Da Il senso del Golfo. Dalla foce della Magra alle Cinque Terre, a cura di Rossana Piccioli e Alessandro Scansani, Diabasis, Reggio Emilia, 2008, pp. 101-111.

 

Massimo Bacigalupo

il Golfo inglese. Da Portovenere a Lerici

Di visitatori stranieri, anglosassoni in particolare, c’è nel Golfo un flusso ininterrotto. Fra questi sono autori ed epistolografi che lasciano traccia delle loro impressioni e permettono di ricostruire l’evoluzione del viaggio e della percezione dei luoghi. Gli scrittori sono anche creatori di miti, del loro mito, assecondati indubbiamente e necessariamente dai lettori, che li evocano, li degustano, ne seguono le tracce. Il Golfo dei Poeti non si chiamerebbe così se non vi fosse stato l’incontro di luogo, scrittura e mito. In particolare il mito di Shelley, che vi trascorse gli ultimi due mesi di vita, e aprì così la via a schiere di pellegrini che si soffermeranno a meditare davanti alle arcate di Casa Magni. E a scriverne.

     Shelley fu recepito in Italia come un angelico difensore della libertà contro la tirannide, tant’è vero che Lauro De Bosis a lui si ispirò quando nel 1931 trasvolò Roma gettandovi volantini antifascisti per poi precipitare col suo aeroplano nel Tirreno. Lo stesso sentimento generoso e libertario si percepisce già nella suggestiva lapide dettata nel 1906 da Ceccardo Roccatagliata Ceccardi e collocata sulla facciata di Casa Magni. In Inghilterra Shelley, Byron e Keats restano poeti amati e venerati, i romantici per eccellenza, periti giovani dopo vite di passione e creazione. Shelley con le sue visioni sovrabbondanti e il suo idealismo sembrerebbe lontano dal cinismo e minimalismo di oggi, ma con un po’ di fatica il giovane aristocratico può essere visto come il primo hippy, un Allen Ginsberg e Gregory Corso dell’Ottocento (e infatti il suo nome è sempre invocato dai Beat americani a simbolo stesso della poesia).

     Nell’aprile 1822, quando affittò Casa Magni a San Terenzo, Shelley aveva 29 anni, la moglie Mary 25. Con loro era il piccolo Percy di due anni e mezzo, unico sopravvissuto dei quattro bambini che Mary aveva avuto da Shelley. Erano accompagnati dalla sorellastra nevrotica di Mary, Claire, e da una coppia di amici e coetanei, Edward e Jane Williams, con i loro due bambini. Era un gruppo (una “comune”?) di giovani adulti ammaliati dal solare Shelley. Mary, che a Casa Magni ebbe un aborto spontaneo e fu salvata dalla prontezza del marito che la accudì in assenza di medici,  aveva già pubblicato, ventenne, Frankenstein, e terminava a maggio un secondo romanzo, Valperga or The Life and Adventures of Castruccio, Prince of Lucca (edito nel 1823). Sicché Shelley poteva scrivere a Byron il 3 maggio:

 

A voi La Spezia piacerebbe tantissimo, anche se le case sono tanto disastrose quanto il paesaggio è divino. I Williams, con tutto il loro mobilio e senza un posto dove dormire, per il momento si sono rifugiati da me; mi sono di grande conforto e consolazione. E di consolazione ho proprio bisogno. La povera Claire si sta ammalando a causa delle sofferenze eccessive e continue cui è sottoposta. Ma ci è risparmiato quello che più temevo: riesce a controllare i nervi. [1]

 

Claire aveva appreso la notizia della morte di Allegra, la figlioletta che aveva avuto da Byron, e Shelley doveva fare da intermediario fra i due ex-amanti. Shelley in questa lettera si dice “disperato” in contrasto con la natura del luogo “tanto piena di vita e di gioia”. Ma evidentemente nel corso delle settimane successive l’atmosfera si rasserenò.  Il 12 maggio arrivò il Don Juan, lo schooner a due alberi, privo di coperta, che Shelley s’era fatto costruire a Genova e con il quale intendeva scorazzare con Williams tutta l’estate. Lo ribattezzarono Ariel e l’ormeggiarono nel porticciolo di Lerici:

 

Mi costa ottanta sterline, e mi ha provocato qualche problema finanziario. Comunque è veloce e bello, un vascello notevole. Williams è capitano e veleggiamo in questa deliziosa baia al vento della sera, sotto la luna estiva, finché la terra sembra un altro mondo. Jane porta la sua chitarra... [2]

 

Nella stessa lettera del 18 giugno Shelley lamenta che Mary, pur “eccellente e pura”, non lo capisce e che “Jane mi piace sempre di più e Williams mi sembra il più amabile dei compagni”. Così comprendiamo la genesi delle liriche per Jane (una intitolata appunto, Con una chitarra, per Jane), e dei Versi scritti nella baia di Lerici, che descrivono una notte sul golfo, con i pescatori che si aggirano fra le rocce con lampade, e si chiudono confessando la solita irrequietezza.

     A Lerici e sull’Ariel Shelley compose anche il poema incompiuto Il trionfo della vita, che racconta in terzine un vero “trionfo” o processione dantesca con creature allegoriche e personaggi storici, affidando il ruolo di Virgilio al sentimentale Rousseau: una complessa riflessione sulla processione della vita che alcuni (T.S. Eliot ad esempio) hanno giudicato fra le cose più grandi del poeta. Ci sono anche le sue caratteristiche scene paradisiache, con nuvole, ruscelli, fiori, ombre femminee, ispirate alle scene del Paradiso terrestre del Purgatorio, pagine da Shelley amatissime (e tradotte in inglese). Egli rifletteva intensamente sul senso della vita nella natura e nella società, come vediamo da una delle ultime lettere (29 giugno):

 

Affrontiamo la  verità, per quanto possa dispiacerci. Il destino dell’uomo non può essere così vile da risolversi tutto nel nascere e nel morire: e se davvero fosse così, gli inganni, specialmente quelli volgari e inaccettabili della religione attuale, certamente non contribuiscono a esaltarlo. Se ogni uomo dicesse quello che pensa, essa non sopravvivrebbe un giorno. Ma tutti, più o meno, si sottomettono all’elemento che li circonda. [3]

 

Shelley è un idealista ateo, e dunque si trova nella necessità di dare una risposta sua (un mito poetico) alla domanda “Cos’è la Vita?”, che poi è proprio quella su cui si interrompe Il trionfo della vita dopo 547 versi (non pochi per un abbozzo). Il 18 giugno aveva chiesto all’amico Trelawny di fornirgli dell’acido prussico per potersi suicidare in caso di necessità. Infatti alcuni dicono che il giorno del naufragio dell’Ariel, l’8 luglio, Shelley abbia in qualche modo cercato la morte. Ma questo non può valere per i due compagni di sfortuna, Williams e il mozzo inglese. Sicché si trattò certamente di una disgrazia. [4]

     Nella lettera del 29 giugno Shelley annuncia il prossimo viaggio a Livorno che gli sarebbe stato fatale:

 

Ho appena ricevuto una lettera da Hunt, che è arrivato a Genova. Appena avrò saputo che è salpato, leverò l’ancora del mio schooner e gli darò la caccia a Livorno, dove devo occuparmi di organizzare le cose fra lui e Lord Byron...

Abito ancora in questo golfo divino, leggo drammi spagnoli, vado in barca e ascolto la musica più incantevole. Abbiamo alcuni amici che sono venuti a farci visita, e il mio unico rimpianto è che l’estate prima o poi passerà, e che Mary non ha la mia stessa predilezione per questo posto – se l’avesse, non partirei più. [5]

 

In un certo senso il desiderio di Shelley di non partire più fu esaudito, giacché il suo nome restò sempre legato alla sua ultima residenza, mentre Mary vide confermati tutti i suoi presagi.

     Ricaviamo da questi testi che un gruppo di giovani entusiasti avevano deciso di passare l’estate sul mare quando la cosa non era affatto comune. Shelley era attratto dal paesaggio e dalla vela: ci sono molte barche tratte inarrestabilmente al largo nelle sue poesie [6]. Ma era un uomo immerso nella vita e nella poesia, che a Livorno si recò per affari attinenti a un progetto di rivista di Hunt e Byron. Si deve al caso che un episodio del suo esilio italiano acquistò rilevanza di emblema. Che a Lerici e dintorni egli passò nel mito che andava cercando. 

            Assai più labile è il legame del Golfo con Byron, anche se nell’immaginario locale la presenza dei due amici poeti è inscindibile. Di certo c’è solo che Byron con il suo seguito soggiornò quattro giorni a Lerici a fine settembre 1822, durante il trasferimento da Pisa a Genova, immobilizzato “nella peggiore stanza della peggiore locanda” da un attacco di febbre, “bile, costipazione ecc.” su cui ritornò spesso e umoristicamente nella corrispondenza [7]. Riferì che c’erano anche state alcune scosse di terremoto per cui i lericini si riversarono per strada, ma di non essersi neppure svegliato [8]. Rimessosi parzialmente, anche in seguito a un tremendo clistere, “il quinto giorno” si imbarcò “per attraversare il Golfo fino a Sestri”, e da lì proseguì nottetempo in carrozza per Genova, sua ultima residenza italiana (fino al luglio 1823). Il solo dettaglio pittoresco è l’affermazione che appena imbarcatosi a Lerici “il mare mi fece subito rivivere – mangiai il pesce freddo dei marinai – e bevvi un gallone di vino”. Ben diverse le immagini di Shelley che veleggia con gli amici nelle notti di luna ascoltando Jane accompagnarsi con la chitarra, o esplora (come racconta Williams) gli isolotti Tino e Tinetto, che gli amici battezzano Isola delle Sirene a causa di un mormorio che pare provenirne (e che poi scoprono è prodotto da una sartia della stessa loro imbarcazione). [9]

            Eppure nel 1877 fu collocata a Portovenere una lapide bilingue che sanciva ufficialmente la presenza di Byron nel Golfo:

 

QUESTA GROTTA

ISPIRATRICE DI LORD BYRON

NEL SUBLIME POEMA IL CORSARO

RICORDA L’IMMORTALE POETA

CHE

ARDITO NUOTATORE

DA PORTOVENERE A LERICI

SFIDO’ LE ONDE DEL MAR LIGURE

 

 THIS GROTTO

WHICH INSPIRED LORD BYRON

IN THE SUBLIME POEM THE CORSAIR

RECORDS THE IMMORTAL POET

WHO

AS A DARING SWIMMER

FROM PORTOVENERE TO LERICI

DEFIED THE WAVES OF THE SEA [10]

 

 

 

 

                                                                                                         

Il fatto che il testo fosse anche dato in inglese, seppur con un comico errore di traduzione (“records” non significa “ricorda” bensì “registra”), segnala già la fortuna anglosassone del Golfo, e la presenza di visitatori alla ricerca di “ricordi” e testimonianze dei soggiorni veri o fantastici di Shelley e Byron. La lapide era stata composta da Gabriele Montefinale, e voluta dal conte Ferdinando Pieri-Nerli, senese, che aveva una villa sulla Palmaria [11]. La moglie di Pieri-Nerli, Henrietta Medwin, era figlia di Thomas Medwin, cugino di Shelley e amico di Byron, e dunque avrebbe potuto aver avuto notizie dirette su una eventuale sosta di Byron a Portovenere. Ma l’errore di traduzione fa pensare che Henrietta non sia stata consultata [12]. La lapide fu murata sopra l’ingresso della Grotta Arpaia, oggi non più esistente, che si apriva verso ponente nei pressi della chiesa di San Pietro. La descrive vividamente lo storico spezzino Ubaldo Mazzini in un articolo del 1899 in cui dimostra con eleganza l’inattendibilità della lapide (fra l’altro Il Corsaro fu scritto da Byron nel 1814, prima che arrivasse in Italia) e ne invoca addirittura la rimozione per evitare che la leggenda continui a diffondersi. A questo proposito Mazzini accenna al turismo internazionale di fine Ottocento:

 

Quanti, italiani e forestieri, vanno a visitare la storica e pittoresca Portovenere, non mancano di scendere fino alla grotta; molti trascrivono sul taccuino l’epigrafe byroniana; e tutti partono da Portovenere col ricordo e la persuasione che lo strano lord sia andato a trarre la ispirazione dagli strani scogli della grotta che ora si chiama dal suo nome, ma che una volta era detta Arpaia; tutti guardando dall’alto delle rovine di San Pietro il lungo tratto di mare che separa Portovenere dalla bruna rocca di Lerici, pensano al poeta che in mezzo a quei flutti volle rinnovare le gesta dell’innamorato eroe di Museo. [13]

 

Mazzini allude al fatto che Byron attraversò a nuoto il Bosforo (come già Leandro per raggiungere l’amata Ero), come egli stesso raccontò in una poesia. Infatti è probabile che la leggenda della traversata del Golfo (in realtà più lunga di quella del Bosforo) sia nata dal ricordo dell’impresa del giovane Byron a Costantinopoli. Del resto anche la sua indisposizione a Lerici si doveva ai postumi di una imprudente nuotata compiuta nell’agosto 1822 al largo di Viareggio, nel corso della quale il povero Byron, vittima di un’insolazione, fu preso da crampi e vomito.

      Comunque l’appello del severo Mazzini affinché l’iscrizione fosse rimossa restò inascoltato, e dopo che la “Grotta Byron” fu franata, nel secondo dopoguerra fu murata sull’ingresso una targa  più concisa ma non meno immaginosa sia nei contenuti che nella lingua (vi resta infatti l’errore di traduzione “ricorda”/“records”) [14]. E lì la si può ancora vedere nel secolo XXI. E’ bene che sia così, perché all’iscrizione primitiva si ispirarono due altri visitatori angloamericani, memorabili quasi quanto il mercuriale Byron.

        Infatti uno dei primi e più notevoli pellegrini letterari nel Golfo fu l’americano Henry James, che proprio nel 1877 passò a Portovenere e fu colpito dalla lapide appena collocata (“di marmo bianco con una fascia di bardigio” spiega Mazzini). Ma James era tutt’altro che un turista ingenuo, e la sua descrizione, raccolta in Ore italiane, è tutta pervasa di bonario scetticismo [15]. E’ affascinato da San Pietro e dal “mormorio dei flutti senza maree”, ma la grotta gli pare solo curiosa e “plebea” (forse i gitanti erano già numerosi nell’ottobre 1877?). Dell’iscrizione, senza metterne in questione la veridicità, egli si prende gioco, perché “sfidare le onde del mare” è per lui già una frase comica, che ricorda il volontarismo eroico e retorico di Byron (che egli non ammira). Probabilmente James conosceva poco il Byron satirico e sferzante che oggi resta modernissimo, e prendeva le distanze dall’immagine divulgata del Byron romantico, appunto lo sfidante luciferino delle onde e del buoncostume.

    James restò invece commosso dal viaggio in barca da La Spezia a Lerici. Dice che il luogo è “un classico per tutti i viaggiatori inglesi, poiché, giusto nel mezzo della riva incurvata della baia, si trova la piccola villa, ora deserta, in cui Shelley trascorse gli ultimi mesi della sua breve esistenza” [16]. Trova la casa ancora affacciata direttamente sulla spiaggia: “Il posto è assolutamente solitario, logorato dal sole, dalla brezza e dal salino e molto vicino alla natura, proprio come doveva essere la passione di Shelley”. James si sofferma sulla terrazza, poi sale al Castello di Lerici, “singolarmente felice”, e osserva il tramonto dalla “piattaforma ricoperta di viti”. Da qui vede ancora, oltre il mare, “la pallida facciata della tragica villa guardare la luna sempre più luminosa”.    James è uno dei grandi maestri della prosa inglese e queste sue pagine lo dimostrano. E’ interessante che egli sia molto più sensibile al fascino dell’angelico Shelley che a quello del mondano ed eroico Byron. La gita a Lerici è per lui uno dei più bei momenti dei suoi pellegrinaggi italiani. Nel 1877 aveva 34 anni, e avrebbe ancora passato una vita a osservare e creare con una sapiente combinazione di distacco ed emozione.

       Una cinquantina di anni dopo James, un altro favoloso scrittore americano, Ezra Pound, si trovò davanti alla prima versione dell’iscrizione byroniana e ne prese nota in un frammento pubblicato solo postumamente e tuttavia curioso perché contesta lo scetticismo di James e in qualche modo ripropone il mito del poeta-nuotatore. Lo riproduco con traduzione italiana:

 

 

“From this grotto”

                                   as H.J. has recorded

in slightly inaccurate manner

or at least without explaining the details

                        Lord Byron"

A quarante ans et force ma gourme jecté

"traversing the waters of the Thyrennian sea"

Both he and Swinburne good swimmers

"to the further shore (Lerici) as of Hellespont

with peril of waves passed over". 

 

“Da questa grotta”

                                   come annotò H.J.

in maniera lievemente imprecisa

o almeno senza spiegare i dettagli

                        "Lord Byron"

A quarante ans et force ma gourme jecté

"traversando le acque del mare tirreno"

Tanto lui che Swinburne buoni nuotatori

"alla sponda opposta (Lerici) come di Ellesponto

con pericolo di onde traversò". [17]

              

 

Evidentemente Pound, trasferitosi a Rapallo nel 1925, visitò Portovenere e, rientrato a domicilio, consultò la pagina beffarda di James. Egli suggerisce che il connazionale non riporta accuratamente l’iscrizione, “o almeno non spiega i dettagli”. Ma anche lui non la riporta affatto con precisione,  sostituisce ad esempio “Thyrennian” (sic: l’ortografia corretta sarebbe “Tyrrhenian”) a “Ligurian”, ed evita di riportare la frase “defied the waves” criticata da James sostituendola con la goffa espressione “with peril of waves”. Inoltre Pound aggiunge una serie di commenti: la riserva sulla precisione di James, la citazione in francese (“a quarant’anni e avendo finito di correre la cavallina”) che sembra indicare un senso di maturità e stanchezza (Pound aveva infatti 40 anni quando si trasferì in Liguria), l’allusione a Swinburne, poeta vittoriano da lui molto amato che era anche un forte nuotatore, e il riferimento alla traversata dell’Ellesponto, che non c’è nella lapide né in James ma era venuta in mente a Ubaldo Mazzini e probabilmente agli stessi estensori della lapide e così a Pound che ben conosceva l’impresa di Byron. Comunque se andiamo a leggere la poesia scritta da Byron per l’occasione, vediamo che essa non è retorica ma ironica:

 

’Twas hard to say who fared the best:

Sad  mortals! thus the gods still plague you!

He lost his labour, I my jest;

For he was drown’d, and I’ve the ague. 

                                             May 9, 1810 [18]

Difficile dire chi ebbe sorte peggiore:

Tristi mortali, gli dei così vi perseguitano!

Leandro sprecò la sua fatica, io il mio scherzo,

Perché lui annegò, e io mi son preso un febbrone.

                                                9 Maggio 1810

 

 

Insomma Pound ripropone l’immagine del poeta orgoglioso nuotatore anche in età non più verde, e infatti anche lui amava nuotare nel Mar Ligure.

      La lapide della Grotta Byron, nata da una fantasia poetica, ha avuto la sorte di attirare l’attenzione di due scrittori americani di generazioni diverse, che pure avevano fatto in tempo a conoscersi quando Pound giunse a Londra intorno al 1910. La differenza fra la prosa autunnale di James e il testo scheggiato di Pound corrisponde alla differenza dei loro punti di vista e della loro cultura: pacata quella di James, propositiva e futuristica quella di Pound. Gli scrittori del Novecento erano più vicini ai  Romantici  nei loro eroici furori, anche, se vogliamo, nella loro confusione ideologica e poetica. Alla visione sobria di James si sostituisce quella apocalittica che produrrà opere appassionanti  e controverse come La terra desolata di Eliot, Ulisse d Joyce e i Cantos di Pound. Di questi il frammento su Portovenere rimane una sorta di annotazione cancellata ma rivelatrice.

    Alla stessa generazione di Ezra Pound appartiene David Herbert Lawrence, che passò un felice periodo a Fiascherino fra settembre 1913 e giugno 1914. Epistolografo instancabile, Lawrence raccontò minuziosamente agli amici inglesi il suo soggiorno nella villetta Bijou di Ettore Gambrosier, a pochi passi al mare in cui amava tuffarsi. La ragione del viaggio era qui il desiderio del sud, la ricerca della tranquillità per lavorare a un romanzo, e anche la relazione irregolare con Frieda Von Richthofen, impulsiva e aristocratica vichinga che aveva abbandonato su due piedi il marito inglese (professore universitario) e i tre giovani figli per il geniale ventottenne, ed era in attesa di divorzio. Fiascherino, raggiungibile solo a remi da Lerici (a cui allora si arrivava da La Spezia in battello) era un luogo appartato dove aspettare che lo scandalo si calmasse e mettere alla prova l’affiatamento dei due fuggiaschi. Lawrence ebbe buoni rapporti con la famiglia di contadini che abitava nel villino sulla spiaggia, con cui trascorreva le serate in allegria:

 

Mi piacciono molto gli italiani. Abbiamo una servetta bizzarra di nome Elide (25 anni). La vecchia madre, Felice, è un bel tipo. Sono molto buffe e cerimoniose. Quando Elide mette la minestra in tavola non se ne va senza dire “Arrivederci, eh?”. C’è solo un’altra casa nella baia – la sola in un raggio di due chilometri – quella dei contadini sulla spiaggia. Sono cugini di Elide. Qualche volta vengono e suonano e cantano con noi di sera, portando con sé la chitarra. Si sta allegri. Luigi è molto bello – e Gentile è una gioia selvaggia... [19]

 

Altre lettere di grande vivacità sono dedicate alla raccolta delle olive e alle cerimonie religiose che contrastano con l’apparente indifferenza della gente nei confronti della chiesa. Per il 2004, novantesimo anniversario del soggiorno dei Lawrence, Adriana Beverini e il Comune di Lerici hanno edito un calendario ricco di testi e documenti relativi a questo felice episodio della vita dell’inquieto scrittore.

      Il 29 novembre 1913 Lawrence fece da testimone a un matrimonio dei vicini, seguito da un abbondante pranzo nella casetta sulla spiaggia. Durante il banchetto, sopraggiunse in barca un gruppo di escursionisti inglesi: i letterati Robert Trevelyan, W.W. Gibson, Lascelles Abercrombie con moglie, accompagnati dal pittore Aubrey Waterfield. Lawrence fu colpito dal contrasto:

 

E’ stato così strano, lasciare la tavolata e scendere nell’atmosfera rarefatta di un piccolo gruppo di inglesi colti. Nella stanza di sopra, era in corso il pranzo per venticinque persone. Per l’occasione hanno tirato il collo a nove galline – e la portata successiva era polpi (piuttosto grossi, con gambe lunghe un metro – ho visto Ezechiele portarli su dal mare, con i loro occhi di pietra aperti – e mi hanno fatto quasi senso.) – Il vino scorreva rosso intenso – poi a un tratto ci tocca scendere da questi cinque poeti inglesi. Era come passare improvvisamente dentro un’aria molto rarefatta. Si barcolla e ho come perso l’orientamento. Eppure sono persone a me carissime. [20]

 

Lawrence, figlio di un operaio, per quanto provasse amicizia per i suoi visitatori, li trovava artificiosi, e cercava nella vita  e nell’opera radici terrestre: l’ape regina Frieda, il Mediterraneo e poi l’Australia e il Messico. Era anche una reazione alle sue condizioni di salute assai precarie. Come Pound che fra Byron e James (che pure ammirava) si schiera per il vulcanico Byron, vera forza della natura, così Lawrence alza il bicchiere fra i contadini di Fiascherino e ne è affascinato, mentre si sente a disagio con i letterati connazionali. Gli anni intorno alla prima guerra mondiale segnano una crisi dell’universo vittoriano e gli artisti (Pound, Lawrence, Eliot, Joyce, poi Hemingway) cercano di abbeverarsi alle linfe dell’istinto e del primitivo. Hemingway vede nella corrida una metafora della vita, Lawrence racconta le sue storie di Figli e amanti, Donne innamorate e Lady Chatterley (per cui il primitivo è naturalmente la sessualità un tempo sublimata ora vissuta appieno come una rivelazione).

          Ma Lawrence era scarno e spiritato, a differenza della robusta Frieda, il che getta una luce diversa sulle descrizioni appassionate della natura palpitante che a Fiascherino lo circonda. C’è qualcosa in esse della sete del malato per un’esperienza completa della vita:

 

Si respira tanto più liberamente lontani da Londra. Quando vedo una farfalla rossa posarsi su un fico caduto e scoppiato, e respiro con le sue ali lentamente, pienamente, come se aspirasse la luce del sole – è così che uno si sente in Italia, penso io. [21]

 

            A Fiascherino i Lawrence furono aiutati da una certa signora Huntington che abitava a Lerici, per quanto essa disapprovasse la loro unione irregolare. Questo ci ricorda ancora una volta che i visitatori letterati che ci hanno lasciato memorabili pagine non erano soli, e che fra Ottocento e Novecento il Golfo era già meta privilegiata di numerosi turisti. Aubrey Waterfield, il pittore che faceva parte del gruppo che interruppe Lawrence durante le nozze dei vicini, viveva dal 1904 con la moglie Lina (nata Duff Gordon) ad Aulla, nella Fortezza della Brunella, in condizioni molto spartane ma innamorato della Lunigiana, e visitato da molti ospiti, come quelli della gita a Fiascherino. Su invito dei Waterfield, anche i Lawrence visitarono la Brunella, e David descrisse la fortezza all’alba con il consueto entusiasmo in una lettera del 19 dicembre. Ecco come Lina Waterfield ricorda la visita nella sua autobiografia, Castle in Italy:

 

Lei era  molto bella, con biondi capelli ondosi, sempre a suo agio, e dava un’impressione di salute vigorosa e godimento sensuale della vita. Ma fu il giovane agile e dall’aspetto fragile con gli attenti occhi azzurri e il sorriso sardonico che mi attirò. Il castello lo sorprese; sfrecciò in ogni angolo, scese di corsa ogni torre e guardò la vista da ogni punto. C’erano degli iris stylosa in fiore sui bastioni; ne raccolse uno, lo toccò delicatamente e lo diede a Frieda. Il suo acuto interesse per ogni cosa era contagioso. Quando vide sui muri della sala gli affreschi di Aubrey di castelli e campagne della Lunigiana proruppe in stridolini di piacere e voleva partire subito per vedere quei luoghi e dipingerli lui stesso. In una lettera a Aubrey lodò profusamente i suoi quadri... [22]

 

Quest’ultima lettera è andata perduta, ma in una lettera ad altri Lawrence dichiarò che le opere di Aubrey erano convenzionali (a differenza di quelle dello stesso Lawrence, visionarie e sensuali). E infatti non sembra che le pitture di Aubrey Waterfield abbiano trovato collocazione in raccolte significative. Egli dipingeva frutti, fiori e paesaggi, e durante la II guerra mondiale un amico disse che “portò qualcosa dell’Italia a Londra... provocando una profonda nostalgia in tutti coloro che conoscevano la Lunigiana e le colline toscane”. [23]

    La presenza di Aubrey e Lina Waterfield, persone ben introdotte ma amanti all’inglese della vita spartana e solitaria, è un altro momento significativo della storia della scoperta del Golfo. Il Castello di Aulla era di proprietà dei Brown, famiglia anglogenovese che aveva acquistato e ristrutturato anche le fortezze di Paraggi e Portofino, altri paradisi  degli inglesi, e le affittava a connazionali, non di rado scrittori [24]. Quando fra le due guerre Lina ebbe lavoro come giornalista per l’“Observer” poté acquistare  la Brunella, che rimase proprietà della famiglia fino al 1970. In seguito il giardino pensile sugli spalti creato dai Waterfield è stato distrutto per restituire alla fortezza la sua fisionomia originale, ma così si è perso un documento della presenza di questi ospiti avventurosi che vivevano in completo isolamento in luoghi dove nessun italiano avrebbe mai pensato di soggiornare. Per fortuna l’altro castello Brown oggi di proprietà pubblica, il Castello di Portofino, non è stato svuotato ma ha in parte conservato la vegetazione e il giardino pensile voluti dagli eccentrici inglesi che di questi meravigliosi luoghi liguri sono stati i maggiori valorizzatori. Il libro di Lina Waterfield e quello della figlia Kinta Beevort, A Tuscan Childhood (con illustrazioni del padre Aubrey) sono fra le opere con cui ricostruiamo le atmosfere del Golfo, insieme a quelle dei grandi predecessori e contemporanei che siamo andati citando.

    Anche Frieda Lawrence dipingeva, e un suo quadro della spiaggetta di Fiascherino, con bagnanti, è conservato dai discendenti dei loro vicini e amici. E’ firmato F.R., in quanto l’autrice non era ancora Frieda Lawrence. Subito oltre la caletta dei Lawrence, verso Lerici, sorse nel primo dopoguerra la villa Gli Scafari, residenza permanente di un altro scrittore inglese di poco più anziano di Lawrence, Percy Lubbock (1874-1965), noto soprattutto per i suoi libri di memorie (fra cui Earlham, 1921) e come collaboratore e curatore delle lettere di Henry James. Lubbock scrisse un libro fortunato, The Craft of Fiction (1921), in cui esponeva le regole del “romanzo ben fatto” desunte dalla pratica di Henry James (che però era uno scrittore grandissimo e eccentrico, pertanto inimitabile). Attraverso Lubbock, lo spirito edoardiano di James continuò ad aleggiare sulla costa cara a Shelley. Inoltre nel 1926 Lubbock sposò Sybil Marjorie Cuffe Scott, madre della scrittrice anglotoscana Iris Origo. Agli Scafari passarono dunque molti scrittori e intellettuali, fra cui un romanziere di prim’ordine, Edward Morgan Forster.

    Intorno al 1950, Percy Lubbock semicieco impiegò come segretario un aspirante poeta e pittore inglese, Charles Tomlinson (1927), che arrivò con l’inseparabile moglie Brenda, ma non legò con quel  mondo antico nemmeno tanto piccolo. Lubbock gli disse di non avere più bisogno dei suoi servizi, in cambio però gli offrì di restare in un villino sulla proprietà. Per il giovane Tomlinson fu un periodo importante in cui farsi le ossa, scoprire l’Italia e immergersi nei Cantos di Pound  (che sono in fondo una sorta di poetica guida d’Italia). Scrisse delle poesie in cui cercava di rendere le asperità del paesaggio, e fece amicizia con il poeta lericino Paolo Bertolani, di cui parla in una poesia del 1963, Up at La Serra. In un memoriale intitolato Dove sta memoria Tomlinson ricorda con caratteristica ingenuità questa sua educazione artistica, incontri e scontri. Riferisce che Bertolani vide Lubbock solo da morto, quando nell’agosto del 1965 accompagnò il medico condotto di Lerici nella casa del defunto: un grande corpo che sembrava occupare tutta la stanza, mentre attraverso le persiane abbassate giungeva il vocio dei bagnanti [25].

      Anche Virginia Woolf, ammiratrice di James e autrice di una geniale recensione dell’edizione della corrispondenza curata da Lubbock [26], transitò per Lerici, nel 1933, e la trovò più suggestiva della agiata Rapallo di Max Beerbohm (altro esule raffinato che passò una vita in Liguria). Lerici le sembrò più selvatica, poco mutata dai giorni di Shelley. Ne scrisse nel diario e nelle lettere, e indugiò ripetutamente sul momento del naufragio e sull’attesa spasmodica delle donne nella casa “piena di mare”, “casa ottima di un grand’uomo”:

 

Mary Shelley e Jane Williams passeggiavano avanti e indietro sul balcone della casa qui accanto, aspettando, mentre il corpo di Shelley rotolava qua e là fra le perle – è il più bel letto di morte che io abbia mai visto – [27]

 

All’immagine del corpo di Shelley mosso dalle onde dopo il naufragio dell’Ariel, la Woolf associa il ricordo delle “perle” evocate dall’Ariel shakespeariano a proposito di un’altra morte per acqua: “Quelle sono perle che erano i suoi occhi” [28]. E nell’ultima rapida annotazione della viaggiatrice non si può non vedere un presentimento della morte che la stessa Virginia si diede nel 1941 presso la sua casa inglese nel “letto” sicuramente meno accogliente del fiume Ouse.

            “Non mi piace nemmeno un po’ l’Italia fascista”, annota Woolf nella stessa lettera, “ma zitta!, c’è la camicia nera sotto la finestra, sicché basta”. Negli scritti delle anglotoscane Iris Origo e Lina Waterfield ha un ruolo importante l’antifascismo [29]. La Waterfield in quanto giornalista ebbe diversi incontri col collega d’un tempo Mussolini e ne dà un ritratto penetrante ma anche distaccato, registrando il suo dissenso da tanti anglossasoni (compreso il direttore dell’ “Observer” a cui collaborava) che si ostinavano a lodare il Duce come uomo di pace. Anche Tomlinson nel suo memoriale ricorda che nel dopoguerra il tema del “fascismo” di Ezra Pound tornava nelle sue conversazioni con Bertolani, e naturalmente Tomlinson cercava di giustificare gli errori del poeta americano da lui venerato, attribuendoli al suo amore per l’Italia e alla sua indignazione per i disastri della prima guerra mondiale e gli interessi finanziari a cui egli imputava la regia dei conflitti.

     Sul fascismo esiste un altro contributo legato al Golfo, il breve reportage di Ernest Hemingway,  Che ti dice la patria?, raccolto nei Quarantanove racconti, che alcuni considerano il suo libro più bello. Pubblicato in origine col titolo Italy 1927, ebbe come titolo definitivo una frase nazionalistica di quelle che si cominciarono a leggere sui muri dopo l’avvento del fascismo. Il nuovo titolo voleva anche sottrarre il racconto al genere reportage, dandovi una maggiore dignità letteraria. In realtà esso  comprende tre brevi episodi legati al rapido viaggio automobilistico in Italia che Hemingway e l’amico Guy Hickock fecero nel marzo 1927, non mancando di fermarsi a Rapallo a salutare Pound.

     Nel primo episodio i due amici passano per un paesino sul Bracco e danno un passaggio a un giovane fascista, il quale si comporta in maniera sprezzante nei loro confronti, così rivelando il ridicolo del sussiego fascista. Il secondo episodio, A Meal in Spezia, racconta che gli amici entrano in un ristorante e scoprono che in realtà è una casa di tolleranza, e il narratore prende in giro l’amico imbarazzato dalle attenzioni delle ragazze: è una classica situazione comica, anche se il lettore italiano ride quando il narratore (Hemingway) spiega l’anomalia all’amico sostenendo improbabilmente che “Mussolini ha abolito i bordelli”. Nel terzo episodio, After the Rain, i due americani sulla via del ritorno mentre lasciano Genova in un temporale sono bloccati da un poliziotto che gli dà una multa perché il fango e la pioggia avrebbero reso illeggibile la loro targa: un mero pretesto per angariare gli stranieri  e truffarli (visto che il milite non rilascia una vera ricevuta). Il racconto si conclude con l’affermazione ironica che essendosi trattato solo di un viaggio di dieci giorni “non avemmo la possibilità di capire come stavano le cose nel paese o tra la gente” [30]. In realtà il racconto è una diagnosi simbolica della cupa situazione  italiana a cinque anni dalla Marcia su Roma. Gli esempi di comportamenti negativi non sono di per sé molto significativi, ma tanto basta perché anche Hemingway segnali il suo dissenso dal coro degli estimatori anglosassoni del fascismo, fra cui l’amico Pound. Fra l’altro nella raccolta Men Without Women (1927), Che ti dice la patria? è preceduto dal celebre racconto The Killers, concomitanza forse non casuale (fascismo = gangster). In effetti il caso di Hemingway è interessante visto che diversi maestri della sua generazione, da Yeats a Eliot, Pound e anche Lawrence, furono sedotti in diversa misura dal fascismo. Hemingway percepiva un cattivo odore, di più nel suo racconto non ci dice.

     Nel dopoguerra Lina Waterfield vendette la villa di Poggio Gherardo a Firenze, ereditata dalla zia Janet Ross, e si ritirò alla Brunella per i suoi ultimi anni, quando scrisse la sua autobiografia. (Morì in Inghilterra.) Racconta che, quando Aulla negò uno spazio elettorale ai socialisti, permise che Pietro Nenni tenesse un comizio sulla sua proprietà, sollevando le proteste degli amici benpensanti. “Gli inglesi sono educati a credere nella libertà di parola”, rispose. Riferisce che rientrata ad Aulla, andò a trovare Percy Lubbock, passando delle ore nella loggia sul mare, “leggendo per lui perché stava perdendo la vista e ascoltando la sua conversazione piacevolissima” [31].

    Intanto però altri “inglesi” prendevano il posto della vecchia generazione (Percy e Lina erano entrambi del 1874). A Bocca di Magra si riuniva per le vacanze estive un circolo di intellettuali italiani, una delle cui anime era Nicola Chiaromonte (1905-72), collaboratore del “Mondo” e dell’“Espresso” e direttore con Ignazio Silone del mensile “Tempo presente”. Era vicino alle posizioni progressiste e anticomuniste del gruppo della newyorkese “Partisan Review”, avendo vissuto in America dal 1941. Allo stesso ambiente apparteneva la narratrice e saggista Mary McCarthy (1912-89), che per diversi anni a partire dal 1960 passò l’estate a Bocca di Magra, dove lavorò al suo romanzo più importante e fortunato, Il gruppo, storia di formazione umana e politica di un gruppo di coetanee fra le due guerre, la generazione dell’autrice. Una fotografia raccolta nel volumetto Un fiume da dea ci mostra Mary che conversa in giardino con Charomonte, Natalia Ginzburg, Angiò Levi e il futuro quarto marito Jim West, diplomatico. Altre immagini ricordano le gite a Punta Corvo per il bagno quotidiano, e i pranzi al ristorante la Capannina. Il 30 agosto 1960 Mary scriveva all’amica Hannah Arendt a New York:

 

Principali occupazioni sono la lettura, il nuoto e il gioco degli scacchi. Ci sono barcate di deliziosi bambini, francesi e italiani, che partecipano a tutte le passeggiate, gite in barca ed escursioni sui monti e intervengono nei discorsi degli adulti. Mi sento meravigliosamente bene. [32]

 

A questo mondo incantato della serenità ritrovata dopo la bufera della guerra in un luogo ancora poco frequentato McCarthy dedicò un lungo racconto, I segugi dell’estate, pubblicato sul prestigioso settimanale “New Yorker” il 14 settembre 1963. Non è altro che un resoconto delle conversazioni di questo gruppo di “francesi”, come i locali si ostinano a chiamarli, che si ritengono scopritori del luogo e guardano con diffidenza ogni intromissione. A volte a Punta Corvo arrivano

 

motoscafi eleganti con sci acquatici da Lerici, dagli Hotel Doria, Byron, o Shelley e delle Palme, riversando scrittori, donne di mondo ed editori romani. Un mondo diverso, diverso come le acque blu di Lerici da quelle verdi di Porto Quaglia, un mondo di palme, ville e spianate, ma anche questo mondo veniva accolto... Si combinavano cene comuni in una trattoria di collina famosa per il prosciutto e il pecorino, o nel porticciolo di Lerici... [33]

 

Mary McCarthy rivela la passione americana per il dettaglio preciso, fa in realtà una cronaca, rievocando le piccole tensioni e passioni della villeggiatura a “Porto Quaglia”, cioè Bocca di Magra. Ogni personaggio del racconto ha probabilmente un corrispettivo reale. La narrazione è in terza persona, e la stessa Mary vi compare come la scrittrice americana Elisabeth. Nelle pagine iniziali gli ospiti discutono se sia giusto definire Porto Quaglia “piccolo villaggio di pescatori”. Intorno alla tavolata ognuno dice pigramente la sua. Molti sono ebrei, e anche questo è oggetto di discussione. Il titolo The Hounds of Summer allude a una celebre lirica del vittoriano Swinburne, che si apre evocando “i segugi della primavera sulle tracce dell’inverno”. Chissà su quali tracce si gettano i “segugi dell’estate”. Sembra più un momento di stasi, all’inizio di quegli anni 1960 che tante cose avrebbero cambiato. E McCarthy è una delle anime del cambiamento culturale. (Fu fra le oppositrici della guerra in Vietnam e visitò Hanoi.) I segugi dell’estate è un documento importante di un momento appunto di villeggiatura, fra una tempesta e tante altre che sarebbero seguite.

    Ben diverso era l’ambiente dei giovani autostoppisti che arrivavano a Lerici per soggiornare nel rinomato ostello della gioventù che aveva sede magnifica nel “Castello singolarmente felice” come lo chiamava Henry James. Erano diversi da James e dalla intellettuale sofisticata MacCarthy. Un artista del New Mexico dagli antenati italiani, Drew Bacigalupa, che nel 2002 ebbe il Premio LericiPea come “Poeta e artista ligure nel mondo”,  ricordava in quell’occasione quando era venuto a Lerici negli anni 1950 ed era stato accolto dall’eccentrica animatrice dell’ostello, rievocata da tanti ragazzi di allora:

 

Il fantasma della Madi, quella straordinaria e ora leggendaria Creatura Esotica del Mare che aveva una volta regnato come Patrona dell’Ostello e incantato tutti coloro che vi giungevano, mi apparve per un momento. Braccia spalancate, lunga tunica bianca aderente al corpo mentre emergeva dal mare, trecce di capelli biondi al vento attorno al viso scarno, arringava il suo gruppo di studenti indigenti e vagabondi: “Qui, tesori miei, proprio qui annegò il nostro immortale Shelley, e Byron e altri amici arsero il suo corpo sulla spiaggia”. [34]

 

Forse alcuni degli ascoltatori di questa Maga Alcina furono da lei tratti in inganno, ed è per questo che non di rado nelle biografie affrettate si legge che Shelley perì e fu cremato a Lerici (anziché a Viareggio). Ma il ricordo di Drew Bacigalupa apre una finestra su un altro contesto sociale e culturale, non meno memorabile e curioso dei cenacoli di “Porto Quaglia”.

      A distinguere realtà e leggenda per quanto riguarda Shelley  provvede il biografo inglese Richard Holmes (nato nel 1945), che arrivò a Lerici nell’autunno 1972 mentre preparava una nuova biografia di Shelley. In  seguito Holmes ha scritto un libro fortunato, Footsteps, sulle sue peregrinazioni letterarie, e dedica tutto un capitolo, Esuli, ai giorni trascorsi a Lerici, dove passeggia sulle tracce dei poeti e insieme riflette su documenti e ipotesi [35]. Nato dopo la guerra, egli sente un’affinità con i principi libertari dei grandi romantici, li vede come precorritori delle contestazioni e dell’anticonformismo della generazione che è stata adolescente negli anni 1960. Questo rende Footsteps più interessante delle stesse biografie, come storia non di Shelley o Wordsworth, ma di Holmes e della sua generazione e delle sue letture.

            Holmes non sarà certo l’ultimo dei pellegrini sulle orme di Shelley e Byron, “segugi” inebriati dalla visione panica di un luogo a cui si sovrappongono parole e storie legate a momenti fra i più importanti della cultura anglosassone. Shelley vi concepiva il suo Trionfo della vita, che parte da un’immagine dantesca ma esprime la sua dialettica politica, giacché i personaggi del corteo sono potenti e pensatori passati e presenti: Napoleone, Rousseau... Così altre guerre e altri dominatori sono presenti nei pensieri degli uomini e delle donne di cui abbiamo ascoltato le voci. Il Golfo è un osservatorio privilegiato partendo dal quale è possibile tracciare una breve storia di due secoli di cultura europea come l’hanno vissuta e ripensata a confronto con i “flutti senza maree”  alcuni suoi protagonisti.

            Per conservare la memoria di questi personaggi piccoli e grandi, di cui molti ancora da scoprire, sarebbe opportuno creare un sito in rete dedicato agli artisti e viaggiatori italiani e stranieri vissuti o transitati nel Golfo, o se si vuole in Liguria. Un modello assai ricco è il Museo Virtuale Territoriale (www.muvit.it) curato dalla Provincia di Salerno per la costiera amalfitana, un altro luogo d’elezione del mondo artistico e turistico internazionale. Si tratta di fornire una piattaforma aggiornabile, dove di giorno in giorno si possono aggiungere informazioni, immagini, documenti.

             C’è sempre stato un dialogo fra i residenti e gli ospiti che essi guardano qualche volta con sospetto, più spesso con simpatia. (Era Mary Shelley che trovava inspiegabili e sinistri i riti selvaggi e la lingua degli abitanti di San Terenzo.) In realtà sono spesso questi visitatori ad aver scritto per la noi la storia della nostra regione, ed essi stessi ne sono parte cospicua. Da ciò la necessità di conservarne le testimonianze prima che divenga irrecuperabile, ma anche di salvaguardare quel mondo vicino eppure remoto che li ispirò, e che inevitabilmente è da più parti minacciato.

 

 

NOTE

1. Shelley, Opere, a cura di F. Rognoni, Einaudi, Torino 1995, p. 1301.

2. Ibid., p. 1309 (18 giugno).

3. Ibid., p. 1311.

4. Vedi anche G. Biagi, Gli ultimi giorni di P.B. Shelley (con nuovi documenti), Firenze 1892, rist. Mauro Baroni editore, Viareggio 1992. Testi e documenti  relativi a Shelley e Byron sono raccolti fra l’altro nel volume Viaggio in Italia. Un corteo magico dal Cinquecento al Novecento, a cura di G. Marcenaro e P. Boragina, Milano, Electa, 2001.

5. Ibid., p. 1312.

6. La più celebre nella commossa conclusione dell’elegia per John Keats, Adonais, spesso letta (a cominciare da Mary) come un’anticipazione della sua stessa fine.

7. Byron's Letters and Journals: Volume X, “A heart for every fate”, 1822-1823, a cura di L. A. Marchand, Harvard University Press, Cambridge Mass. 1980, pp. 12-13.

8. Ibid., p. 28.

9. Dal diario di C. Williams, 18 maggio, cit. in Shelley, Letters from Abroad, Translations and Fragments, a cura di M. Shelley, 1840, vol. 2.

10. Vedi U. Mazzini, Lord Byron a Portovenere?, “Rassegna Nazionale” 21 (16-1-1899), pp. 3-4.

11. Ibid. Vedi anche il documentato volume di M. Curreli, Grandi soggiorni: Paradise of Exiles. Catalogo della mostra..., Pacini, Pisa 1985, pp. 84-85.

12, Un figlio di Henrietta, Girolamo Pieri-Nerli (1863-1926), fu pittore di un certo rilievo, specie in Australia e Nuova Zelanda dove si stabilì a lungo, prima di rientrare in patria e morire a Genova. E’ soprattutto ricordato per un notevole ritratto di R.L. Stevenson realizzato a Samoa e conservato a Edimburgo.

13. U. Mazzini, Lord Byron a Portovenere?, cit., p. 4.

14. Per il testo attuale v. M. Bacigalupo, Grotta Byron, Campanotto, Pasian di Prato 2001, p. 106. Ancora più irritato di U. Mazzini a proposito delle leggende perpetrate da questa e altre targhe è M. Curreli, Golfo dei poeti, lapidi bugiarde e altri miti, “Soglie” 6.2 (2004), pp. 19-44.

15. Vedi H. James, Ore italiane, trad. di C. Salone, Garzanti, Milano 2006, pp. 148-49.

16. Ibid.

17. E. Pound, Canti postumi, a cura di M. Bacigalupo, Mondadori,  Milano 2002, pp. 92-93. Cfr. M. Bacigalupo, La scrittura dei Cantos, “Lingua e letteratura” 16, 1991, pp. 62-64. Per un’ulteriore riflessione poetica su questa vicenda di lapidi e letture v. C. Vita, Illusioni ottime, Campanotto, Pasian di Prato 2006, pp. 25, 105-7.

18. Byron, Written After Swimming from Sestos to Abydos, Poetical Works, Oxford 1904, p. 58.

19. D.H. Lawrence, Letters, a cura di  G. J. Zytaruk e J. T. Boulton, Cambridge University Press, Cambridge 1981, III, p. 123 (18 dicembre 1913).

20. Ibid., p. 118.

21. Ibid., p. 84.

22. L. Waterfield, Castle in Italy: An Autobiography, Crowell, New York 1961, pp. 137-8.

23. Ibid., pp. 259-60.

24. Vedi A. Bertollo, Amore inglese a Portofino. I Brown nel Tigullio..., Gribaudo, Cavallermaggiore 1994.

25. Vedi C. Tomlinson, In Italia, Garzanti, Milano 1995, pp. 273-75. 

26. Vedi V. Woolf, Henry James 3, in The Death of the Moth and Other Essays, 1942.

27. V. Woolf, Letters, Volume 5, 1932-35, a cura di N. Nicolson e J. Trautmann, Harcourt Brace, New York 1982, p. 187 (18 maggio 1933). Nell’originale della Woolf c’è una svista: “Mrs Shelley and Mary Williams [sic] walked up and down the balcony of the house next door waiting while Shelley’s body rolled round with pearls – it is the best death bed place I’ve ever seen –”.  Le citazioni precedenti sono tratte da The Diary of Virginia Woolf, a cura di A. O. Bell e A. MacNeillie, Harcourt Brace, New York 1982, p. 155 (12 maggio 1933).

28. W. Shakespeare, The Tempest, 1.2. L’associazione fra la canzone subacquea di Ariel e Shelley è canonica in quanto i versi conclusivi della canzone sono riportati sulla tomba del poeta a Roma: “Nulla di lui che svanirà, ma subirà un mutamento marino, in qualcosa di ricco e strano”.

29. Vedi I. Origo, Guerra in val d'Orcia. Diario 1943-1944, trad. di E. Dallolio e P. Ojetti, Le Balze,  Montepulciano 2000.

30. E. Hemingway, Tutti i Racconti, a cura di F. Pivano, Mondadori, Milano 1990, p. 334.

31. L. Waterfield, Castle in Italy, cit., p. 268.

32. M. McCarthy e altri, Un fiume da dea, con una nota di Z. Birolli, Edizioni Capannina, Bocca di Magra 1998, p. 32.

33. M. McCarthy, The Hounds of Summer and Other Stories: Mary McCarthy’s Short Fiction,

Bard/Avon Books, New York 1981, p. 202.

34. D. Bacigalupa, Mystical Journey: Campania and Liguria, 2002, The Studio of Gian Andrea, Santa Fe 2005, p. 79.

35. R. Holmes, Footsteps: Adventures of a Romantic Biographer, Penguin, London 1985, pp. 133-98.