Massimo Bacigalupo
Byron e i becaficas
Sono passati 190 anni da quando
Lord Byron morì nella povera Missolungi, dove portava il suo contributo alla
causa dell’indipendenza greca. Tutti lo conosciamo se non altro di nome come un
bel tenebroso, e magari abbiamo nell’orecchio le note dell’Aroldo in Italia di Berlioz, liberamente ispirato a quella che fu
la sua opera più popolare in vita, Pellegrinaggi
del giovane Aroldo, romantici viaggi lungo il Mediterraneo di un
personaggio autobiografico: “Nei santi precinti di Santa Croce giacciono /
ceneri che più santi li rendono, polvere che è / essa stessa un’immortalità...”.
Oppure: “Ho sostato sul Ponte dei Sospiri...”. Non è il grande Byron, ma è
quello che ha messo in mano a migliaia di turisti dell’Ottocento un prontuario
delle cose da vedere e fare girando per l’Europa. Il Lord antesignano del
turismo di massa e dei sentimenti a buon mercato.
Byron fu lanciatore di mode (in
primis quella sua) e una geniale presenza, autore di opere che ci parlano di
una vera e non posticcia immortalità, giacché hanno il vigore e il frizzo di
una voce attuale, mobile, vivacissima, salace, anche commossa ma sempre sul
punto di mutare registro. E’ il Byron dei capolavori, cioè le lettere e il Don Juan, cioè il poema su un altro eroe
semiautobiografico che lo impegnò negli ultimi anni italiani e che è uno spasso
infinito. Purtroppo non ve ne è oggi (2015) in libreria un’edizione italiana integrale. Dell’epistolario
esiste invece una generosa scelta nel volume Vita attraverso le lettere curato da Masolino d’Amico (Millenni
Einaudi): per chi ha difficoltà con l’originale, un libro che non dovrebbe
mancare in nessuna biblioteca.
Perché, come scrisse Giuseppe Tomasi
a proposito del Don Juan, “la varietà
ritmica, il tono beffardo spesso e malinconico talvolta, le deliziose figure
delle amanti... la straordinaria varietà dei temi... l’ironia e la tenerezza,
la levità del tocco, la divina svagatezza, tutti questi elementi commisti e
inoltre esaltati dalla perfezione del verso [o dello stile] rendono la lettura
di questo insigne capolavoro una delle esperienza più deliziose che un uomo di
cultura possa attraversare”.
Deliziose? Sì, ma occorre
aggiungere che in fondo da bravo genio romantico Byron ci fornisce delizie non
solo epidermiche, pensa sempre all’essenziale oltre che al frivolo, e ha una
maniera straordinaria di svalutare l’effimero o porlo nei suoi veri limiti
senza per questo negare quanto gli piaccia un piatto di becaficas: “Mi piace avere beccafichi a cena; / guardare il sole
che tramonta, certo / di vederlo risorgere domani; / e non baluginando
fiaccamente fra le nebbie...”. Cioè gli piace l’Italia, ’o paese do’ sole.
La citazione viene da Beppo, buffo poemetto veneziano che fece
da battistrada al magnifico Don Juan.
T.S. Eliot citava “I also like to dine on
becaficas” in epigrafe al suo primo libro di saggi, Il bosco sacro, senza indicare, burlone, la fonte, e prima di Google
chissà quanti si chiesero da dove
venisse la frase. Byron infatti è sempre piaciuto anche ai raffinati ironici
(nel Novecento appunto Tomasi, Eliot ma anche Auden e Isherwood, persino Pound tentò
un poemetto byroniano).
Prendo molte di queste
citazioni e informazioni da un recente imponente volume: Vincenzo Patanè, L’estate di un ghiro. Il mito di Lord Byron
attraverso la vita, i viaggi, gli amori, le opere (Cicero editore). Tutto
quello che volevate sapere su Byron è qui raccolto efficacemente in pagine di
grande formato che pure sono scritte con precisione e gusto non indegni dell’argomento.
Patanè, napoletano di origine e
veneziano di adozione, autore di studi sulla cultura omosessuale, confessa alla
fine di avere incontrato Byron per caso a undici anni: “da allora ha colorato
positivamente la mia vita, dando finalmente un senso preciso alla fiacca
banalità del quotidiano”. Un giusto senso dei valori e disvalori, ecco quanto
Byron può ancora darci pagina dopo pagina.
Una vita dunque dedicata al
grande e piccolo claudicante Lord. Ma Patanè lo tratta sempre con giusta
distanza critica, lasciando parlare lui (anche se in traduzione), come segnala
Masolino d’Amico nella prefazione, sostenendo fra l’altro che il libro di Patanè
costituisce una tappa importante nella fortuna e rivalutazione continuamente in
corso del “Nostro”.
Patanè riesce a costruire le
sue 569 pagine senza cadere nel racconto meramente biografico. Non segue cioè
un ordine strettamente cronologico, anche se inizia con il retroterra familiare
e dopo aver presentato “Il bel tenebroso” e “Lo spartano sibarita” (B. era
grande sportivo, si sa), passa a “Il ribelle e l’esule”, qui praticamente
concludendo la parte strettamente biografica. Seguono undici capitoli tematici:
“Le donne”, “La moglie” (una storia complicata), “Le figlie” (già, c’erano
anche quelle, ma una sola, la legittima Ada, sopravvisse per divenire più o
meno l’inventrice ante litteram del PC: quando si parla di geni...).
Infine, “I ragazzi”: e qui
Patanè fornisce molto materiale basato anche su studi recenti che non lascia
dubbi sui “romantic attachments” con giovani
del poeta, veramente onnivoro ma sempre passionale. Anche se esiste una vena di
“sesso sfrenato” di cui egli godè (?) soprattutto a Venezia dove incaricava il
suo gondoliere di procurargli per pochi spiccioli (era notoriamente avaro) le
compagne di alcova. Cosa che disgustò il pur tollerante ma sempre alato Shelley
quando visitò Byron a Venezia per perorare la causa della figlioletta Allegra,
dal Lord, in questo per una volta figlio del suo tempo disumano, relegata in un
convento dove morì bimbetta.
Patanè offre di seguito un tour
dell’opera e dei rapporti con editori e scrittori (detestati i contemporanei
romantici eccetto Shelley), fornendo riassunti, citazioni, notizie sulla genesi
di tanti versi, lettere, diari. Poi la storia ferale del rogo delle memorie manoscritte
deciso dai sedicenti amici appena giunta a Londra la notizia della morte. E il
cadavere che arriva in patria in un barile di alcol e viene esposto a pagamento
a Westminster.
Byron politico è altro grosso
argomento, che Patanè tratta per esteso in conclusione (“L’amore per la
libertà”): l’accesa protesta contro la spoliazione dei marmi del Partenone
compiuta dal connazionale Lord Elgin... Oltre a farci sempre sorridere
partecipi, Byron è anche “il difensore della libertà delle nazioni e degli
uomini, in particolare degli indifesi e dei succubi...” Insomma il Byron
romantico, uno Shelley più mondano, riappare come un uomo che lotta modernamente
per giustizia, libertà, eguaglianza. L’ironia e il sarcasmo non necessariamente
portano al cinismo. Byron è dunque più che
mai meritevole di un monumento (e di qualche sberleffo), e Patanè ne ha
costruito uno notevole in questo suo L’estate
di un ghiro.
Perché lo strano titolo? In una
lettera del 1813 Byron dice che la vita è fatta in massima parte di sonno e
gesti abitudinari, sicché ciò che resta di “vera esistenza” non è che the summer of a dormouse (si pronuncia
‘dornmaus’). Patanè interpreta il detto nel senso che data la brevità della
vita vera occorre viverla più pienamente possibile, godere di tutte le
esperienze. Io ho l’impressione che invece egli intendesse dire che la vita che
resta una volta sottratto tutto il banale è ben poca cosa, lo spazio dell’estate
di un ghiro mai del tutto sveglio. “E la nostra piccola vita è circondata dal
sonno”, come diceva qualcuno. Ma il titolo di Patanè conserva la sua efficacia
comunque lo si interpreti. Anche la vita più straordinaria è solo vanità. Non
che non valga la pena di viverla e raccontarla.
“il Manifesto-Alias”, 26 ottobre 2014