Massimo Bacigalupo

ritorno di Hart Crane

Un piccolo editore di Potenza, Grenelle, ci ripropone uno dei libri di poesia americana più importanti del secolo scorso, White Buildings di Hart Crane (a cura di Piero Pascarelli, pp. XL+86, €14,00). E’ un piccolo libro (23 poesie per lo più brevi) di grande tensione lirica, che dato anche il formato tascabile invita alla lettura odeporica. Hart Crane era contemporaneo di Hemingway e dell’amico Cummings e raggiunse nella breve e tormentata vita di omosessuale alcolista dei vertici lirici assoluti. Di solito lo si ricorda per il poema The Bridge, che doveva essere una risposta affermativa e whitmaniana a The Waste Land, una esaltata e diseguale storia dell’America vista dal meraviglioso Ponte di Brooklyn. Ma c’è chi sostiene che in queste liriche brevi egli ha dato il suo meglio. Ecco i primi versi della prima poesia, “Legend”: “As silent as a mirror is believed / Realities plunge silent by...”. Pascarelli, autore della approfondita introduzione e di ampie note, traduce: “Silenziose come si crede uno specchio / Le realtà affondano nel silenzio vicino...”. C’è la lezione dei metafisici (Eliot) recepita in un bar di Broadway. E la vocazione assoluta della poesia (Shelley). Infatti “Leggenda” continua: “Non sono pronto al pentimento; / Né a misurare rimpianti.  Perché la falena / Non piega nulla più che la fiamma / Ancora implorante. E tremuli / Fra i bianchi fiocchi cadenti / Sono i baci – / L’unica verità che vale tutto”. E’ un programma di passione e abbandono (Crane morì suicida a 32 anni gettandosi da una nave nel Golfo del Messico).

Tipica della poesia di Crane è l’abbondanza di immagini, sinestesie e involuzioni sintattiche. Il tutto si giustifica come musica e spesso non è facile per lettore (e traduttore) raccapezzarsi fra tanta ricchezza e stranezza. Comprendiamo a tratti, a lampi, ascoltiamo il rumore della risacca. La raccolta si conclude infatti con la celebre sequenza “Voyages” (viaggi, navigazioni), sei poesie estatiche (salvo la prima assai sobria: “Il fondo del mare è crudele”) nate da un grande breve ricambiato amore: “Hasten while they are true, sleep, death, desire, / Close round one instant in one floating flower” (“Affrettati finché son vere – il sonno, la morte, il desiderio, / Sono racchiusi all’istante in un fiore che galleggia”). E’ uno dei “carpe diem” più memorabili della poesia in lingua inglese, con quella straordinaria rima piana desire/flower. (Shakespeare rimò flower con power in un sonetto celebrativo della bellezza e della poesia.) Sullo sfondo, come si accennava, il paesaggio sognante dei Caraibi, dell’oceano (vengono in mente le corone hawaiane alla fine del film Da qui all’eternità). E Melville, che scrutò quel mondo ambiguo di fiori e desideri appagati, appare nella celebre riflessione sulla sua tomba nel cimitero del Bronx: “Spesso di sotto l’onda, di là da questa scogliera / Egli vide i dadi d’ossa degli annegati lasciare / Un’ambasciata....” (ma forse, più che “scogliera”, ledge sarà la pietra tombale del marinaio scrittore su cui se ben ricordo  è incisa una lira?). Crane è un poeta urbano che vede il suo viso moltiplicato in una caraffa (“Il serraglio del vino”), ma ha nostalgia di spazi interminati, e una famosa poesia si intitola “Riposo di fiumi”: “Non potei mai ricordare / Quel ribollente, regolare acquattamento delle paludi / Fino a che l’età non mi portò al mare”. Com’è giusto, i versi e le immagini non sono mai del tutto perspicui, e di alcuni credo nessuno sia mai venuto a capo, tale e tanta la densità metaforica e sintattica.

La traduzione (la seconda dopo quella felice di Roberto Sanesi, raccolta nel volume Il ponte e altre poesie, 1967) aiuta a scandagliare l’inglese, che poi va assaporato di per sé. La poesia di questo genere ha a che fare non solo col suono ma quasi con le papille gustative, il modo in cui i suoni si sciolgono nella bocca, o vi si muovono, diventano carnali. Sul livello del suono c’è anche (ci spiegano le note e le dichiarazioni di Crane) l’imitazione del jazz, presente nella poesia “Per il matrimonio di Fausto ed Elena”, una delle più ampie e complesse e, diciamolo, difficili. (Una studiosa italiana, Bonalda Stringher, vi dedicò molte pagine anni fa: Introduzione alla poesia di H.C, 1987.) Ma il lettore non iniziato potrà accontentarsi di liriche meno ardue, come “Chaplinesque”, che piacque allo stesso Chaplin: “Perché possiamo ancora amare il mondo, noi che troviamo / Alla porta un gattino affamato, e conosciamo / Segreti ripari per lui dalla furia della strada...”. La protezione della debolezza, il poeta esaltato e il poeta del cinema. E poi la sconfitta, nonostante tanto sognare. White Buildings è un libretto tutto da godere ma sarebbe un errore prenderlo per poesia pura. Nel suo folle volo c’è un elemento tragico che è connaturato all’esperienza americana.

“Il Manifesto Alias”, 20 novembre 2016