Massimo Bacigalupo

lunga vita alla regina dell’impero perduto

La mitica regina Vittoria che diede il suo nome a una delle età più floride dell’Inghilterra regnò 63 anni e 217 giorni, dal 1837 al 1901. La sua trisnipote Elisabetta II batte oggi, a 89 anni, questo record, diventando il monarca inglese dal regno più lungo in assoluto. Chi c’era ricorda ancora le vecchie zie che corsero al cinema a vedere il film  dell’incoronazione del 1953 e del viaggio che Elisabetta e Filippo compirono nei territori dell’impero britannico. In 63 anni questi territori sono perlopiù indipendenti, le colonie non ci sono più o quasi, e persino la Scozia e il Galles minacciano di rendersi autonomi.

Dunque una sola tranquilla e ben regolata persona, Elisabetta Windsor, ha visto passare sotto gli occhi questi e altri enormi cambiamenti. Confermando tuttavia l’importanza dell’istituzione, approvata dalla maggioranza degli inglesi più dei tanti governi che si sono succeduti sotto il suo regno, da Churchill a Cameron. Fermezza (l’illusione simbolica della continuità) e adattabilità sono le cifre che hanno permesso ad Elisabetta di superare le peggiori crisi, sia personali (il matrimonio fallito di Carlo e la morte di Diana, i divorzi dei figli) che pubblici (la richiesta di maggiore trasparenza e tagli in materia di spese, gli screzi con Margaret Thatcher, l’abbandono dell’amato yacht reale “Britannia” – l’unica occasione in cui Elisabetta abbia pianto in pubblico).

Dietro ai reali c’è sempre un sistema di pubbliche relazioni, teso a riparare ai danni e a indicare migliori scelte d’immagine. Nel 1969 ci fu persino un documentario televisivo teso a mostrare la famiglia reale come simile a tutte le altre, a colazione col giornale e il tè. Ma si capì presto che la monarchia è amata perché sa mantenere un profilo alto e le necessarie distanze. Così quando finalmente Buckingham Palace è stato aperto al pubblico e milioni di visitatori sono accorsi questo è apparso non come una vittoria estorta ma come una gentile concessione.

La regina sa essere amabile, ma senza esagerare. Quando conferisce una onorificenza, come l’ordine al merito o il cavalierato, parla benevolmente agli interessati, gli chiede del loro lavoro, lasciandoli compiaciuti e un po’ divertiti. Anche un democratico come il drammaturgo Alan Bennett l’ha inclusa nel suo lavoro “Una questione di attribuzione”, dedicato alla vicenda della spia Anthony Blunt, che era il consulente della regina per la sua collezione di dipinti. Nella commedia Elisabetta, che è al corrente del passato di Blunt (cui era stato garantito il segreto per 15 anni in cambio dell’indicazione delle altre talpe), parla con Blunt di un famoso falsario di Vermeer, ma tutta la conversazione ha doppi sensi, e poi Blunt dice: “Io ho parlato di falsi, lei non so”. Cioè Bennett presenta Elisabetta come una volpe serena che conosce gli uomini e i loro punti deboli e sa giocare con arguzia.

Di grande effetto è stato il film “La regina” di Stephen Frears su un ottimo copione di Peter Morgan con Helen Mirren nella parte di Elisabetta. Chi l’ha visto sa che tratta della vera e propria crisi della monarchia seguita alla fine di Diana, quando i reali per un po’ sembrarono non accorgersi di quanto era avvenuto e soprattutto dell’eco che aveva avuto nei cuori degli inglesi. Nel film, come nella realtà, la regina di piega alla richiesta dei sudditi e anticipa il rientro a Londra per partecipare simbolicamente al cordoglio nazionale, trasformando ancora una volta una sconfitta in un’occasione per riaffermare la propria centralità come dignitoso e partecipe (ma non troppo) simbolo della nazione. Dunque Elisabetta accende l’immaginazione di scrittori e romanzieri, che se ne valgono sia per l’interesse intrinseco del personaggio (come in un quadro di celebrità di Andy Warhol, che in effetti la ritrasse nel 1985), sia attribuendole la capacità misteriosa di navigare i flussi agitati della storia, fra vecchio e nuovo.

La City di Londra rimane il centro finanziario più ricco del mondo, ma nel Paese non mancano i ghetti, nonché l’anonimità delle periferie: la terra desolata decritta da T.S. Eliot già nel 1922, sotto il regno del nonno di Elisabetta, e ancora nel dopoguerra da un altro grande poeta di questa Inghilterra impoverita e intristita, Philip Larkin.

Né Eliot né Larkin è stato fra i “poeti laureati” della Corona, scelti dal governo di turno, i quali hanno presentato una visione più ottimistica anche se non ingenua della vita inglese. Fra questi Ted Hughes, che vuol ritornare alla forza indomita della natura, già molto amico della regina madre. O l’attuale poeta laureato, la bravissima Carol Ann Duffy, che include senza clamore la sua omosessualità in versi assai arguti e spesso rivolti alla nazione.

Quando Duffy è stata presentata alla regina, si sono intrattenute su Kipling, i cui versi popolareschi Elisabetta ha dichiarato di apprezzare, rivelandosi ancora una volta di condividere i gusti non necessariamente raffinati dei suoi sudditi.

La ribelle laureata Duffy è un bell’esempio della  capacità ammirevole della cultura inglese di vivere degnamente la modernità, capacità di cui Elisabetta ha saputo essere (o sembrare) affidabile interprete.

“il Secolo XIX”, 9 settembre 2015