoltà tecniche e concrete) nella realizzazione di questo libro?
MB: La materia sfugge fra le mani perché tutto è in
evoluzione, la traduzione che via via si modifica, le note che si arricchiscono
e correggono, tocchi una cosa qui e devi toccarne altre là. Una certa parola,
come “plain”, si traduce sempre allo
stesso modo o no? (A volte ho scelto “semplice”, altre volte “ordinario”.) Poche settimane prima
della stampa ho scoperto che in USA stava per uscire una nuova edizione dei Collected Poems con decine di correzioni
sostanziali al testo, parlo di interi versi e gruppi di versi spostati
all’interno di strofe. Erano tutte correzioni convincenti, dunque occorreva modificare
l’inglese, ma anche la traduzione...
AC: Una domanda fuori traccia, ma forse nemmeno troppo. Rimanendo in
area statunitense, e magari pensando proprio alla poesia di Stevens, quali sono
i poeti dei quali vorrebbe caldeggiare una traduzione (o una nuova traduzione)?
MB: Da
tempo predico la necessità di un Meridiano di Robert Frost, il grandissimo
antagonista di Stevens, che ha anche il merito di essere apparentemente
leggibile (e popolare!). All’Università non faccio quasi mai un corso di
letteratura americana senza chiamare in causa Frost, che è proprio l’America
con le sue tragiche ambiguità, e la sua forza. Ci fu un’edizione Oscar tradotta
da Giudici e riveduta da me, da anni esaurita. Assurdo!
AC: Può
scegliere una poesia di Stevens come saluto e congedo? Grazie.
MB: Ecco
un testo poco noto del 1933.
UNO SVANIRE DEL SOLE
Chi può
pensare il sole costumista di nuvole
quando
tutti sono agitati
o la
notte abbagliante, orgogliosa,
quando
tutti svegliati
invocano
e invocano aiuto?
La calda
antichità dell’io,
ognuno,
diventa a un tratto fredda.
Il tè è
scipito, il pane intristito.
Com’è che
il mondo così vecchio è così impazzito
che tutti
muoiono?
Se la
gioia sarà senza un libro
essa
dimora dentro loro stessi,
se
guarderanno
dentro loro
stessi
e non invocheranno
aiuto:
dentro
come pilastri del sole,
puntelli
della notte. Il tè,
il vino è
buono. Il pane,
la carne
è dolce.
E non
morranno.
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