Quel che segue è il contributo di
Massimo Bacigalupo a I limoni. La poesia in Italia nel 1997 (Caramanica,
Marina di Mintuno 1998, a cura di Francesco De Nicola - Giuliano Manacorda).
Massimo
Bacigalupo
Dickinson in italiano
La pubblicazione nel
giugno 1997 di Tutte le poesie di Emily Dickinson nei Meridiani Mondadori
offre l'occasione di riconsiderare brevemente le traduzioni italiane di questa
ardua e fortunata autrice americana. Intanto, avvertiamo che su di lei in
Italia non esiste una monografia critica aggiornata — solo due libretti di
Emilio e Giuditta Cecchi (1939) e Biancamaria Tedeschini Lalli (1963) (1). I
saggi e interventi sono tanti, e scritti da critici come Montale, Praz, Cambon,
Izzo, Gorlier, e alcuni dei principali anglisti oggi attivi, ma cercheremmo
invano fra le montagne di carta stampata che producono i nostri saggisti e
studiosi un contributo corposo sul massimo poeta donna di tutti i tempi. Le
traduzioni invece non si contano, poiché Dickinson gode da decenni di uno
straordinario successo di vendite, e non c'è editore grande o piccolo che non
l'abbia in catalogo. D'altra parte, fra tante traduzioni solo tre, prima
dell'edizione completa, hanno presentato una scelta sufficientemente
rappresentativa dell'opera (350-400 poesie su un totale di 1775), sicché non
dispero di dare un quadro sintentico di questa vicenda lunga e intricata.
La prima scelta italiana di Dickinson uscì
nel 1947 a Firenze a cura di Margherita Guidacci, subito seguita da quella di
Marta Bini, con testo a fronte (1949). Erano due volumetti, tradotti con
finezza, partendo dalle poco affidabili edizioni di Dickinson accessibili alle
traduttrici. Nel 1945 era apparso Bolts
of Melody, prima edizione accurata di testi dickinsioniani (668 poesie
inedite), ma il volume non era ancora arrivato in Italia. Guidacci raccontava
di aver tradotto a Firenze sotto le bombe. Come conseguenza le traduzioni non
presentano l'aspetto grafico delle poesie della Dickinson in seguito divenuto
familiare fino a essere quasi una sua firma: maiuscole e minuscole irregolari,
scarsezza di punteggiatura convenzionale, sostituita quasi sempre da trattini.
I testi che Guidacci consultò erano stati regolarizzati tipograficamente dai
curatori, nonché spesso ritoccati nelle asperità di rima e senso. Guidacci
continuò ad aggiungere testi alla sua traduzione, fino a darne 407 nel volume Poesie
e lettere (1961), e in ultimo utilizzò la prima edizione critica
americana pubblicata nel 1955 da Thomas H. Johnson, ma anche nelle traduzioni
più tarde continuò a usare parcamente i trattini di Dickinson, e a tralasciare
le maiuscole simboliche o enfatiche di Emily. Anche a livello di lessico e
sintassi, Guidacci tende ad addolcire le asperità, il nervosismo e lo scatto di
Dickinson. Scrive un bell'italiano
semplice e scorrevole:
Oggi mi sento triste per
i morti.
Hanno ore così liete
i vecchi dietro agli
steccati.
E' la stagione del
fieno... [529]
Non potevo fermarmi per
la Morte.
Essa, benigna, si fermò
per me.
Il cocchio conteneva noi
due sole
e l'Immortalità... [712]
E' una Dickinson con la
sordina, fedele al carattere spoglio e dimesso dell'originale, un mondo
quotidiano. Ma si perde un poco la dinamica e l'inaspettato presenti nei testi.
La punteggiatura regolare guida la lettura, non ci lascia incerti su come
collocare una frase finché non l'abbiamo decifrata. Tuttavia Guidacci lavorò bene e solidamente,
quasi sempre penetrando un originale che presenta non pochi problemi. Un lavoro
d'amore e d'intelligenza.
Alla traduzione Guidacci seguì quella
egualmente corposa di Guido Errante, che ebbe una prima versione nel 1956
(criticata dal recensore Montale per la forzatura delle rime) (2) e una seconda
edizione completamente riveduta sulla base dell'edizione Johnson nel 1959 (349
poesie, ediz. riv. 1966). Errante era più al corrente di Guidacci sul dibattito
americano intorno a Dickinson, e forniva ampie delucidazioni nelle note, oltre
a un eccellente saggio introduttivo; a differenza di Guidacci, rispettava il
trattino di Emily:
Non potevo fermarmi per
la morte —
E lei, cortese, si fermò
per me —
Nella carrozza c'era
solo posto
Per noi due — e
l'Immortalità... [712]
Confrontiamo le due
versioni di un altro testo:
How
many times these low feet staggered —
Only
the soldered mouth can tell —
Try
— can you stir the awful rivet —
Try
— can you lift the hasps of steel! [187]
Guidacci:
Quante volte i suoi
umili piedi hanno vacillato
solo la bocca serrata
può dire.
Prova! Puoi forse
smuovere questi orribili chiodi?
Prova! Puoi forse aprire
quei lucchetti di acciaio?
Errante:
Quante volte hanno
vacillato
Questi umili piedi,
solamente
La bocca suggellata può
dire —
Provati — puoi l'orrendo
chiodo smuovere —
Puoi sollevare i raffi
dell'acciaio?
Guidacci è preferibile
perché conserva la quartina e il parallelismo dei versi 3-4. Errante introduce
un enjambement alla fine del verso 2, snaturando l'andamento del testo.
Tuttavia in certi punti egli è più letterale (soldered è suggellata più
che serrata; awful rivet è chiodo al singolare, non al plurale). Insomma, la
traduzione di Errante è uno strumento utile e aggiornato — troppo forse: parla
molto nell'introduzione del presunto lesbismo della Dickinson, e le novità del
1959 suonano risapute o superate qualche decennio dopo. Ma non si può negargli
di aver approfondito e amato Dickinson non meno di Guidacci.
Altre scelte ridotte uscirono negli anni '70
e '80 (Barbara Lanati, Ginevra Bompiani, Gabriella Sobrino, Nadia Campana,
Silvio Raffo). La tendenza prevalente e più interessante è rappresentata dalle
versioni Lanati, che seguono fedelmente punteggiatura e ortografia, e
tratteggiano una lettura ermetica, femminile nonché politica, di Dickinson. A
questa tendenza, diciamo una Dickinson donna letta da donne, si può riferire
anche una scelta venuta molto dopo, La bambina cattiva - settanta poesie
(1997), a cura di Bianca Tarozzi, poeta e anglista:
C'è chi celebra la Festa
andando in Chiesa —
Io festeggio restando a
Casa mia —
Un Uccello Canterino fa
il Corista —
E un Orto serve da
Cupola - [324]
C'è un certo Taglio di
luce,
Nei Pomeriggi d'Inverno
—
Che opprime, come il
Peso
Della Musica nelle
Cattedrali — [258]
Guidacci aveva tradotto:
V'è un angolo di luce
nei meriggi invernali
che opprime come musica
d'austere cattedrali.
Ed Errante, non proprio
felicemente:
C'è un certo taglio
obliquo di luce
Nei pomeriggi d'inverno
—
E opprime come il peso
delle note
Di una cattedrale —
Guidacci, vediamo
subito, italianizza e mira al senso, addirittura rispetta la rima. Tarozzi
comunica la stranezza (vera o presunta) del testo, ne elude il parallelismo di
rima e sintassi (conservato da Guidacci) e incespica nell'inelegante serie
"il Peso / Della Musica nelle Cattedrali", laddove l'originale ha al
secondo e quarto verso, in parallelismo, un sintetico aggettivo+sostantivo,
senza articolo:
There's
a certain Slant of light,
Winter
Afternoons —
That
oppresses, like the Heft
Of
Cathedral Tunes —
Guidacci esce
vincitrice, direi, dal confronto, con la sua versione elementare, anche se si
può discutere sul problema di ortografia e punteggiatura. Del resto la
traduzione Guidacci è certo pre-johnsoniana, basata cioè su un testo inglese di
questo tipo:
There's
a certain slant of light,
On
winter afternoons,
That
oppresses, like the weight
of cathedral tunes. (3)
Ancora oggi, qualcuno
sostiene che un'edizione di lettura (non critica) di Dickinson dovrebbe
procedere a questo tipo di regolarizzazione ortografica, affermando che se
Dickinson avesse pubblicato essa stessa o certo i redattori avrebbero proceduto
a questa messa a punto. Ma visto che essa non pubblicò quasi, sembra logico
conservare le bizzarie di ortografia e punteggiatura anche per segnalare questa
qualità inedita del testo, far sentire la sua storia materiale. Ogni curatore
comunque sceglierà secondo le proprie convinzioni e lo scopo dell'edizione.
Simile e diverso il discorso per la
traduzione. Dickinson aveva abitudini grafiche personali comunque significative
all'interno di un certo contesto di abitudini culturali. Riportare in un'altra
lingua l'aspetto grafico dell'originale significa immetterlo in un altro
sistema segnico, e dunque non dovrebbe essere scelta automatica. E infatti
Guidacci ed Errante hanno eliminato la maiuscola dickinsoniana. Intendo dire
che una maiuscola ha un certo senso in inglese (dove fino al settecento e oltre
essa si usava abitualmente per enfasi), un altro senso in italiano, specialmente
in quello di oggi, dove l'enfasi della maiuscola porta alla mente ricordi
sgradevoli di retorica religiosa e patriottica. E infatti oggi la maiuscola è
usata soprattutto per ridicolizzare i Massimi Sistemi. Pensiamoci dunque due
volte prima di costellare i delicati testi di Dickinson di quelli che non
possono non risultare dei pugni nell'occhio, che rendono più ardua la lettura.
Anche perché Dickinson usava maiuscola e minuscola secondo l'estro del momento,
cambiandole da una versione all'altra della stessa poesia: era un dato non
forte; mentre nella nostra convenzione tipografica è fortissimo.
Queste le ragioni per cui mi sembra
preferibile uniformare l'ortografia di una traduzione di Dickinson all'uso
italiano contemporaneo, per quanto riguarda la maiuscola enfatica, mentre sono
d'accordo per conservare quando si può la punteggiatura, cioè l'ambiguo
trattino, segno debole, che alleggerisce più che
appesantire il testo, e
ne segnala sottilmente le fratture che il lettore deve in qualche modo
colmare:
Vi è una certa
inclinazione di luce,
i pomeriggi d'inverno —
che opprime come il peso
di musiche di cattedrale
—
Così, evidentemente
senza consultare la Guidacci, ho tradotto nell'edizione da me curata nel 1995,
che comprende 358 poesie, ed è dunque di poco meno ampia di quelle di Guidacci
ed Errante. Ho cercato una scorrevolezza
senza troppe
brutture, e senza troppo
regolarizzare e italianizzare come fa la Guidacci. Conservare i vuoti, ma non abbandonare il
lettore fra parole in libertà. Perché
una sua dicibilità discorsiva e scorrevole il testo Dickinson ce l'ha, ed occorre
far vedere che i trattini sbilanciano solo leggermente un discorso compatto,
sicuro del proprio senso: tanto sicuro e colloquiale da valersi di anacoluti e
pause per divenire più espressivo. Le fratture cioè indicano una maggiore forza
comunicativa, un gesto più
compiuto, non sono
necessariamente indici di frammentismo. E' vero che lavorando alla traduzione e
consultando colleghi ed esperti americani ho potuto verificare quanto poco i
connazionali di Dickinson sappiano spiegarsi alcuni passi difficili: ma questo
credo dimostra solo una certa ottusità del lettore. Certo, Dickinson scriveva e
parlava volentieri per indovinelli, ma gli indovinelli erano una sfida che prevedeva
una risposta, erano un modo di coinvolgere l'interlocutore. Conclusione, a volte il
traduttore serio capisce
meglio i testi classici di un'altra cultura dei nativi, che si accontentano
(come egli non può fare) di una comprensione approssimativa. Così, per ogni poesia nella mia edizione ho
fornito una breve nota interpretativa, oltre
all'indicazione della
metrica. Le spiegazioni possono sembrare superflue e banali, ma l'esperienza
insegna (come ho detto) che non solo i connazionali del traduttore ma anche
quelli dell'autore possono trovarle utili (se non altro come un'opinione con
cui discordare). Quanto alle notazioni metriche, questo è un campo poco
esplorato dai traduttori, che però la Guidacci più di altri (a giudicare dai
nostri esempi) sembra aver sentito se non studiato. E anche a me sembra che in testi arguti come
quelli di
Dickinson conservare una
rima o assonanza in certi punti sia auspicabile. Ho molto riflettuto su
There
is a finished feeling
Experienced
at Graves —
A
leisure of the Future —
A
Wilderness of Size. [856]
Graves-size è una tipica rima
anomala dickinsoniana: vocali in parte diverse (/ei/ /ai/) seguite da
consonanti in parte diverse (/vs/ /z/). Eppure è una rima, e tiene insieme la
quartina:
C'è un senso di finito
che si prova alle tombe
—
una vastità di futuro —
una selva di forme —
Come si vede, ho anche
preferito iniziare i versi con la minucola, per quanto alcuni poeti italiani
usino la maiuscola come in inglese. Ma mi sembra che il testo sia così più
leggibile, dica meno "piacere, sono una poesia" — il che è un bel
vantaggio. La regola è la seguente:
usare l'ortografia che meno distragga il lettore della traduzione dal tono e
dal testo, che più corrisponda a quel tono e quel testo. Non voglio dire di esserci riuscito, nemmeno
nei versi citati sopra, su cui ci si potrebbe soffermare.
La traduzione che ho appena citato si trova
però non nell'edizione Oscar da me curata ma in quella Meridiani. Questa
infatti comprende le vecchie traduzioni di Guidacci (392), raramente e
parcamente da me ritoccate, 27 traduzioni di Nadia Campana, 1174 traduzioni di
Silvio Raffo e 185 mie. Come si è giunti a questa spartizione curiosa fra
traduttori viventi e defunti? (Anche la Campana, una poetessa amica di Antonio
Porta, è morta, suicida.) Nel 1995 fui contattato dalla redazione dei Meridiani
che mi proponeva, su suggerimento della curatrice dell'edizione, Marisa
Bulgheroni, la revisione delle traduzioni già in bozze (Guidacci, Raffo,
Campana). Accettai, e mi trovai davanti al problema di uniformare, almeno un
poco, versioni assai disparate. Quelle
Guidacci le conosciamo; Campana aveva in effetti offerto libere riscritture, e
spesso non aveva capito il senso del testo; Silvio Raffo aveva fatto un lavoro
colossale e appassionato, ma aveva scelto di conservare le maiuscole di
Dickinson. Dunque per
prima cosa procedetti a uniformare in basso tutte le maiuscole, prendendo come
standard Guidacci ma lasciando a Raffo i suoi trattini e a Guidacci la sua
punteggiatura per lo più normalizzata. Quanto allo stile di Raffo, questi è un
poeta come era Guidacci, per cui ha sempre cercato di comporre dei bei versi,
eufonici, una poesia italiana. Fortunatamente, egli è anche molto attento
all'originale, ed era riuscito quasi sempre a non cadere nelle sviste in cui
tutti cadiamo:
Solenne cosa — io dissi
—
essere donna nella veste
bianca —
e indossare — se Dio me
ne fa degna —
il suo immacolato
mistero — [271]
E' una traduzione
insieme bella e di servizio. Si può confrontare con quella più letterale nella
mia edizione Oscar:
Era — dissi — cosa
solenne
essere — una donna
bianca
e indossare — se Dio mi
giudicava degna —
il suo mistero innocente
—
Ma Raffo è riuscito a
conservare la posizione delle parole del primo verso:
A
solemn thing — it was — I said —
A
woman — white — to be —
And
wear — if God should count me fit —
Her
blameless mystery —
Raffo tende anche ad
amplificare, scrivendo "donna nella veste bianca", dove Dickinson ha
"woman white". In questo egli in fondo segue le orme di Guidacci, vuole
un testo che si capisca nei suoi termini, non è schiavo dell'originale.
Il mio compito era dunque controllare che
questa lodevole libertà dei traduttori non andasse a volte oltre il lecito,
fino cioè al fraintendimento. In quest'ultimo caso, se si poteva salvare la
fedeltà con un ritocco discreto, lo proponevo all'editore; se occorrevano
interventi più pesanti, rifacevo la versione. Il risultato, s'è visto, è che in
definitiva ho sostituito 185 traduzioni di Raffo, Campana e Guidacci con traduzioni
nuove mie, il che è stata la mia parte di divertimento e sofferenza. Fra esse
la poesia 856, citata sopra. L'esito è
un'opera in cui permangono evidentemente delle difformità, a differenza delle
tre ampie scelte precedenti di Guidacci Errante e mia, che hanno il pregio di
rispondere a un progetto singolo. Ma anche nelle versioni del Meridiano
Dickinson c'è perlomeno continuità, cioè fra i vivi e i morti ci si è capiti e
apprezzati a vicenda. (Io perlomeno ammiro Guidacci e trovo quasi sempre
giustificate le scelte di Raffo. Come abbia fatto da solo, senza una grandissima pratica della lingua
americana dell'Ottocento, a sfidare con successo oltre mille rompicapi della
Dickinson resta un mistero, e un record.) E forse tutti abbiamo capito
abbastanza — e in modo non troppo dissimile — la parola di Emily.
Note:
(1) 1997. Nel 1998 sono uscite biografie
critiche di Adriana Cenni e Barbara Lanati, nel 1999 uno studio di Paola
Loreto, nel 2001 una biografia di Marisa Bulgheroni. Per una bibliografia
aggiornata rimando al volume da me curato E. Dickinson, Poesie, Milano, Mondadori, 2004.
(2) Montale, Sulla poesia, pp. 498-99.
(3) Matthiessen, Oxford Book of American Verse
(1950), p. 429.
(4) Nella nuova edizione del 2004 le
poesie tradotte sono 581.