Massimo Bacigalupo
Mortara, un’antropologia degli scrittori ebraico-americani
Ventritré profughi ebrei brasiliani sbarcarono nel 1654 a Nuova Amsterdam, che nel 1664 sarebbe stata ribattezzata New York. Oggi negli Stati Uniti vi sono 6 milioni di ebrei, suppergiù quanti gli abitanti di Israele, e una buona parte di essi vive ancora sulle coste e colline della Baia di New York. Due ottimi libri ci presentano il passato e il presente della vita e cultura ebraica americana, allargando le nostre conoscenze su un argomento vastissimo per cui servono guide organiche e intelligenti: come queste.
Elèna Mortara è una nota studiosa di letteratura americana, che ha avuti rapporti personali con scrittori come Bernard Malamud e a essi ha dedicato anni di studi. Il suo libro Letteratura ebraico-americana dalle origini alla shoà (Litos, pp. 346, 15,00) è dedicato al periodo che precede il boom degli scrittori ebrei americani del secondo ’900 (Bellow, Singer, Roth ecc.), e pertanto colma una lacuna. La prima parte offre un nitido profilo storico, dalla lotta per l’eguaglianza dei diritti, sancita con l’Indipendenza, allo spalancarsi delle porte alle masse dell’Europa orientale e meridionale a fine ’800. Nascono allora i quartieri ebraici, il sovraffollamento e lo sfruttamento nella Lower East Side. Fra i più notevoli testimoni dell’epoca è Abraham Cahan, fondatore nel 1897 del giornale yiddish “Forverts” e autore di L’ascesa di David Levinsky (1916), uno dei capolavori della letteratura americana tout court, tanto che si direbbe che i romanzieri del dopoguerra poco hanno aggiunto alla straordinaria vividezza del suo racconto. Eppure questo romanzo imperdibile non è mai stato tradotto in italiano.
Venendo al primo dopoguerra, Elèna Mortara evoca autori ingiustamente trascurati quali Edna Ferber e Anzia Yezierska, e ricorda con Gertrude Stein un esempio di scrittrice d’avanguardia che si fa interprete dell’America scrivendo addirittura una stramba epopea nazionale, Come sono stati fatti gli americani, e componendo melodrammi di tema femminista e gusto dadaista. Getrude era la celebre amica di Picasso e Hemingway, che la bistrattò nelle memorie di Una festa mobile. Mortara ricorda che nel 1915 fu rifondato il Klu Klux Klan, organo del terrore protestante contro neri, ebrei e cattolici, e nello stesso anno Griffith lo celebra nel suo capolavoro politicamente scorretto Nascita di una nazione. Negli anni ’20 i letterati modernisti guardano con diffidenza all’ebreo. C’è il gangster con i gemelli-molari ai polsi nel Grande Gatsby, e c’è Cohn, il guasta-Fiesta di Hemingway, tutto il contrario del forte e silenzioso eroe hemingwayano. E fra i poeti Eliot presenta l’ebreo in una luce sinistra nelle poesie del 1920, mentre in Europa Joyce lo celebra come novello Ulisse. Forse l’ebreo, apolide errante, è una autoproiezione odiosamata di esuli per scelta quali Pound, Eliot e Joyce. Prima di perdere la bussola alla fine degli anni 1930 e inveire contro i Rothschild e i banchieri ebrei alla radio italiana, Pound è il mentore del gruppo tutto ebraico e marxista dei poeti “oggettivisti” (Zukofsky, Reznikoff, Oppen). Insomma, l’ebreo domina l’immaginazione americana degli anni ’20-30, forse perché gli scrittori sono nati nel periodo dell’immigrazione di massa e vedono cambiare il paese sotto i loro occhi.
Negli anni ’30 i letterati ebrei diventano così numerosi che Mortara si accontenta di un elenco, in cui appaiono personaggi del livello di Michael Gold, Nathaniel West, il drammaturgo Clifford Odets e tanti altri, cui si potrebbe aggiungere Dorothy Parker, amica di Fitzgerald a Hollywood, e gli intellettuali antistalinisti che nel 1934 fondano la “Partisan Review” e diventano la coscienza dell’America progressista.
La parte II di Letteratura ebraico-americana affronta alcuni grandi temi: la metafora del “crogiolo”, cioè il conflitto fra integrazione e identità culturale; la stessa definizione di letteratura ebraica; la sopravvivenza della cultura yiddish dopo la catastrofe. Nella parte III Mortara dà conto di singole figure di grande rilievo. in primis Emma Lazarus, amica di intellettuali come Emerson e James, autrice di Canti di una semita (1883) e della poesia Il nuovo colosso che è iscritta sul piedistallo della Statua della Libertà: “Datemi le vostre masse stanche, povere, / piegate che aspirano a respirare libere, / i rifiuti disgraziati delle vostre sponde pullulanti. / Mandate costoro, i senzapatria, sballottati dalla tempesta, a me, / io innalzo la mia lampada presso la porta d’oro!”. Parole che molti immigrati americani portano ben incise nella memoria.
La galleria di approfondimenti continua con Henry Roth, autore del formidabile romanzo di immigrazione e formazione Chiamalo sonno, questo sì anche noto in Italia, il ricco umanesimo religioso di A.J. Heschel, e infine le stravaganze del Canone occidentale di Harold Bloom. Perché, chiede Mortara, Bloom esclude la Bibbia da questo Canone? Ohibò! Ma ha facile gioco a dimostrare che la Bibbia è dappertutto nella critica-romanzo di Bloom, e ci rimanda opportunamente alle pagine d’apertura su Odissea e Abramo e Isacco di Mimesi di Auerbach, altro esule ebreo che approdò in America. Letteratura ebraico-americana di Elèna Mortara è un libro ben più modesto nell’impostazione funzionale del “sublime” Bloom, ma assai più utile e leggibile nel far apparire delle grandi figure, da Cahan a Lazarus a Kafka, con cui vorremmo intrattenerci più a lungo (come del resto con Elèna Mortara).
Un tempestivo e affidabile aggiornamento dell’ultima ora è invece il volume di Maurizio Molinari, Gli ebrei di New York (Laterza, pp. 235, 16,00), perlustrazione a tappeto dei mille luoghi in cui nella capitale economica Usa si esplica la vita ebraica, dalle comunità più tradizionali dove il sabato tutto si ferma, ai giornali, alle sale da concerto, alle stanze dei bottoni della politica. Qui i personaggi si chiamano Henry Kissinger (nato in Baviera nel 1923) e Punch Sulzberger, l’attuale direttore del “New York Times”, Woody Allen col suo clarinetto e Norman Podhoretz col suo pensiero arroccatamente conservatore, l’architetto Daniel Libeskind che si batte con l’imprenditore Larry Silverstein per la ricostruzione del sito delle Torri gemelle (la Freedom Tower di 1776 piedi per celebrare l’anno dell’Indipendenza). E Robert Moses, il discusso costruttore che con ponti e autostrade ha cambiato in cinquant’anni il volto della città.
L’affascinante libro di Molinari, frutto di una conoscenza senza pari di New York, è diviso in sei parti: Il popolo, La religione, La politica, Israele, Il business, Arti lettere e sport. Sentiamo tutto e il contrario di tutto, democratici e repubblicani, sionisti e antisionisti (fra cui alcune comunità ultraortodosse che osteggiano Israele perché stato laico). Jack Rosen, nato nel 1947 da ebrei polacchi rifugiati a Günzburg, è uno dei principali finanziatori dei democratici, e ha rapporti personali con Castro, il re saudita Abdullah, Musharaff, Ted Kennedy, G.W. Bush ma soprattutto Bill Clinton. Dopo la dichiarazione di disponibilità di Musharaff all’American Jewish Congress orchestrata da Rosen nel 2005, “un uomo d’affari pakistano-americano tradisce soddisfazione: ‘Musharaff ha finalmente chiarito che noi non siamo arabi, in quanto musulmani possiamo avere un rapporto normale con Israele e con gli ebrei’”.
Maurizio Molinari ha scritto un libro prezioso, ricco di dati raccolti da un inviato assetato di informazioni e dichiarazioni. (E’ corrispondente della “Stampa” dagli Stati Uniti.) Ma tutto nelle sue pagine è circostanziato e vitale, nulla è lasciato in sospeso o affidato a facili generalizzazioni. Ci misuriamo con un pullulare di fenomeni, dove una storia antichissima si incontra con il mondo d’oggi che ci scorre sotto gli occhi in tutta la sua varietà.
“Il Manifesto-Alias”, 10 marzo 2007