Massimo Bacigalupo
Pasqua di Eliot
“Anche, ciò nondimeno, diciamo che Venerdì è santo”. E’ la conclusione
della sezione IV di East Coker, uno
dei Quattro quartetti di T.S. Eliot,
pubblicato in tempo di guerra (1940). Nell’originale c’è un gioco di parole
difficile da rendere. In inglese Venerdì Santo si dice “Good Friday”, sicché il
verso di Eliot, discepolo dei secentisti John Donne e George Herbert (entrambi
fra l’altro ministri anglicani), legge: “Again, in spite of this, we call this
Friday good”. “Diciamo che questo Venerdì è buono”.
Buono, intende Eliot, per gli effetti del sangue versato da Gesù, di cui si
parla nei versi precedenti, anche se in maniera allusiva, richiamando l’Ultima
Cena: “Il sangue sgocciolante la nostra sola bevanda, / la carne sanguinante il
nostro solo cibo...”.
Con i Quartetti, che sono un po’
il coronamento della sua opera, Eliot scrive un poema cristiano, impregnato di
simboli e temi della tradizione, sfuggendo però alle secche confessionali. Il
cristianesimo è assunto come tutt’uno con la cultura europea, suo linguaggio
simbolico, esempio familiare al lettore contemporaneo di una visione
spirituale, ascetica e soprattutto poetica che Eliot intende riproporre. In
questa prospettiva piuttosto universalistica, in cui alla figura di Gesù si
associano quelle di Buddha e Krishna, Eliot, nonostante la sua conversione
anglocattolica, in fondo ritorna alla confessione della sua famiglia americana,
l’Unitarianesimo, che dal Settecento è andato via via divenendo più una fede antidogmatica
dei buoni pensieri e delle buone opere (un maligno affermò una volta che gli
unitariani “credono... nell’acqua calda”).
Eliot riflette su labili esperienze e intuizioni con quella lenta voce che
vuole rifarsi al fraseggio meditabondo degli ultimi quartetti beethoveniani:
Ma mano che invecchiamo
Il mondo diventa più strano, la
trama più complicata
Dei morti e dei vivi. Non il momento intenso,
Isolato, senza prima o dopo,
Ma una vita che brucia in ogni momento
E non la vita di un solo uomo
Ma di vecchie pietre che non si possono decifrare.
Cioè al momento della folgorazione, alla passione giovanile, si
sostituirebbe questa continuità semplice e arcana, e il senso di appartenenza a
una cultura secolare che però è lungi dal prestarsi a una interpretazione
univoca. Il tono del discorso è abbastanza prosaico, salvo nelle liriche che si
inseriscono nella compagine. Come quella appunto sul Venerdì “buono”. Che
incomincia “Il chirurgo ferito impugna il bisturi”, cioè Gesù insieme ferito e
feritore, forse come nell’estasi di Santa Teresa raffigurata dal Bernini.
Alcuni a questo Eliot maturo e un po’ molto “reverendo” (com’egli stesso si
definiva in una poesia dei trent’anni, La
funzione domenicale di Mr. Eliot) preferiscono l’Eliot ironico e persino
sguaiato delle opere precedenti la conversione (1927), e il cabaret profetico di
La terra desolata. Ma ancora di
recente un drammaturgo inglese confessava che Quattro quartetti era un libro senza cui non poteva vivere.
Come si sa, ogni Quartetto è ispirato a una stagione e a un elemento. East Coker è il quartetto dell’Estate e
della Terra, e infatti prende il nome dal villaggio nella campagna del Somerset
da cui partirono gli Eliot che attraversarono l’Atlantico nel ’600. Qui sono oggi
tumulate le ceneri del poeta, sotto una modesta targa che invita a pregare “per
il riposo della sua anima” e riporta i versi iniziali e finali di East Coker: “Nel mio principio è la mia
fine... Nella mia fine è il mio principio”. Cioè ogni cosa contiene il principio
della propria dissoluzione, e la fine del viaggio si ricollega all’inizio. Ma anche
dalla dissoluzione ricomincia la vita (o, cristianamente, dalla morte la rinascita).
Così con questo linguaggio vagamente oracolare ma anche umile Eliot riesce
a tessere la sua tela di suggestioni musicali. Nel 1943, quando raccolse i Quartetti in un unico volume, aveva solo
55 anni. In seguito scrisse pochissima poesia e drammi abbastanza fortunati che
riprendono i temi della redenzione della quotidianità in un contesto salottiero
che oggi suona datato. In Italia Cocktail
Party (1950), ammirato e spigolato da Montale, passò addirittura diverse
volte in TV, con Renzo Ricci e compagni.
Oggi una ripresa a New York in un piccolo teatro è stata accolta soprattutto
come una curiosità. Eliot venerava Shakespeare (oltre a Dante) e la via del
teatro parve praticabile alla sua formidabile intelligenza. Ma qui la genialità
che è presente in tutte le poesie maggiori (che poi non sono molte) aveva
scarso modo di esprimersi, e il successo immediato non si è confermato sulla
lunga durata, per quanto all’epoca lusinghiero (e lucroso) per il
poeta-drammaturgo. Sull’Eliot pubblico, fotografatissimo per quanto
proverbialmente riservato, si può vedere su YouTube un notevole documentario realizzato
nel 2009 dalle produzioni Arena per la
BBC.
Recentemente mi è capitato di ritradurre i testi fondamentali di Eliot per
la collana “Un secolo di poesia” curata per RCS-Corriere della Sera da Nicola
Crocetti, in un volume intitolato Il
sermone del fuoco. Titolo che la sezione V di La terra desolata mutua da un testo fondamentale del buddhismo, e
che ben si addice al carattere purgatoriale dell’opera eliotiana, nonché se si
vuole alla sua natura di “sermone” di un reverendo laico. In particolare nella sezione “Il sermone del
fuoco” di La terra desolata si parla
di amori carnali, della vita banale delle impiegate della City e dei loro
amanti “foruncolosi”. Eliot dà la parola a tre “Figlie del Tamigi” che narrano
le tristi circostanze dei loro amori (non senza richiamare, oltre a Wagner, la
dantesca Pia): “Tram e alberi polverosi. / Highbury mi ha fatta, Richmond e Kew
/ disfatta. A Richmond alzai le ginocchia / supina sul fondo di una stretta
canoa”.
Spesso si dice che le allusioni di Eliot a miti e classici (celebri le sue
“Note” a La terra desolata) ), come
qui a Pia, rivelano la degradazione e futilità del presente. In realtà questo
canto-lamento della giovane rassegnata a un meccanico sesso domenicale rivela
anche molta pietà. E identificazione. L’angoscia di Eliot è reale ed egli
continua a interrogarsi su “questa materia che fra me e me troppo dibatto / troppo dispiego”, come
dirà in Mercoledì delle ceneri, il
poema della conversione, del neofita che si ubriaca di mariolatria e può finalmente
recitare un rosario di litanie. (Nel 1994 i suoi Scritti su Dante sono stati riuniti in volume da Roberto Sanesi,
suo fedele anche se non sempre preciso interprete italiano.)
Si potrebbe dunque parlare di un ciclo pasquale in Eliot, con la ripresa
simbolica dei momenti liturgici (le Ceneri, la Pentecoste nel Quartetto del
Fuoco, Little Gidding) e della stessa
Passione, allusa all’inizio della sezione ultima di La terra desolata:
Dopo la fiamma rossa delle torce su facce sudate
Dopo il silenzio di gelo nei giardini
Dopo l’agonia in luoghi pietrosi
Le urla e i lamenti
Prigione e palazzo e riverbero....
I fatti evangelici sono rielaborati in una combinatoria onirica, assunti in
un ritmo cadenzato e potente, proiettati come altrettante nitide immagini
infinitamente interpretabili. Figlio dei puritani, Eliot non si stanca di
edificare noi e se stesso nel suo sermone, ma le vie divine restano sfuggenti
sicché nella sua migliore poesia, anche nei Quartetti,
ci accompagna in una condizione problematica, non fideistica. Ed è solo la
continuità della ricerca e diciamo il presentimento (unitariano) di una “forma
universale” che gli permette di mormorare in conclusione ai Quartetti le parole di una mistica
inglese:
Tutto sarà bene e
Ogni genere di cosa sarà bene....
“Il Manifesto”, 8 aprile 2012
Nota
Di T.S. Eliot (St. Louis, Missouri, 1888-Londra,1965) Newton Compton
ripropone Poesie 1905/1920, a cura di
Massimo Bacigalupo (edizione riveduta, 2012, pp. 157, €4,90). Comprende le prime due raccolte: Prufrock e altre osservazioni (1917) e Poesie (1920), con ampio apparato
critico. Bacigalupo ha anche curato l’antologia poetica Il sermone del fuoco (RCS-Corriere della Sera, 2012, pp. 231, €
7,90), con nuove traduzioni di La terra
desolata, Gli uomini vuoti, Mercoledì delle Ceneri, Quattro quartetti, Animula, ecc. In Inghilterra sono usciti nel 2009 i primi due
massicci volumi delle Letters
(Faber). Entro la fine del 2012 sarà avviata la pubblicazione in formato
digitale delle prose, compresi i testi dispersi (Complete Prose, 8 voll., Johns Hopkins U.P.). Sui contesti
socioculturali e la ricezione dell’opera si veda il recente T.S. Eliot in Context (Cambridge U.P.,
2011). Un’equipe in parte italiana, diretta da Gianni Cianci, ha curato T.S.
Eliot and the Concept of Tradition (Cambridge U.P., 2007).